Capitolo uno: Sulla strada-3

1512 Palabras
In sottofondo sentì Wes e Junior grugnire e parlare. Dalla sua prospettiva, Patrick riusciva a vedere solo i capelli della donna, ma tremavano come se stesse annuendo. Poi tastò il canale uterino, e le dita trovarono la testa del bambino. Non era podalico, ma quella donna era quasi completamente dilatata. Patrick tolse la mano e poi i guanti, richiuse le gambe di Eleanor, e le rimise la coperta. «Può darmi il polso per sentire il battito?» Eleanor lo tirò fuori da sotto le coperte e glielo porse. Patrick contò i battiti con lo sguardo sull’orologio da polso. Quando ebbe finito, si chinò su di lei. «E ora le ascolterò il cuore. Abbassi giusto un po’ le coperte, va bene?» La donna parlò per la prima volta. Una voce giovane, quasi infantile, piena di paura e dolore. «Va bene.» Eleanor arrotolò giù la coperta. «Sentirà un po’ di freddo.» Patrick strofinò lo stetoscopio sulla mano per scaldarlo, poi lo fece svicolare sotto la camicetta, verso il cuore. All’orecchio sentì un regolare tum-tum-tum. Era forte e in salute. «Bene. Ora, un’ultima cosa. Le eserciterò un po’ di pressione sul ventre. Potrebbe provare un po’ di disagio, ma voglio solo controllare il bambino.» Lei annuì. «Va bene.» Patrick fece scivolare le mani sotto il bordo laterale della coperta. Le palpò il ventre finché non capì la posizione, la collocazione e il movimento del bambino. Poi cercò il battito con lo stetoscopio, lo trovò e ricominciò a contare i battiti sull’orologio. Non poté fare a meno di tirare un sospiro di sollievo. Tutto andava come doveva, a parte il fatto che erano bloccati nel mezzo della strada in una bufera lontani dall’ospedale con una nascita imminente. «Brava, Eleanor. Sembra tutto a posto.» Lei gli rivolse un sorriso debole. «Posso girare il pick-up?» Chiese Junior oltre la testa della moglie. «Sì, ho finito. Eleanor, ritorno tra un attimo.» Patrick tenne lo stetoscopio attorno al collo ma mise la borsa da medico a terra in macchina e chiuse la porta. Poi si strofinò di nuovo le mani con la neve. Junior si sedette sul sedile del conducente, poi riportò di nuovo il pick-up in strada, girandolo nel mentre. Wes si mise in piedi accanto a Patrick, appoggiandosi sulla pala e ansimando. «Be’?» «È completamente appianata e la cervice è dilatata di circa otto centimetri. Ma questo è il suo primo bambino, quindi penso che riusciremo ad arrivare alla clinica se ci affrettiamo. Io dovrei andare con loro.» «Perfetto. Ci vediamo lì.» Wes sparì nella tempesta. Junior fece marcia indietro e si fermò. Uscì fuori e andò a tenere ancora la mano della moglie. Patrick si unì a lui. «Sta bene, Eleanor?» Lei annuì, e sorrise per un momento, prima di lasciarsi sfuggire un altro grugnito, che poi degenerò in un lungo urlo. Patrick lanciò uno sguardo all’orologio. Le contrazioni erano a circa cinque minuti di distanza una dall’altra, forse un po’ meno. Quel bambino sarebbe arrivato a breve. Quando la contrazione di Eleanor passò, Patrick disse, «Junior, Eleanor, va tutto bene, e penso che riusciremo ad arrivare in clinica. Che ne dite se vengo con voi?» I due concordarono, e Junior sembrava frastornato in merito. Patrick si sistemò sul sedile anteriore. Junior guidava più veloce di quanto Patrick si sentisse a proprio agio, ma non disse una parola. Di tanto in tanto guardava dietro, sconvolto ogni volta che vedeva Wes tenere il passo. Patrick controllava Eleanor e la rassicurava. Cercò di chiacchierare un po’ con Junior, ma il quasi padre sembrava troppo nervoso per sostenere una conversazione. Quindici minuti dopo, il pick-up arrivò a un edificio in stucco a un piano. Era un rudere, la clinica IHS più antica esistente, costruita dall’esercito americano nel 1814 come spaccio militare di cavalleria. Junior scelse uno degli spazi nel parcheggio lì davanti. Anche Gussie si fiondò nel parcheggio, vomitando neve mentre Wes parcheggiava il Travelall accanto al pick-up Dodge. «Siamo qui. Solo un attimo, Eleanor», disse Patrick. Wes li precedette dentro, poi riemerse all’estremità di una lettiga con Constance Teton, alta e dall’aspetto atletico. Medico dell’esercito e infermiera qualificata alla riserva, Constance gestiva la clinica. I capelli della donna erano intrecciati in una treccia che partiva dalla fronte e penzolava dietro, mettendo in mostra la meravigliosa struttura ossea delle guance, del mento e dell’arcata sopraccigliare. Ma erano gli occhi la caratteristica migliore. Da cerbiatto, marroni, limpidi e dalle ciglia spesse. Patrick uscì fuori. «Ciao, Constance. Grazie.» Lei gli fece l’occhiolino. Quella donna era estroversa e sicura, oltre che bella, e nell’ambiente informale della clinica, erano diventati amici