LIZ, ECCO LE OMBRE

2001 Parole
LIZ, ECCO LE OMBRE Camminando più lentamente del solito, Liz si meravigliava che que­gli spazi verdi potessero resistere così strettamente a contatto con le vivaci metropoli. Era come se i giardini iniziassero subito con il finire delle trappole di acciaio e smog. Lì c’erano aria fresca, aree all’aperto e una quiete che la città non avrebbe mai permesso. Provò nuova­mente timo­re all’idea di fare la pendolare se avesse dovuto lavorare. Frastuono del traffico, gente irritata e il bisogno senza fine di corre­re. Lei amava la cal­ma e, anche se si svegliava sempre presto, adorava crogiolarsi al pensiero che non doveva destarsi se non voleva. Un movimento tra le ombre catturò la sua attenzione, fermando per un attimo i suoi passi. Scosse la testa. Naturalmente non c’era niente. Era solo la luce che le giocava degli scherzi. Ma quella sensa­zione alla bocca dello stomaco non se andava e un leggero pizzicore sulla nuca la faceva sentire come se qualcuno la stesse osservando. Guardando velocemente il parco alle sue spalle realizzò qualcosa che non aveva ancora notato. Non solo non era seguita, ma era com­pletamente sola. Quella zona era di solito piena a quell’ora: sportivi che correvano, cani portati a spasso dai loro padroni e anziani seduti sulle panchine intorno alla grossa fontana al centro. Si fermò del tutto, sopraffatta da quella strana sensazione. Era martedì mattina ed erano solo le nove. Forse c’era un’importante ce­rimonia in città. O forse le previsioni avevano annunciato pioggia e tutti erano rimasti al chiuso. Guardò in alto al cielo blu sfolgorante, appena punteggiato di morbide nubi bianche. Poco probabile. Dunque, dov’erano tutti? Improvvisamente si sentì come una pro­tagonista dei suoi libri, pedinata da qualcosa di brutto e cattivo, qualsiasi creatura avesse scelto per quel particolare romanzo. Ma i suoi personaggi non sarebbero stati travolti dalla paura in una splen­dida mattinata come quella. Sarebbe accaduto di notte e loro si sa­rebbero smarriti in un luogo oscuro e malvagio. Un brivido la attraversò. C’era qualcosa di sbagliato, anche se era sciocco pensarlo. Non essere stupida, Liz, è solo un parco. Cercò di rassicurarsi ma, non riuscendo a liberarsi da quell’inquie­tudine, divenne ancora più determinata a non tornare indietro a tutta velocità. Non si sarebbe fatta spaventare dalla sua ombra. O da quella di nessun altro, tanto per restare in tema. Stringendosi le braccia al petto, ricominciò ad arrancare lungo il sentiero che percor­reva ogni giorno da quando non riusciva più a scrivere. Un altro luccichio le riaccese il campanello d’allarme nella mente, ma di nuovo si rifiutò di cedere alla paura. Pur guardando meglio non vide nulla. Ancora. Continuò a camminare con rabbia, decisa a non fermarsi anche se iniziava leggermente a sudare. E non per col­pa del caldo dell’Arizona. Non c’erano suoni di animali né cinguettii di uccel­li quando entrò nel bosco con più spavalderia di quanta vo­lesse mo­strare a se stessa. O magari era solo pura testardaggine. Che fosse dannata se si fosse fatta spaventare da una passeggiata su un sentiero. Non sono mia madre. Sua madre era schizofrenica e quando Liz aveva undici anni era com­pletamente impazzita a causa delle “visioni”. Per tutta l’infanzia di Liz c’erano stati segnali di malessere, ma la donna era riuscita a man­tenere un’apparente normalità fino all’undicesimo compleanno della figlia. Liz non avrebbe mai potuto dimenticare lo sguardo di sua madre mentre la chiamava diavolo, dicendole che era nera den­tro. O il modo in cui l’ave­va picchiata, affermando di voler proteggere le per­sone per bene dal pe­ricolo che lei rappresentava, fino a quando i vicini non avevano chia­mato la polizia. Ricordava a malapena cosa era suc­cesso in seguito fino al mo­mento in cui si era svegliata all’ospedale con una commozione ce­rebrale e qualche costo­la rotta. Da quella volta non aveva più rivisto la madre e da poco le avevano comunicato la sua morte. Liz aveva sempre chiamato rego­larmente l’istituto per avere sue notizie, ma il dottore si era raccomandato di non andare a tro­varla. La donna non aveva mai smes­so di dire che la figlia fosse il dia­volo e, anche dopo tutti quegli anni, i medici sostenevano fosse meglio non vedesse Liz per evitare un’altra crisi. Il gelo che sentiva dentro