TRE
Dopo una pausa autoproclamata dalla preparazione del processo di Freeman il mattino seguente, parcheggiai la mia obsoleta Mustang verde a Wentworth accanto al cortile senza alberi della Windsor Elementary. Qualcuno aveva appeso ghirlande decorative rosse e verdi intorno all’unico e incolto sempreverde vicino all’edificio della scuola. La neve della notte precedente era ancora attaccata al suolo intorno all’albero e nel cortile, anche se le precipitazioni si erano fermate. Non un grande giorno per una passeggiata energizzante per il quartiere. Di solito parcheggiavo più lontano — mi rendeva meno appariscente, ma quel giorno la temperatura si aggirava al di sotto dello zero, e con il fattore vento la temperatura percepita era meno quindici. Non potevo andare a piedi più lontano di quanto avessi fatto, persino per vedere Betsy.
Se avessi potuto vedere Betsy. In quel momento diedi uno sguardo al telefono. Mancavano ancora due minuti alla ricreazione.
Quando avevo trovato la bambina orfana e io e Jack l’avevamo riportata dal New Mexico, l’avevo consegnata ai servizi sociali tramite Wallace. Da allora era diventata la persona più importante della mia vita, e volevo disperatamente renderla mia figlia per sempre. Wallace mi aveva mostrato come muovermi all’interno della burocrazia del sistema statale, spingendomi a fidarmi. Mi ero iscritta alle liste per l’affidamento e per l’adozione. Avevo seguito i corsi. Stavo risparmiando per traslocare da casa di mia madre in un posto tutto mio, dopodiché avrei potuto organizzare uno studio a casa. Tornai indietro a un’e-mail che mi ero inviata con il link ad un annuncio per un duplex su Soncy Road che sembrava perfetto. Dovevo prenotare una visita per vederlo. Nel frattempo, i servizi sociali aveva messo Betsy in una grande famiglia affidataria con una buona reputazione. Gli Hodges: Trevon e Mary Alice.
Gli Hodges avevano accolto, nel complesso, ventitré bambini, secondo Wallace. Erano specializzati in bambini non neonati e non bianchi, e bambini con disabilità: in altre parole, prendevano i bambini difficili da collocare. Wallace diceva che secondo la loro storia li tenevano a lungo termine, finché qualcun altro li adottava o si diplomavano presso il sistema di affidamento, a seconda di ciò che si verificava per primo. All’inizio lo avevo trovato ammirevole — addirittura sorprendente. Quanto doveva essere difficile elevare così tanti bambini, alcuni dei quali richiedevano attenzioni particolari.
Poi si era insinuata la gelosia; avevano Betsy. Io no. Li avevo pedinati un po’. Su f*******:. Mentre facevano la spesa. Alla loro chiesa. D'accordo, lo ammetto, gli Hodges offrivano uno spettacolo impressionante con la fila di anatroccoli colorati di tutte le forme e dimensioni dietro di loro. Alla fine aveva deciso che forse Betsy aveva estratto la carta fortunata dal mazzo con loro. Tutti quei fratelli e sorelle. Una famiglia con valori, con principi morali.
Ma gli Hodges non mi permettevano di fare visita a Betsy. Era loro diritto, anche se non mi piaceva, e mi rendeva persino più determinata a intrattenere un rapporto con lei, non il contrario. Controllai di nuovo il cortile. Ancora nessun bambino. Avrebbero dovuto essere fuori a quell’ora.
Avevo iniziato le visite clandestina alla sua scuola non appena aveva iniziato la prima elementare, la prima volta che frequentava una scuola di qualsiasi tipo. Betsy e i suoi genitori erano entrati negli Stati Uniti per gentile concessione di un volgare trafficante di esseri umani che si chiamava Paul Johnson. Mentre gli altri bambini della sua età scoprivano le gioie della ricreazione e della merenda, lei era prigioniera nel sud del New Mexico nel ranch di Johnson dove i suoi genitori clandestini erano stati resi schiavi in una miniera d’argento. Mentre gli altri bambini della sua età iniziavano la prima elementare, Betsy si nascondeva nel carrello delle pulizie di sua madre al Wydham/Ambassador Hotel, a colorare immagini, e a cantare alla sua bambola, dopo che sua madre era scappata dal ranch. Così, non aveva avuto la possibilità di andare a scuola prima di quel giorno. La bambina era intelligente, però, e sapevo che si sarebbe messa in fretta alla pari con i suoi compagni di classe.