con una missione in comune. L’ultima volta che era stato alla clinica, mentre pranzavano nella stanza del personale, lei gli aveva detto che da adolescente sognava di scappare a Hollywood ma non aveva i soldi per il viaggio. Il suo piano B era una borsa di studio per il basket al college. Poi si era fatta male al ginocchio, cosa che l’assistenza sanitaria indiana non copriva. Con quella speranza svanita, firmò un contratto per l'esercito. «Prossima fermata Vietnam», aveva detto lei. «Due mandati. Un matrimonio quando ero a casa in congedo.» Constance aprì la porta posteriore del pick-up. L’espressione contenta sparì dal suo viso. «Oh. Ciao, Eleanor. Junior.» Parlava con freddezza. Junior le rivolse un cenno del capo senza parlare. Patrick si corrucciò. Prima che potesse valutare il motivo di quello scambio imbarazzato, arrivò il momento di trasferire Eleanor sulla barella. Wes la prese per le spalle. Patrick le sostenne la regione lombare. Constance portò le coperte dei Manning e avvolse la donna. Nel giro di qualche secondo, dei fiocchi di neve costellarono la coperta e i capelli di Eleanor. La donna era minuta, fatta eccezione per il viso e la pancia gonfi dal travaglio. Una motoslitta parcheggiò accanto a loro e una figura in tuta bianca, dall’aspetto e le movenze dell’abominevole uomo delle nevi, uscì fuori. Mentre metteva il casco sul sedile della macchina, Patrick vide delle brutte cicatrici rosse sulla guancia destra e sulla mandibola. «Dottor Flint.» Riley Pearson alzò una mano per salutare senza ricambiare lo sguardo di Patrick, poi aprì il parka da caccia imbottito di pelliccia. Riley faceva lavori di manutenzione e giardinaggio alla clinica. Era introverso, ma gentile e disponibile. Che il disagio sociale fosse un risultato dell’incidente o della personalità di quell’uomo, Patrick non lo sapeva, proprio come non sapeva se Riley fosse indiano o no, con quei capelli castano chiaro e gli occhi verdi abbinati agli zigomi alti e il naso aquilino. Patrick disse, «Ciao, Riley. Ce l’hai fatta.» Riley di solito guidava una motocicletta d’epoca. Non proprio il veicolo ideale per quelle condizioni. Riley annuì. «Hai bisogno di una mano?» Constance gli fece segno di avvicinarsi. «Prendi il mio lato. Io preparo la stanza.» «Va bene.» Riley mise i guanti in tasca e afferrò una lato della barella. Lui e Wes si diressero verso la clinica, con Junior alle calcagna. «Abbiamo Eleanor sotto controllo, dottor Flint, se vuoi prepararti.» Constance ritornò verso la porta mentre parlava. «Grazie.» Constance si girò ed entrò, e Patrick prese la borsa da medico dal Dodge. Mentre si avvicinava alla porta della clinica, notò un pick-up ammaccato e arrugginito parcheggiato sul lato opposto dell’edificio. La portiera del conducente era semiaperta, e un lungo stivale penzolava fuori. «Scusi?» urlò lui. Non ci fu movimento né risposta. Attento a non scivolare e cadere con le scarpe da corsa, Patrick trotterellò verso il pick-up. Il motore era spento, ma sentiva ancora l’odore di gas di scarico, come se fosse stato acceso fino a poco prima. «Scusi?» Patrick sbirciò dentro. C’era un uomo. «Signore?» L’omone era accasciato sul volante, la guancia marrone attempata premuta contro di esso, la bocca aperta e una ciocca di capelli su un occhio vitreo mentre l’altro fissava il vuoto. Il cappello grigio da cowboy in feltro era in bilico nello spazio vuoto tra il pavimento e la porta leggermente aperta. Una piuma d’aquila sulla parte frontale era eretta ma sferzata dal vento. Un dado di peluche oscillava nel vento dallo specchietto retrovisore. Patrick mise due dita sulla carotide per sentire il polso. Niente. L’uomo era morto. Morto stecchito. Per un momento considerò di fare un massaggio cardiaco, ma era chiaro che fosse lì da un bel po’. Non c’era niente di peggio di qualcuno che moriva nelle sue cure, anche se quell’uomo non era ancora suo paziente. Fosse se avesse avuto la possibilità di curarlo, sarebbe sopravvissuto. Ma Patrick sapeva che doveva farselo scivolare addosso, entrare dentro e far nascere un bambino. Non aveva tempo di esaminarlo e capire cosa fosse successo. Una persona muore, un’altra nasce. Era il cerchio della vita, e il dovere primario di Patrick era verso i vivi. Così alzò il piede dell’uomo e lo rimise nel pick-up. Era umiliante lasciarlo così, mezzo fuori mezzo dentro. Quell’uomo non sarebbe andato da nessuna parte e fuori faceva un freddo cane. Doveva restare così finché non sarebbe nato il bambino. Poi Patrick si sarebbe fatto aiutare a portarlo dentro e avrebbe chiamato la polizia. «Scusa, amico mio.» Patrick chiuse la portiera e corse all’entrata della clinica.
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