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Angelo Agliuzza si era superato e il profumino dei suoi manicaretti suggeriva visioni paradisiache ed estatici canti di angeli in coro. Entrando in mensa, Bonanno lodò serafini e cherubini. Si servì una doppia razione di maccheroncini col cavolfiore. L’appuntato Agliuzza, promosso cuoco sul campo per i suoi meriti appetitosi, amava rivisitare i piatti della tradizione, rinnovandone gusto e presentazione. Nel cavolfiore appena sbollentato, maritava filetti di acciuga con estratto di pomodoro e una manciata di uva sultanina, zafferano e pinoli. Dolce e salato, sposi amabili, sapientemente fusi a mantecare maccheroncini al dente, spolverati di pepe nero e pecorino. Un toccasana per il colesterolo.
“Agliuzza farebbe resuscitare i morti. Posso sedermi?” chiese il brigadiere Nenè Vitellaro.
“Libero è.”
Il brigadiere lo ringraziò e prese posto.
“Come mai in mensa?” domandò stupito Bonanno, studiando le reazioni del sottoposto. Era insolito che Vitellaro, assegnato nel terreno minato della Stazione comandata da Marcelli, si fermasse in quel luogo di gozzoviglie frequentato dai caramba single. E dai viziosi come Bonanno.
“Solo sono in casa. Sarebbe stato un peccato non approfittare del nostro Agliuzza.”
Come dargli torto? Per mettersi a dieta ci sarebbe stato tempo, si disse Bonanno, dedicandosi ai due dentici allo zafferano accompagnati da funghi ripieni di tuma, acciughine e peperoncino. Appartenere all’Arma qualche soddisfazione la dava, di tanto in tanto.
“Ho saputo dell’avvocato. Mi dispiace, maresciallo” disse solidale Vitellaro.
“Alt, mettiamo in chiaro una cosa: grazie, apprezzo l’intenzione, ma non roviniamoci il pranzo con certi discorsi” lo bloccò Bonanno.
“Come vuole, mi scusi” si mortificò il brigadiere.
Il maresciallo si accorse di essere stato troppo brusco e cercò di rimediare: “Come mai sei solo?”
“Mia moglie è impegnata in un corso a scuola.”
“Ah, che corso?”
“Arte barocca. Lei è nativa di Noto, il giardino di pietra ricco di meraviglie architettoniche.”
“Ah, anche tu sei di quelle parti, mi pare.”
“Io sono di Avola, siamo gente di mare. Ci ritireremo là quando andrò in pensione. Ho costruito una casa che è una bellezza. Certo, mi sono caricato un bel mutuo sulle spalle, ma noi siamo come i delfini, e i delfini muoiono lontano dal mare.”
Ancora ben lontano dalla quarantina, volto aperto e schietto, Vitellaro doveva essere sui trentacinque, trentasei anni, e aveva voglia di chiacchierare. Gli occhi scuri gli si accendevano come stelle quando parlava del suo futuro, e senza accorgersene, con le dita, tratteggiava i contorni di un volto. Bonanno poteva giurare che fosse quello della moglie.
“Siete sposati da molto?”
“Abbastanza.”
“Figli?”
“Non ancora, ma arriveranno, è solo questione di tempo” abbassò gli occhi Vitellaro.
La sua solita linguaccia. Bonanno intuì d’avere toccato un tasto stonato e preferì chiuderla là.
“E ora di andare” disse alzandosi. Si sentiva talmente appesantito che si risolse a smaltire l’abbuffata scarpinando su e giù per la Montanvalle. Raggiunse il suo posto del cuore: la collina calva. Il posto dove aveva portato Rosalia dopo i fatti dell’Upupa. E di quel momento di intima vicinanza, conservava sapore di miele. Lei gli aveva carezzato il volto e lui s’era sentito leggero come una foglia rapita dal vento.
