Capitolo 6

1910 Parole
6 Infame e vigliacco è chi scappa, ma Mishna non può fare altro. Avanza, barcollando sul profilo della collina. Zmitra lo vede, ma non c’è traccia di Serge. Il volto si contrae in una smorfia di dolore muto, una mano copre il vuoto della bocca incapace di gridare. Sa, ancor prima di chiedere. Serge non le avrebbe più sussurrato parole piene di malia, non ci sarebbe stata più nessuna carezza. Perché? Non c’entravano con quella guerra. Volevano soltanto invecchiare, lei e Serge, vivere nella loro terra. Ne avevano il diritto, come tutti. Cosa c’era di sbagliato nell’assaporare il passare dei giorni e crescere con amore i propri figli? Una lacrima scende a bagnarle le ciglia, ma non può piangere, Zmitra, non può permetterselo. Non ora. Deve reagire. Deve guardare al futuro, deve correre da suo figlio, da Mishna. Lo raggiunge col fiato corto, lo stringe al petto, lo riempie di baci, lo tocca ovunque. Mishna, dov’è tuo padre? Dov’è Serge? Una sola parola è sufficiente a risucchiare tutte le speranze in un grumo di dolore. Non servono colori per dipingere l’odio, ma suo figlio è salvo. Serge lo ha salvato. Serge, che le aveva detto di Shkodra. Lei aveva promesso. Poche lettere a ricordare una vita che ormai non c’è più: Shkodra. Si erano addormentati abbracciati. E abbracciati s’erano risvegliati. Serge gliel’aveva indicata, là, oltre il confine, oltre le colline. Shkodra, la città albanese famosa per il legno e il tabacco. Lui c’era nato a Shkodra, e là viveva Jan, suo fratello. Serge voleva andarci. La guerra era arrivata alle porte di Pec, la città kossovara vicina ai confini di Serbia e Montenegro. Vicino alla loro minuscola fattoria. Troppo rischioso restare. Dovevano pensare a Mishna, a garantirgli un futuro. Avrebbero ricominciato da capo, l’importante era rimanere insieme. Insieme. Quella parola investe Zmitra con rinnovata violenza. Il dolore si propaga alle membra, trema. Le mani si muovono veloci. Infilano le poche cose che rimangono in due zaini. Sì, andranno a Shkodra, da Jan. Ma gli occhi di Zmitra sono vuoti e il futuro ha linee indistinte. Il tempo metterà le cose a posto. O la pioggia, pensa Zmitra. Quella pioggia che tutto lava e tutto dissolve. Senza prestare ascolto a chi la sconsigliava, è andata a recuperare il corpo di Serge dove Mishna le ha indicato. Vuole seppellirlo tra i pruni, là dove avevano fatto l’amore per la prima volta. C’era la luna piena quella notte. Il cielo era limpido e le spighe frusciavano lente nell’erba alta. Erano giovani e pieni di speranza. Fa bene sognare, pensa Zmitra, aiuta a dimenticare le angustie quotidiane, il rumore sordo delle bombe. Ai contadini importa poco sapere a quale Stato appartiene la terra che coltivano. Conta il raccolto, la buona annata. Conta la devozione con cui si cura la terra, la stessa che aveva regalato loro il padre di Serge. È diventato un corpo freddo, il suo Serge, nell’abbraccio della morte, ma Zmitra è stata brava. Ha trovato la forza di caricare da sola sul carro dei cereali il corpo del suo uomo. Ha guidato fino a casa, sotto la pioggia, lo ha lavato in silenzio, pulendogli le unghie dal sangue e dalla polvere. Lo ha vestito, lo ha baciato. E finalmente lo ha pianto. Poi ha scavato una fossa ed è rimasta in piedi a guardarla senza contare il tempo. Mishna le è rimasto accanto senza fiatare. Zmitra avvolge l’ultimo pezzo di pane nella stoffa e chiude lo zaino. Non c’è più spazio per piangere il passato. Il cognato li aspetta. Dovranno farcela da soli. Si raccontano cose terribili sui soldati che controllano il confine. Non risparmiano donne né bambini. La guerra è una bestia vorace, si nutre di sangue fresco per placare la sua sete. Ma loro ce la faranno. Devono farcela, lo ha promesso a suo marito prima di regalarlo al buio della terra. Andiamo, Mishna, dice Zmitra. Suo figlio è l’unica cosa che le rimane. Si muovono lenti, uno accanto all’altro, nel silenzio del mattino. Insieme. *** Insieme, complici e sorridenti, tenendosi per mano. “Ci fu cosa?” chiese intrigata donna Alfonsina, quando vide Bonanno e Vanessa così affiatati. Si sistemò una ciocca di capelli e tirò su il grembiulino da cucina. “Mi liberai prima e