Ricevetti un messaggio sul telefono da Wallace: Nessuna notizia di Greg e Farrah. Sto iniziando a preoccuparmi sul serio.
Risposi con un messaggio rapido: Anche io. Allora ricordai la cosa che mi stava assillando dalla sera prima. Perché te ne sei andato così in fretta con “Ivanka”?
Wallace: Cercava una persona compassionevole che la aiutasse a fare una fuga prima di venire beccata.
Io: Per cosa? Potevo fare una buona ipotesi visto che avevo sentito Samson chiamare lucciole da parcheggio le due donne volgari.
Wallace: È una signora della notte, tesoro.
Io: Oh. Va bene. Aveva scelto la persona giusta per quanto riguardava la compassione. Sei così un bravo ragazzo.
Wallace: Gli emarginati sono il mio tipo.
Concludemmo la conversazione di messaggi, e la mia mente andò alla Scuola domenicale del passato, alle storie su Gesù che lavava piedi sporchi e frequentava le p********e. Wallace poteva provare a fingere che si trattava solo di solidarietà, ma quell’uomo aveva il cuore più grande che avessi mai visto.
Voci limpide di bambini si diffusero attraverso i cento metri di cortile aperto fino alle mie orecchie quando uscirono da una porta laterale. Brava, Windsor Elementary, pensai, per non permettere a un po’ di maltempo di mandare all’aria il programma di gioco. I bambini erano infagottati come mummie, e capii che probabilmente erano in ritardo a causa del tempo in più necessario per imbacuccarli tutti.
Le nocche di una mano bussarono al finestrino vicino al mio orecchio sinistro, e sobbalzai, versando il mio caffè del Roaster con nocciola senza zucchero — la mia bevanda al caffè preferita — sulla felpa nera dei Red Riders che indossavo sulla biancheria termica.
«Cacchio in un secchio!» gridai. Era un’espressione che avevo preso da mio padre, prima che filasse via.
Madre odiava le imprecazioni, ma non le importavano le espressioni per aggirarle che piacevano a me e Papà. Quindi cacchio, cavolo, e Nonna Papera superavano la selezione. Al contrario di tutte le varianti di dannazione, merda, diavolo, culo e — argh — la parola con la C. Nemmeno le espressioni che considerava volgari, come stupido o v****a. Cercavo di non pensarci nemmeno a quelle parole, persino nelle circostanze peggiori, figuriamoci dirle.
Guardai fuori dal finestrino e riconobbi la donna lì in piedi in un vestito di lana grigio che cadeva dal fondo di una giacca bianca. Un berretto di lana bianca le copriva il capo, sotto cui aveva raccolto i lunghi capelli ricci e castani, rivelati dalle ciocche disordinate che ne erano sfuggite. Aveva bussato a mani nude, e la guardai mentre si rimetteva sulla mano una muffola termica da sci.
«Lei» era Mary Alice Hodges, con il naso gocciolante, e un bambino piccolo in tuta da sci di genere indeterminato sul fianco. Non ci conoscevamo, ma l’avevo vista, certo, quando avevo raccolto informazioni su lei e la sua famiglia. Non che avessi intenzione di rivelarle che la conoscevo, o come. Con una mano spinsi sul pulsante per abbassare il finestrino mentre con l’altra cercavo di rimediare qualcosa in borsa per assorbire il caffè versato. Jackpot: una manciata di tovaglioli del Taco Villa. Li spinsi dove si era rovesciato il caffè come su una ferita da proiettile mentre l’aria fredda violava il mio spazio caldo e accogliente.
«Posso aiutarla?»
«La signora Bernal?» Pronunciò il mio cognome colombiano (da sposata) Burr-NAL, come quasi tutte le persone non ispaniche a nord della frontiera del Messico. Ma mi chiesi come faceva a sapere chi fossi.