Parcheggiò la Punto sotto il carrubo secolare e smontò con gesto atletico, ben determinato a percorrere a passo di marcia una decina di chilometri, tra sentieri e anfratti, intervallando la scarpinata con un centinaio di flessioni per irrobustire i bicipiti. In fondo bastava poco per riacquistare la linea perduta, e con un po’ di buona volontà e mezz’ora di ginnastica al giorno, gli addominali sarebbero tornati sodi e levigati come un tempo. Programma perfetto, considerò, continuando a fumare appoggiato alla fiancata della Punto, lo sguardo pieno di Sicilia. Il pinnacolo del Mongibello carico di neve rompeva come un guscio d’uovo la linea uniforme dell’orizzonte. Nuvole basse carezzavano le colline, spaghi di luce incendiavano radure e giocavano con gli olivi. Sulle terre brune trionfavano il verde dei germogli e le linee tonde degli immensi blocchi di roccia lattescente. Quelle linee gli riportarono davanti agli occhi le forme piene di Rosalia, forme morbide e profumate di quella fragranza che sale alle narici e travolge i sensi. Si accese di sanguigne fantasie. Volute lattescenti lo avvolsero e si rese conto che tutte le sue paure cedevano di fronte ad una sola verità: non vedeva l’ora di cenare con lei, di starle vicino e respirare il suo fiato di corbezzolo. Loro due, da soli. Cosa si sarebbero detti? Un viluppo di sensazioni dimenticate si raccoglieva là dove la ragione soccombeva alla passione. Ma un pensiero nero si fece largo tra tanto rosa. Il pensiero d’un padre: Vanessa stava crescendo senza una mamma. Quante volte Bonanno l’aveva sentita singhiozzare in piena notte. Singulti soffocati, di piuma spezzata. Allora lui si alzava, entrava nella sua stanza in punta di piedi e la carezzava piano piano: “Sei la mia principessa” le ripeteva. Nel sonno la piccola sorrideva, gli stringeva la mano, lui la portava alle labbra e vi posava sopra un bacio lieve per scacciare i demoni dell’abbandono. E quando finalmente Vanessa si rasserenava e il sonno le assicurava la pace perduta, usciva nella notte e guardava il cielo cercando tra le stelle quelle fattezze un tempo amate. Cercava il volto di Emma. E si tormentava.
Come hai potuto?
I sensi di colpa lo divoravano, ma si illudeva di tenerli a bada ingozzandosi, e quel groviglio irrisolto cresceva fino a debordare, come la sua pancia che portava a spasso come una gogna. La condanna che s’era inflitto, ritenendosi colpevole di quell’abbandono. Da quando Rosalia era entrata nella sua vita, però, anche l’assenza di Emma gli risultava più sopportabile. Ma come avrebbe reagito Vanessa se tra lui e Rosalia le cose si fossero messe come il cuore sperava? Anche lui, come Nenè Vitellaro, si era innamorato di un sogno che sapeva di mare?
Volute opalescenti lo avvolsero e lasciò che gli cullassero i pensieri che sapevano di buono. Sapevano di Rosalia. E se il groviglio dei neuroni continuava a dibattersi e porsi domande su domande là dove nascevano e morivano i dubbi, il suo cuore aveva già trovato tutte le risposte.
Si addormentò così, senza accorgersene. E fece bei sogni.
Una mano energica lo scosse un paio d’ore dopo.
“Maresciallo, si sentì male?”
“Chi è?” domandò, strabuzzando gli occhi.
“Sono io, non s’agitasse” lo rassicurò Vanni Lenticchio, l’allevatore di cani che gli aveva affidato Ringhio e Briciola, i due setter, raccomandandosi di trattarli come fossero figli di carne e sangue.
“Che ci fai qua sopra?” disse Bonanno frastornato.
“E lei che ci fa stravaccato nella mia proprietà?”
