Ardelia
Primo capitolo. RequiemRequiem aeternam dona eis, Domine
Et lux perpetua luceat eis
Io non ci sono, al mio posto c’è un dolore. Mi sento grigia e sgretolata, come quegli angeli dolenti che ornano le vecchie tombe, con le facce erose dalle intemperie. Stanno lì, a difendere nel tempo una memoria sempre più labile, ma non per loro.
È da stamattina che piango e mi dondolo e Rashid mi ha lasciato soltanto per andare a mangiare un boccone e avvertire la mamma. Adesso è con me sul sedile di fianco, in silenzio. Ascolta questa musica che non conosce, queste parole che non comprende, questa geometria celeste che s’innalza oltre la paura e oltre il giudizio, e di tanto in tanto socchiude gli occhi. Rashid è un grande bambino.
È da stamattina che diluvia, senza tregua, quasi come se i venti avessero spinto le nuvole per farle convergere su questa piccola, minuscola morte.
Kyrie eleison
Christe eleison
Kyrie eleison
Rashid ha suonato al mio citofono alle otto, stava andando a scuola, ma poi non c’è più andato, anche se io ho insistito, devo dire non troppo, perché mi atterriva l’idea di restare sola.
“Ti ci accompagno io, così lo prendiamo e lo portiamo a casa”, ha detto.
Ho afferrato una vecchia coperta, l’ombrello. Era da tanto che non mi dava fastidio un’aritmia che mi tiro dietro dall’infanzia, e sentivo le extrasistole sfarfallarmi sotto allo sterno, ma era l’ultimo dei miei problemi.
“Ce l’hai un ombrello per te?”, gli domando.
“Sì Ardelia, ce l’ho, non preoccuparti per me: andiamo, che è sotto l’acqua e si bagna tutto”.
...Tanto l’acqua ormai non potrà più dargli fastidio...
Abbiamo corso tra i vicoli tenendoci per mano, senza manco aprire gli ombrelli che ci avrebbero dato soltanto fastidio, sbatacchiando qua e là contro le pareti delle case troppo vicine.
E l’ho visto.
Uno straccio di pelo bagnato, ho riconosciuto il mantello, anche se non gli somigliava più. Era un mucchietto di materia spenta, ceneri esauste dopo un devastante rogo interno causato dal veleno.
Dies Irae, dies illa
solvet saeculum in favilla,
teste David c*m Sybilla.
Sono caduta in ginocchio, mi è uscito solo un mugolio, ho alzato gli occhi al cielo grondante e ho incrociato lo sguardo di Rashid che forse non capiva, ma meravigliosamente non giudicava. Ha aperto il suo ombrelletto verde e me lo ha messo sulla testa, perché io potessi compiere il mio lamento funebre al riparo dalla pioggia martellante.
Ho ripetuto il suo nome, quasi l’ho gridato, dondolandomi avanti e indietro perché sempre ho dondolato nel dolore. Il bambino mi ha sfilato la copertina che tenevo arrotolata sotto all’ascella e ha coperto il piccolo corpo. Allora mi sono ripresa, sono ritornata al mondo, anche se il mondo era ridotto a un vicolo buio e lustro d’acqua, con il chiasso delle grondaie che vomitavano e singhiozzavano.
Ho avvolto la piccola cosa, era rigida, ho sentito il freddo attraverso il pelo e la coperta. Non c’è niente di più freddo, totalmente freddo, di un corpo morto.
Misero corteo funebre Rashid e io, lui quasi in punta di piedi per tenermi l’ombrello, non parlava: forse conosceva la mestizia di una perdita e sapeva benissimo che non c’è niente da dire. Lo zaino gli sbatacchiava sulla schiena perché camminava storto proprio per tenere alto l’ombrello, che stringeva nella mano olivastra e grassoccia e con l’altra mi dava piccoli, timidi colpetti sul braccio. Mi sono voltata verso di lui e due grosse lacrime gli colavano piano sulle guance paffute, ancora da bimbo. Altre due erano già pronte nei suoi grandi occhi color cioccolato. Lo avrei abbracciato, ma non potevo.
Tuba mirum spargens sonum
per sepulchra regionum,
coget omnes ante thronum
Siamo arrivati davanti alla porta di casa, gli ho allungato le chiavi e lui ha aperto.
“Tu adesso devi andare a scuola, sei già molto in ritardo”.
“Io non ci vado!”.
“Perché? Adesso devo pensarci io”.
“Perché io sola non ti lascio, fino a quando lo avremo sepolto”. E mi ha guardato con una determinazione che mi ha impedito di parlare. Non piangeva più, forse s’era asciugato di nascosto le lacrime, lui è un piccolo uomo e come tale doveva essermi di conforto, non poteva abbandonarsi al pianto.
“Allora se proprio non vuoi andare a scuola...”.