«Sono Emily Bernal.» Enfatizzai la pronuncia corretta. Ber-NAL. «Cosa posso fare per lei?»
«Sono Mary Alice Hodges, la madre di Betsy, e...»
La parola madre mi lacerò, e non potei lasciar correre. «Madre affidataria, giusto? Ho cercato di mettermi in contatto con lei attraverso i servizi sociali per portare qui un regalo di Natale per lei. Forse ricorda di aver sentito il mio nome. Sono la persona che l’ha salvata quando è stata rapita.»
Sapevo anche che a Betsy sarebbe piaciuto il mio regalo. Aveva perso il suo adorato zainetto rosa quando l’avevano tenuta prigioniera, e gliene avevo portato uno nuovo come quello che aveva descritto — poiché non avevo trovato quello perduto, nonostante ripetute chiamate alla task force di agenti federali, statali e di Alamogordo e all’amministratore fiduciario del ranch di Johnson.
«Mi dispiace, ma non sarà possibile. Non sono permessi regali di Natale a casa nostra. È il nostro momento speciale per lodare Dio per la nascita del bambino Gesù.»
Potevo sentire la mia mascella aprirsi, mentre la fissavo. Non avevo risposte da darle. Povera Betsy. I regali spaccavano. Avevo considerato gli Hodges di un livello superiore per i fratelli e i principi morali, ma speravo anche nel divertimento e nella felicità. Forse però erano una bella famiglia che compensava in altri modi. Sapevo quanto poteva andare peggio — negligenza e abusi erano tutt’altro livello dell’inferno dall’infelicità — ma non era quello che volevo per quella dolce bambina che mi aveva rubato il cuore.
Mary Alice si spostò il bambino sull’altro fianco. «Betsy ha detto di averla vista qui.»
Ero certa che mi avesse vista. Io e Betsy avevamo parlato in occasione di una delle mie molte visite, finché un’insegnante non ci aveva dato un taglio. In seguito, la salutavo con la mano mentre giravo intorno all’isolato della scuola, immergendomi nella vista di lei e nella sua vicinanza.
Il mio battito accelerò, pulsandomi nelle orecchie. «Sì, e...?»
«Pensavo che mio marito fosse stato chiaro riguardo il fatto che non accettiamo interferenze esterne con i ragazzi che portiamo a casa nostra.»
Il bambino che aveva in braccio all’improvviso gettò la testa all’indietro e urlò, agitandosi e scalciando. Guardai il bambino, distratta. Il cappuccio gli cadde dalla testa, scoprendo corte ciocche di soffici capelli ondulati. Il taglio sembrava molto maschile, anche se ancora infantile, e decisi di attenermi a quella classificazione di genere. Il bambino sollevò di nuovo il viso, sempre urlando, e diedi un’occhiata più da vicino. Non sembrava un bambino normale. Era qualcosa negli occhi. Sindrome di Down, capii.
«Signora Burr-NAL?»
«Ehm sì, insomma, non ho mai parlato con suo marito, ma Wallace Grey dei servizi sociali mi ha fatto sapere che avete rifiutato la mia richiesta di vedere Betsy. Non mi ha spiegato il motivo.»
Fece saltellare il bambino su e giù facendo versi per calmarlo per alcuni secondi, poi riportò l’attenzione su di me mentre continuava a farlo saltellare. «Teniamo sotto stretto controllo le persone con cui si associano i nostri bambini.»
Il viso mi si fece rovente. «Va bene, d’accordo. Passi una bella giornata.» Allungai la mano verso il pulsante per alzare il finestrino.
Lei tese la mano come per fermarmi. «Deve smetterla di venire qui a infastidirla.»
Mi ritrassi e rilasciai la pressione sul pulsante. «Infastidirla? Sono in un auto parcheggiata alla distanza di un campo da calcio.»
«Sa cosa intendo.»
Un ruggito iniziò nella mia mente. «Non sono certa di capire.»
Strinse gli occhi e vidi le sue braccia stringersi intorno al bambino che urlò. «Non mi faccia spingere oltre, signora Burr-NAL.»