di sé non aveva niente a che fare con il par­co abbandonato in cui stava passeggiando. Riguardava invece il ricordo degli occhi di sua madre nel giorno in cui lei era stata bruta­lizzata. La donna era fermamente convinta di ciò che diceva ed era determinata a liberare il mondo dalla maledizione di una bambina demoniaca. Okay, ormai la passeggiata mattutina era rovinata. Si fermò e si guar­dò intorno, voleva uscire da quel luogo e dalle emozioni che le aveva evocato. Appena pensò queste cose si ritrovò faccia a faccia con… Cosa diavolo è? Un’alta figura fumosa la guardava da quelli che potevano essere definiti occhi, in base al modo in cui si muovevano e la seguivano. Erano delle piccole fosse simili a catrame che la fissavano dall’alto. La bocca era tale solo per via della fila di denti affilati e ammassati e del suono che proveniva da essa; come un sibilo o un sospiro, niente di rassicurante. Un grido le si strozzò in gola. Okay, questo non sta avvenendo. Forse i pensieri della cara mammina le avevano dato il potere di vi­sualizzare mostri che desideravano divorarla. Forse non era mai stata sola nel parco, forse tutto quello era avvenuto solo nella sua mente. Ehi, magari non si era neanche svegliata! Doveva essere così, stava avendo un incubo. Cercò con tutta la sua volontà di svegliarsi, ma non ci riuscì, così si pizzicò tanto forte da farsi quasi uscire il sangue. «Ow!» Dolore? In un sogno? Merda. Guardò l’essere mostruoso e vide quell’oscura ombra strisciante venirle vicino e dunque fece ciò che ogni rispettabile donna non de­siderosa di morire avrebbe fatto. Si mise a correre. * * * Ma che diavolo? Avevano scelto uno dei guerrieri più feroci per ucciderla? Perché ave­vano inviato un Varnish per usarla come ospite e non solo catturar­la? Wolff avrebbe potuto risolvere la cosa da solo trattandosi di una donna e non di un Guardiano. Keltor diede un ultimo sguardo agli oc­chi terro­rizzati della Custode e ringhiò mentre sguainava la spada. Peggio per Wolff, la creatura bastarda davanti a lui aveva vinto un ap­puntamento con la sua saratai e, a giudicare dall’espressione dipinta sul volto della giovane, avrebbe tardato solo di qualche istan­te. Si ac­corse appena che lei stava fuggendo mentre il Varnish si vol­tava verso di lui. La prima volta che aveva posato lo sguardo su uno di quegli esseri, aveva avvertito il bisogno di svuotarsi lo stomaco e aveva avuto l’im­mediato bisogno di una sacca di sangue. Era orgoglioso di lei per non essere svenuta o non aver vomitato come lui si aspettava facesse una femmina. I Varnish non erano per i deboli di cuore e sapere che la donna era più forte di quanto sembrasse gli fece accelerare i battiti cardiaci. Meglio per lei, avrebbe avuto bisogno di essere coraggiosa. «È il momento di divertirsi, brutto pezzo di merda», ringhiò alla bestia velenosa e gocciolante che gli stava davanti. L’ombra si solidificò alla base creando una specie di tronco. Artigli fendettero l’aria e lui tirò un colpo esperto con la spada. Un suono si­mile a quello di un macellaio che taglia la carne si udì prima che un urlo di dolore si levasse tra gli alberi. I Varnish si rigeneravano se non venivano decapitati, ma potevano provare comunque sofferenza come tutte le creature. Poi si sentì lo stridere dei denti, di tutte e tre le fila, mentre il mo­stro cercava di morderlo. Infuriato per la perdita degli arti, l’essere si era sbilanciato e fu anche troppo facile per Keltor abbatterlo. Appena gli ebbe mozzato la testa, il Varnish cominciò a polverizzarsi prima anco­ra che la dentatura affilata o le membra flaccide toccassero il suolo. Fin troppo facile. Scandagliò il bosco in attesa di percepire il battito del cuore di lei e sentì che stava correndo lungo l’argine del fiume. La calma sovrannatu­rale che lo circondava accese il suo allarme interno. Sentì la gola sec­ca. Era stato un diversivo. Il vero pericolo la stava probabilmente aspet­tando più avanti. Il fiume! In un millisecondo guizzò verso di lei e chiamò Dante per farsi aiutare. Sembrava completamente terroriz­zata quando le si materializzò davanti. Il grido della donna lacerò la radura. «Lizbet, ho bisogno che tu smetta di correre e mi guardi.» L’urlo si interruppe ma rimase lo sguardo terrificato. La donna si era fermata al momento del suo arrivo ma, dal modo in cui si guardava intorno, lui intuì