“Però glielo dici tu alla mamma che non ho potuto, vero?”.
“Certo, ti giustifico io. Però tu adesso mi fai un piacere”.
“Quale?”.
“Vai in cucina e prepari una caffettiera. Sei già capace?”.
“Sì che sono capace, anche se quella della mamma è diversa, ma l’ho già visto fare da altri. Ma tu dove vai?”.
“Io starò in bagno per un po’ di tempo”.
“Ma stai bene? Cioè, lo so che non stai bene, ma voglio dire, non ti senti mica male?”.
“No, sto bene... Non è per me: devo preparare il mio piccolo per la sepoltura. Lo capisci?”.
Ha annuito ed è andato in cucina. Ha guardato il barattolo del caffè sul ripiano vicino al microonde e la caffettiera sullo scolapiatti. Ho ritenuto che se la sarebbe cavata.
Sono andata in bagno, quello grande. Ho posato il mio fagotto sul fondo della vasca, sono uscita, mi sono chiusa la porta alle spalle e sono sparita in dispensa, dove conservo alcuni kit di lavoro. Sono tornata in bagno con il necessario, cellulare compreso, e ho girato la chiave. Ho foderato la vasca con un telo impermeabile e con la faccia lavata dal pianto ho cominciato il mio lavoro di sempre. L’ho aperto, ho prelevato sangue, residui dello stomaco, tessuto epatico, rene e surrene, polmone, milza e pancreas. Non potevo e forse nemmeno volevo aprirgli la zucchetta, ma sono riuscita a prelevare un campione di midollo spinale, anche se non ho potuto congelarlo, pazienza. Ho giudicato che ci fosse materiale sufficiente per stabilire che il mio amore non era morto di vecchiaia. Ogni campione nel suo apposito contenitore sterile. In fretta nella borsa frigo. All’interno della cavità toracica ho riscontrato la presenza di liquido siero-emorragico. Il cuore era aumentato di volume, con un aspetto globoso e il miocardio si presentava piuttosto flaccido. Polmoni espansi di colorito rosso cianotico, edematosi. Versamento siero-emorragico anche nella cavità addominale. Fegato congesto e aumentato di volume. Reni e surreni congesti. Una catastrofe! Ho telefonato a Ughetto, che mi ha risposto con la sua voce funeraria, quanto mai adatta.
Ha cercato di obiettare, ma io sono andata avanti con la freddezza del vero leader che non ammette repliche. Gli ho dato quindici minuti per venire a prendere i campioni. Nel frattempo ho telefonato alla mia amica Silvana, anatomopatologa al Galliera.
“Sì lo so che quello che ti chiedo non è legale, ma se non lo fai tu, prendo la macchina, vengo lì e me lo faccio da sola!”.
Ho ricucito, ho pettinato il pelo senza vita, gli ho chiuso gli occhi per non vederli opachi come nei miei clienti abituali. Ora era pronto per la sepoltura e nel frattempo avevo messo in moto la macchina della vendetta, la quale comportava un primo passo: conoscere la causa di morte. Ho richiuso il telo e l’ho infilato in un sacchetto. Sarei passata dall’ospedale prima di tornare a casa, per buttarlo tra i rifiuti. Se c’era del veleno, non era bene che si mischiasse alla ‘rumenta comune’.
Rex tremendae maiestatis,
qui salvandos salvas gratis,
salva me, fons pietatis
Da occidente un barbaglio di rame ha tagliato il grigio, sta smettendo di piovere ma un pulviscolo scivola ancora dalle nuvole incerte. Il tramonto arriva presto, d’autunno. La valle Arroscia si snoda verso le montagne, piana alla vista fino al primo bastione, il monte Fronté: oltre sono foreste, pascoli e solitudine, un altro mondo. E da quel mondo arriva il sereno, un vento color lavanda che spinge la nuvolaglia pesante verso est.
Ma non è un tramonto di pace; di pietà forse, ma non di pace, non per me. L’aria è troppo limpida, i contorni delle cose sono così netti che fa male guardarli, sembrano lame. L’ultimo sole è stanco, lascia strisce di sangue dove si posa. La giornata più brutta degli ultimi anni si sta spegnendo.
Abbiamo percorso una strada sterrata a pochi chilometri dalla città. Da qui si vede tutta la pianura che circonda Albenga, oltre c’è un mare di ferro ruvido, pieno di creste. Mi fermo, spengo il motore ma non tolgo il contatto. Scendiamo, fa freddo. Non chiudo le portiere per poter sentire Mozart. Faccio il giro dell’auto, apro il cassone e prendo la pala. Rashid non ha voluto lasciare il corpicino da solo durante il viaggio e lo ha tenuto in braccio. L’ho avvolto in un lenzuolo ricamato di quand’ero bambina. Ha chiesto di scavare lui la fossa, è un lavoro da uomini. Ho annuito.