Il ruggito si intensificò. «Oltre? Dovrei avere paura di qualcosa?»
Si inclinò allontanandosi dal bambino, verso di me. «L’ira di Dio,» sussurrò. «Dovrebbe sempre aver paura dell’ira di Dio.»
Risi forte. «Va bene, capito. Grazie per essersi fermata.» Alzai il finestrino.
Lei fece tre passi indietro, poi si voltò, quasi cadendo sulla neve compattata sul canale di scolo. Guardai nel retrovisore mentre legava il bambino in un seggiolino auto sul suo enorme furgoncino verde militare, poi fece il giro e salì dal lato del conducente. Avviò il motore, ma non partì. Mi guardò invece — o la mia nuca, almeno — poi alzò un telefono e parlò, agitando un pugno come per scandire le sue parole. Abbassò lo sguardo. Annuì. Mise giù il telefono e guardò di nuovo verso di me, con un mezzo sorriso sulle labbra. Alla fine, afferrò qualcosa all’altezza della leva del cambio sul volante e il veicolo partì. Accelerò nella direzione opposta alla curva, con il furgoncino fuori controllo per un istante mentre mi passava davanti, e la neve che schizzava dietro le ruote quando la calpestavano.
«Bene.» dissi a voce alta, anche se ero sola. «È pazza.» Ridacchiai, ma non era una risata allegra. Se quella donna avesse tenuto una croce invece di un bambino, avrei potuto giurare che stesse cercando di esorcizzare i demoni dalla mia anima negli ultimi istanti trascorsi al mio finestrino. Non sarei stata del tutto sorpresa se l’arcangelo Michele fosse piombato giù dal cielo per assistere. Ora ero io a pensare cose pazzesche. Espirai attraverso le labbra serrate, molto piano e con intenzione.
Gli Hodges erano chiaramente ultrareligiosi, in un modo che faceva sembrare superficiale la donna di chiesa che era mia madre. Eppure, non capivo il comportamento di Mary Alice. Wallace aveva detto di aver informato gli Hodges che avevo intenzione di adottare Betsy non appena avessi ottenuto l’approvazione dello stato. Lo sapevano quando Betsy era arrivata da loro, proprio come sapevano che avevo salvato la vita alla bambina e avevo creato un legame forte con lei. Quindi, perché vietarmi di vederla per cominciare, e perché tutto quel trambusto? Forse mi consideravano un tipo di persona inadatta. Già, ero stata oggetto delle chiacchiere di Amarillo per alcuni mesi dopo essermi trasferita da Dallas, incinta e umiliata dalla sessualità e dall’amante di quel traditore di mio marito. Ma si trattava di lui, non di me. Non ero certo una grossa minaccia per un bambino, al punto da esserne allontanata.
Sbirciai attraverso il finestrino del passeggero, in cerca di Betsy nel cortile pieno di bambini urlanti. I miei occhi cercavano tra loro. Troppo alta. Capelli troppo chiari. Capelli troppo corti. Pelle troppo scura. Pelle troppo chiara. Quando strizzai gli occhi sulle bambine piccole e more con i capelli lunghi e neri che spuntavano dai cappelli invernali, la trovai. Piccola e adorabile. Mi vide guardarla, e mi salutò, servendosi di tutto il corpo.
Alzai la mano, per rispondere al saluto. Lei si guardò intorno e io vidi i suoi occhi agganciarsi alla schiena di un’insegnante; poi se la filò, un piccolo ciclone rosa che sfrecciava nella mia direzione. Senza esitare spalancai lo sportello dell’auto, mentre spegnevo il motore ed estraevo le chiavi, e corsi verso di lei, senza cappotto. Betsy percorse venti metri e io gli altri venticinque. Mi venne addosso e la sollevai in un enorme abbraccio piroettante.
«Ciao, Emily!» cantò la sua voce acuta, mentre premeva il viso freddo contro il mio. Era meraviglioso.
«Ciao, dolcezza! Come stai?» La misi giù. I lunghi capelli erano raccolti in trecce legate con elastici rosa su entrambi i lati della testa. Le era caduto un dente davanti.