che stesse pianificando la prossima mossa. «So che quell’es­sere di prima era terrificante, ma io non sono tuo nemico. Stai calma, devo capire se siamo ancora in pericolo.» Lo osservò, i suoi grandi occhi di quello strano colore erano impauriti e diffidenti. «Apri la b-bocca», balbettò. Era evidente che lo spavento la stava sopraffacendo. Aveva corso per il bosco con nient’altro che un vestitino e delle infradito e aveva le gambe ferite e contuse. I capelli erano bagnati di sudore e aveva delle foglie nella chioma. Lui sentì i denti allungarsi alla vista del sangue, ma respinse l’impeto della fame. «Per quale motivo?» «Voglio vedere i tuoi d-denti», disse, ancora tremando. La guardò con fare interrogativo e poi schiuse le labbra in un lieve sorriso. «Sei strana, donna. Stavi quasi per essere uccisa da un Varnish e non permetti al tuo Guardiano di proteggerti perché desi­deri vedergli i denti.» Lei guardò con circospezione la sua bocca perfetta e poi rivolse lo sguardo ai suoi strani vestiti e agli stivali. Il respiro le si fermò in gola quando vide il petto nudo e il cuoio intrecciato a X contro la pelle vi­gorosa. Si forzò ad alzare gli occhi, tornando a guardare quelli orgogliosi di lui. Il sorriso si era allargato. «Soddisfatta?» «No, non proprio. Ma diavolo, dopo aver visto il rastrello di quella cosa dovrò fare un esame dentale a tutti quelli che incontro. Ora, chi cavolo sei tu? E cos’era quello?» Keltor fu preso alla sprovvista dai suoi modi schietti e fu ancora più meravigliato considerando che la donna doveva essere ancora profon­damente sconvolta per ciò a cui aveva assistito. Un Custode femmina. Sarebbe stato sicuramente un problema, pensò, mentre lei si metteva le mani sui fianchi, in un tipico gesto umano di impazien­za. «Io sono Keltor, un Guardiano Immortale e uno dei tuoi protettori. Quella era un’orrenda creatura chiamata Varnish e aveva tutta l’in­tenzione di usarti come ospite fino a eliminare il buono che c’è in te. Ti avrebbe trasformato in una progenie infernale. Una doman­da migliore da fare sarebbe: perché ti danno la caccia? E, a proposito, sarebbe gradito un grazie, dato che ti ho appena salvato la vita.» Lei iniziò a ridere incontrollabilmente e lui incrociò le braccia. Era piegata in due, con le lacrime agli occhi. Se non fossero stati così vi­cini al fiume e probabilmente a un altro pericolo, avrebbe trovato la situazione divertente. Ora la considerava irritante. «In che modo lo trovi divertente, donna?» «Io, oh mio Dio, davvero?» Continuava a ridere, incapace di fer­marsi. «Mi stai prendendo in giro? Non sei neanche reale, vero? Ho immaginato tutta questa dannata vicenda e, wow, almeno ho avuto il buon senso di evocare un gran bel tipo da mischiare alla faccenda della progenie infernale.» Ciò sembrò divertirla ancora di più tanto che cominciò a ridere con rinnovata gioia quando lo guardò di nuovo. Gli stava dando la conferma che un Custode non sarebbe mai do­vuto essere una donna. Un incresparsi di ombre alle sue spalle catturò l’attenzione di Keltor e, prima ancora che lei ebbe la possibilità di girarsi per vedere cosa gli avesse fatto distogliere lo sguardo, qualcosa le roteò vicino al viso, con un suono e un aspetto simili a un coltello che fende l’aria. Lui era già dietro di lei quando cercò di guardare di nuovo, proteggendola da qualunque cosa potesse venire da quella direzione. Il terreno si sollevò e appendici simili a tentacoli le afferrarono le ca­viglie. Il Guardiano, o come diavolo si era definito, si stava districando dalla massa di viticci attorcigliati che sembrava avere vita. Infine Liz ne vide l’origine. Okay, era abbastanza per un giorno solo. La ragione era definitivamente andata? Controllo. La cosa che sorgeva dal suolo era nera come la notte senza stelle e aveva centinaia di occhi e altrettante piccole bocche, tutte con denti affilati. Ma questa creatura pareva in grado di far comparire le sue piccole fauci ovunque ci fosse un tentacolo e ce n’era uno giusto… sì, proprio sulla sua caviglia. L’urlo le morì in gola, sentendo l’oscurità che la agguantava e qual­cosa di simile a una tempesta che si abbatteva sulla sua pelle. Quindi era così che la morte sarebbe giunta. Nella follia. Si arrese e si fece sopraffare, trovando la pace nell’abisso di quel lago oscuro.
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