Confutatis maledictis,
flammis acribus addictis,
voca me c*m benedictis
Adesso è accanto a me, ha piantato la pala quasi fino al legno nel terreno gonfio d’acqua e se ne sta lì senza sapere bene cosa fare. Non ha mai visto un funerale cristiano, e questo non lo è, però sente parole che si levano splendide e terribili in una lingua straniera, che è la lingua di un’altra religione. Il sole sta naufragando a occidente, ecco è andato e la montagna s’è coperta d’ombra. Forse sto meglio, non ne potevo più di riflessi metallici, di colate roventi sulle ultime nuvole, di cumuli e nembi e cirri altissimi straziati di rosso: almeno il buio nasconde, come la neve. Mi viene un ultimo sussulto di pianto e mi riempio di orrore pensando che a casa mi aspettano il suo cestone, i suoi giochini, sul davanzale c’è la sua erba e lui è un mucchietto di niente coperto di terra e presto corroso dalla decomposizione, composti azotati che tornano al ciclo della vita. Lui, Baciccia, non ci sarà mai più, con il suo carattere, i suoi vezzi, le sue meschinità, la sua vicinanza muta. È caduto nella trappola, la sua saggezza ingenua di animale non ha saputo prevedere, non c’era nessuno a difenderlo, ha sofferto atrocemente, s’è trascinato tra i vicoli, forse cercando di tornare a casa. Avrei dovuto capire, quando ha cominciato a piovere e non l’ho visto vicino a me, ma forse semplicemente non era in camera, magari era nella sua sabbietta, o in cucina o sul terrazzo, al riparo della tettoia a contemplare la notte. Il fatto che non fosse sul letto non significava un pericolo... Un sabato di riposo, niente sveglia alle sei e mezzo: è stato il campanello, Rashid... Mi sembrano trascorsi giorni, settimane e invece è solo questa mattina.
Niente sarà più come prima, non c’è rimedio al vuoto. L’assenza è memoria del dolore, è rinnovamento dello strazio, una specie di rampino, di arpione piantato nella pancia che tira verso il basso, verso l’inerzia, verso l’impotenza.
E io adesso devo tornare a casa e a casa Baciccia non c’è ad aspettarmi, perché è qui, in questo buco freddo e bagnato e a casa non comparirà mai più! Mi viene un conato di pianto così forte che mi faccio male alla gola. Allora Rashid mi sorprende. Mi viene vicino e mi parla.
“Dottoressa, vattene in macchina e chiudi gli occhi, ascolta la musica, che è così bella. Lo copro io”.
Quando arriviamo in Albenga c’è già buio.
“Di’ a tua madre che le telefono domani, questa sera non me la sento”.
“Okay, le ho già spiegato un po’, non preoccuparti. Sei sicura di stare bene? Ce la fai a stare da sola? Vuoi che venga un po’ la mamma, magari dopo cena?”.
Mi sentirei deficiente, chiunque potrebbe dire: ‘T’è morto semplicemente un gatto e tu hai cinquant’anni!’. Quindi meglio evitare. Solo che le cose non stanno esattamente così: Baciccia non era solo un gatto, era il mio convivente, ipocrita, opportunista e delizioso come in genere lo sono gli uomini, e io ho sì cinquant’anni, ma davanti alla morte di una creatura amata ne abbiamo tutti pressappoco cinque. Sarebbe troppo difficile da spiegare e non so nemmeno se avrei voglia di farlo. Quindi meglio declinare l’offerta, con garbo.
“Davvero Rashid, sto bene, sono triste ma sto bene, stai tranquillo, hai già fatto tanto per me”. Arriviamo davanti all’ingresso del suo carruggio, lui salta giù e sparisce in un attimo. Adesso arriva il bello. Faccio giusto quelle settemila manovre per infilare la mia auto nella rimessa, scendo, chiudo il portone sotto la pioggia sferzante e compio di corsa il breve tratto che mi separa da casa. E chi lo trova il coraggio di fare la scala, aprire la porta, accendere la luce dell’ingresso e trovarmi in un appartamento vuoto, in cui nessuno mi fa ‘miao’ che è stato per tanto tempo il miglior ‘buonasera’ del mondo?
Oh cazzo Ardelia, cerchiamo di non sbrodolarci nel dolore, che tanto non serve a niente! C’è un’indagine da portare avanti, devo scoprire l’identità dell’avvelenatore, a cosa farne di lui ci penserò dopo. Di sicuro non chiederò aiuto al buon Bartolo, come lo chiamo ogni tanto, che è a Roma a fare un corso di aggiornamento, una roba per diventare superpoliziotto come quelli americani. E non lo farò nemmeno al suo ritorno, perché i miei progetti nei confronti della persona che mi ha ammazzato Baciccia son tutto fuorché legali!