Si accigliò, molto seria e adulta all’improvviso. «Sto bene, ma tu e Thunder mi mancate.» Thunder era il cavallo con cui eravamo scappate insieme.
Risi. «Mi manchi, e sono certa che anche tu manchi a Thunder.»
Il suo viso si illuminò. «Hai trovato il mio zainetto? La mamma si arrabbierebbe se sapesse che l’ho perso.»
Tirai fuori il labbro inferiore. Secondo Mary Alice Hodges, non potevo darle quello nuovo, quindi non ne parlai. «No, nessuno l’ha visto. Chiederò che continuino a cercarlo, va bene?»
Il fischio di fine ricreazione risuonò.
Betsy si voltò per guardare la sua insegnante che stava venendo svelta verso di noi, scuotendo la testa avanti a indietro, un fischietto in mano vicino alle labbra. «Oh-oh.»
«Già, oh-oh.» L’abbracciai un’ultima volta, poi tornò correndo dall’insegnante.
Mi incamminai verso l’auto. All’ultimo istante, mi voltai. Betsy camminava all’indietro e mi salutava, così presi il telefono e scattai in fretta una foto. Salii sulla Mustang, la rimisi in moto, e mi soffiai sulle mani fredde mentre la guardavo.
Betsy si unì ai compagni che mi sembrò giocassero ad acchiapparello, un buon modo per riscaldarsi all’esterno. Guardarla mi fece distendere il viso in un sorriso a trentadue denti. Anche se aveva perso entrambi i genitori e ora viveva con quei guastafeste degli Hodges, speravo che trovasse conforto nel sapere che aveva me, e che io la volevo davvero. Pensai ai miei genitori. Fino all’età di sedici anni mi ero sentita desiderata e amata da entrambi. Dopo l’abbandono di mio padre, soprattutto dopo che ebbe tagliato i ponti quando frequentavo l’ultimo anno alla Texas Tech, avevo ancora mia madre. Non che perdere l’amore di mio padre non mi avesse ferita, perché mi aveva ferita, ma sapevo di non essere sola. Certo, era possibile che anche gli Hodges fossero persone amorevoli e facessero sentire Betsy desiderata. Solo che mi sembrò altamente improbabile dopo aver conosciuto Mary Alice.
Il mio telefono squillò. Risposi senza guardare, gli occhi ancora su Betsy. «Emily al telefono.»
«Sono Ava,» disse una voce melodiosa e allegra. «Sai, Ava di Katie di San Marcos.»
La mia migliore amica ed ex capo alla Hailey & Hart di Dallas, Katie Kovacs, aveva smesso di fare l’avvocata per andare a vivere nei Caraibi, dove si era reinventata come cantante e tastierista con la sua nuova amica Ava Butler. Ero andata varie volte a vedere Katie e Ava esibirsi. Facevano sul serio. Avevano quasi ottenuto un contratto discografico a New York, ma Katie aveva avuto dei ripensamenti quando era diventata madre. Ricordai che Katie aveva detto che anche Ava aveva avuto una bambina.
«Ciao! Cavolo, che bella sorpresa sentirti.»
Guardai Betsy, ascoltando Ava a metà. Betsy era stata presa e toccava a lei acchiappare. I compagni si dispersero e lei iniziò a inseguirli.
«Il mio manager mi ha organizzato una serie di concerti per il paese. Verrò presto dalle tue parti.»
«È fantastico. Ti rendi conto che siamo in inverno qui, vero?» Ava era un’isolana. Non riuscivo a immaginarmela nel Panhandle arido e senza palme in un qualsiasi momento dell’anno, figuriamoci con quel gelo. E se Ava stava venendo fino in Texas per fare concerti, la maternità non la stava rallentando come rallentava Katie.
Si mise a ridere. «Yah mon1, nessun problema. Chiedo la tariffa doppia.»
Un altro colpo al finestrino, che quella volta però sembrò mandarlo in frantumi. Sobbalzai e mi voltai, facendo cadere il telefono verso il centro dell’auto. Nessun vetro mi cadde addosso, e mi ricomposi in fretta, pronta a urlare contro Mary Alice; solo che non era lei.