Liberi e curiosi, i cani scodinzolavano nella radura, un nericcio si avvicinò alla ruota anteriore della Punto e innaffiò i germogli in fiore.
“Ehi, che fa quello?” saltò su Bonanno.
“Cose da cani, preferiva che Annuccia innaffiasse la sua persona addormentata?” ridacchiò Lenticchio.
“Chi è Annuccia?” si risentì, allontanando malamente la bastardina.
Lenticchio brandì minaccioso il braccio armato di bastone: “Se s’azzarda un’altra volta a maltrattare i miei cani, sbirro o non sbirro, gli spacco la testa co’ ’sto pezzo di legno, mi spiegai?”
“E tu allontanali dalla mia macchina.”
“E lei andasse a rompersi le corna lontano dalla mia proprietà.”
Che malo risveglio.
Bonanno si rinserrò sulla Punto scuro in volto come i candelotti che Annuccia stava scaricando dove stava sdraiato un attimo prima. Lenticchio continuò a incenerirlo, una paternale contenuta nella piega severa delle labbra e nel gesto eloquente del braccio teso con l’indice alzato, a indicare la carreggiata che il maresciallo doveva imboccare. Guai a chi maltrattava i suoi cani. Vanni Lenticchio preferiva la compagnia del più pulcioso bastardino al più imbellettato degli esseri umani.
Bonanno sgommò con stizza.
Vecchio pazzo, al diavolo tu e i tuoi cani.
Voci allegre e mani in movimento, gambette che correvano, mamme che si protendevano, nonni che si occupavano dei nipoti. Allargava il cuore vedere i bambini uscire da scuola, respirare la loro innocenza, lasciarsi contagiare dal loro entusiasmo. Erano così avidi di vita da assorbire ogni cosa attorno a loro e capaci di ridare vitalità perfino alle pietre. Vanessa si sorprese vedendolo: “Papino, che ci fai qui?”
“Volevo farti una sorpresa” disse, sorvolando sull’avvocato Mazzarisi e Vanni Lenticchio. Vanessa, il suo punto fermo. Bonanno aveva un gran bisogno di una solida ancora a cui aggrapparsi quando il mondo andava a fondo. La bambina lo abbracciò con trasporto: “Che bello, torniamo insieme.”
“Come è andata a scuola?” domandò Bonanno.
“Tu che sai della guerra nei Balcani?”
Bonanno non si aspettava quella domanda, si trovò spiazzato: “Quello che sanno tutti, una nuova tragedia tutta europea.”
“Allora puoi aiutarmi. La maestra Enza ci ha detto che la Nato ha bombardato Belgrado e ci ha parlato del Kosovo, una provincia autonoma della Serbia dove però vivono tanti albanesi. Non ci ho capito granché. Mi aiuti, papino, vero?”
Dopo il genocidio in Bosnia, il regime di Milosevic aveva iniziato un’azione di repressione contro la popolazione albanese e i gruppi guerriglieri della provincia autonoma del Kosovo. La repressione si faceva sempre più sanguinosa e la Nato aveva adottato una politica di dissuasione contro il governo della Repubblica federale iugoslava guidato da Slobodan Miloševic.
“Allora, papino, mi aiuti?”
Bonanno la guardò. Aveva occhi innocenti, sua figlia, pieni di malia, e col passare degli anni la somiglianza tra lei e donna Alfonsina diventava sfacciata. Non si somigliavano soltanto fisicamente: la nonna stava tirando su la nipote cucendole addosso un caratterino pari pari al suo.
“Che devi fare?”
“Un tema su quelli che scappano dalla guerra.”
“Sui profughi.”
“Sì, quelli. Mi aiuti?”
“Sì che t’aiuto.”
Vanessa lo baciò, Bonanno la strinse a sé. Il vento soffiava e spingeva lontano cumuli di nuvole. Il maresciallo sacramentò contro tutti i guerrafondai che rendevano il mondo un posto infame.