passai a scuola” rispose Bonanno. Vanessa schioccò un bacio sulle guance della nonna e si perse nel suo abbraccio: “Cos’hai preparato, nonna?” “E che dovevo preparare? Niente, le mani rovinate dall’artrosi ho” si lamentò, ma il profumino che saturava l’ambiente diceva il contrario. Vanessa corse di là, aprì il forno e gridò di giubilo, saltellando “Evviva, torta di mele”. “Tu la vizi” disse Bonanno. “E tu non mangiarne, allora” lo provocò sua madre. Vanessa, servendosi una grossa fetta di torta, sparì nella sua stanza. “Mah!” sospirò donna Alfonsina. “Mah, che?” domandò Bonanno, servendosi a sua volta. La torta profumava di uova di casa e mele campagnole. “Non mi pare manco vero.” “Traducendo?” replicò Bonanno già sulla difensiva. “Niente.” “Eh no, ora me lo dici.” “Che ti devo dire? Certe improvvisate prima non le facevi senza avvisare a tua madre. Manco a pranzo sei venuto.” “Me lo scordai d’avvisarti!” “E manco per sapere come sto, chiamasti.” “Come stai?” “Come vuole Dio. C’ho il cuore ballerino e l’artrosi cervicale, mi firria la testa e mi tocca mettermi sdraiata e fissare il soffitto.” Donna Alfonsina, quando voleva, sapeva come portarla per le lunghe per farlo sentire in colpa. “Dal dottore ci sei andata?” “Pigliai appuntamento con uno specialista, se aspetto mio figlio, sto fresca.” “E chi sarebbe ’sto specialista?” le diede coccio Bonanno, per rabbonirla. “Uno bravo.” Donna Alfonsina si servì un bicchiere di spremuta. La preparava ogni mattina con le sue mani, adoperando arance fresche. Se le faceva portare da un giovane che coltivava agrumi a perdita d’occhio lungo le sponde del Platani. Sapevano di terra e sole, scirocco e umori sanguigni. Bevve un sorso color sorriso e un grappolo di rughe le si avviluppò sulla pelle un tempo liscia e desiderabile. “Se è aspra, mettici lo zucchero” suggerì Bonanno. “Va bene così” fece la sostenuta donna Alfonsina, “Vuoi essere accompagnata?” capitolò Bonanno. “Vado da sola… come sempre” rispose, lasciandolo da solo in cucina. Bonanno la vide entrare nella sua stanza, sedersi davanti la specchiera e spazzolarsi i capelli. Un colpo dopo l’altro, con delicatezza per non spezzarli. L’argento della chioma risaltò sulle tempie. Bonanno le andò dietro, come un cagnolino, e provò infinita tenerezza. Sua madre stava invecchiando davvero. “Ti aiuto io” disse, prendendole la spazzola. “Con queste braccia storte dall’artrosi, qua dietro non ci arrivi” si arrese Bonanno. “Eh, le braccia non sono più come una volta, ma la testa sempre buona è” rispose lei, cedendogli la spazzola. Pace fatta. “Se hai bisogno, qua sto” disse quando ebbe finito di pettinarla. Si ritirò nella sua camera, accese il lettore musicale e si dispose ad ascoltare La ballata di Turiddu Carnevale, struggente poesia scritta dal vate di Bagheria, Ignazio Buttitta, e musicata dal cantastorie Nonò Salamone. Raccontava la storia realmente accaduta del picciotto socialista ammazzato nel 1955 a colpi di lupara in faccia dalla mafia, a Sciara, paesotto del palermitano. Il maresciallo aveva bisogno di una copertura musicale per mettersi al sicuro dalle orecchie sonar di donna Alfonsina e quella ballata gli parve azzeccata. “Pronto” disse sottovoce. “Ehi, Saverio, aspettavo la tua chiamata.” Note melodiose di turrita campana. All’udire il festoso cinguettio di Rosalia, Bonanno si sentì attizzare come un ciocco ben stagionato e troppo vicino al fuoco. “Ti disturbo?” “Per niente, sei riuscito a liberarti?” “Veramente Vanessa deve fare un tema sulla guerra in Kosovo e ho promesso di aiutarla” prese tempo, senza sapere neppure lui il perché di quella resistenza. O forse lo sapeva fin troppo bene. “Senti, se non ti va di venire, basta dirlo.” Disarmato da tanta brutale schiettezza, balbettò: “Non volevo dire questo, non devi fraintendermi...” “E allora non farti pregare.” “Ci vediamo più tardi.” “Ti aspetto.” La voce inconfondibile di Nonò Salamone suggellò quell’impegno vestito di rosa. Il cantastorie di Villapetra raccontava prepotenze mai scordate: Lu maresciallu fici un passu avanti Il maresciallo fece un passo avanti dissi la Liggi chistu lu cunzenti disse questo la legge lo consente Turiddu cci rispusi sull’istanti Turiddu gli rispose all’istante la vostra è liggi di li prepotenti la vostra è la legge dei prepotenti ma ccè na liggi chi nun sbagghia e menti ma c’è una legge che non sbaglia e non mente e dici pani a li panzi vacanti e dice pane alle pance vuote robbi a li nudi, acqua all’assitati vesti agli ignudi, acqua agli assetati e a cu travagghia onuri e libertati. e a chi lavora onore e libertà. Terra e occupazione, lotta e miseria. Perfino i carabinieri, nel dopoguerra, perseguitavano i viddrani nei latifondi che avevano sostituito i feudi. Da una parte i padroni di sempre, e dall’altra i contadini. Cambiava tutto per non cambiare niente. Un carabiniere come lui, figlio del popolo ma servo dei padroni, s’era levato a fare il prepotente coi più deboli. Un maresciallo. Per quanto si sforzasse, neppure la voce impastata di terra e sudore di Nonò Salamone riusciva a fargli digerire quelle ataviche ingiustizie perpetuate nella sua terra fin dai tempi dell’unificazione. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra. Si fece la doccia e si prese cura di sé. Uscì dalla stanza con fare disinvolto, ma la folta criniera pettinata all’indietro, la barba rasata e il petto attillato nella sciccosa camicia del vestito delle grandi occasioni furono immediatamente intercettati dal radar sempre in azione di donna Alfonsina. “Vestiti arzuni ca pari baruni” commentò, squadrandolo da capo a piedi. Vestiti garzone che sembri barone. “Tu e i tuoi detti.” “Dove te ne vai così impupato?” “La scuola di Vallevera organizzò un convegno sul disagio giovanile.” “E tu che c’entri?” “Fino a prova contraria comando la Compagnia dei carabinieri e questo vorrà pure dire qualcosa, no?” “Fesserie, contale a chi non ti conosce.” “Che vuoi dire?” “Lo sai bene, ma tienilo a mente: la semplicità è la chiave per aprire tutte le porte. Ricordi tuo nonno? La pietra parla, e allora ascolta la pietra.” “Ne discutiamo un’altra volta” se la squagliò il maresciallo, prima che si mettesse male. Con sua madre la partita sarebbe stata persa prima ancora di cominciare. E quando tirava in ballo suo padre, nonno Amilcare, non c’era storia. Donna Alfonsina scosse la testa, palesando disappunto, ma appena Bonanno scomparve alla vista, un sorriso le allargò le rughe sul volto. “Ehi, nonna, va dall’assistente sociale, vero?” Vanessa uscì dalla stanza e si fiondò di nuovo sulla torta di mele. “Spegni il computer e finisci di studiare, signorinella” disse donna Alfonsina. “E dai, dimmelo, va da lei, vero? Rosalia mi piace, è una tosta.” “Che ne vuoi sapere tu, birbantella? Ancora di latte puzzi.” “Dici che c’è speranza per papà? Devi metterlo a dieta però.” Donna Alfonsina sorrise, allargò le braccia e Vanessa volò da lei. L’abbracciò con tenerezza, un abbraccio ricco e pieno di quelle cose buone non dette ma che riempiono il cuore. L’aveva cresciuta senza risparmiarsi, facendole da mamma, cullandola notte dopo notte, cantandole con un filo di voce la filastrocca della cicogna e del bimbo che profumava di menta. Vanessa era ancora una bambina, ma donna Alfonsina sapeva quanto dolore teneva ben stretto in fondo al suo cuoricino. “Ti piacerebbe come mamma?” “Non ci ho pensato, la mia mamma sei tu.” La nonna l’abbracciò ancora più forte, e soffocò le lacrime. “Dici che papà ce la farà?.” “Ai miei tempi si diceva: Quannu l’amuri tuppulia, nun lu lassari nmezzu la via.” “Che vuol dire, nonna?” “Che bisogna farsi trovare pronti quando arriva il momento.” “Ti voglio bene, nonnina.” Donna Alfonsina si asciugò gli occhi col grembiule. “Forza, vai a studiare ora.” Vanessa era stata un regalo del cielo, nonostante tutto, nonostante sua nuora. Nonostante Emma che aveva strappato il cuore al suo Saverio e lo aveva buttato in pasto ai cani. Ma lei avrebbe trovato il modo di mettere le cose a posto. Ne avevano passate tante, ma adesso suo figlio si stava rimettendo in piedi e lei era prontissima a dargli tutte e due le mani per fargli capire quale fosse la strada giusta. Seppur messo così a dura prova dalle asprezze della vita, Rosalia Santacroce aveva fatto breccia anche nel suo cuore di mamma cagna. E ogni cagna per i suoi cuccioli cerca casa.
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