Chapter 21

3498 Parole
III - Confessione di un cuore ardente. In versi Dopo aver udito l’ordine che il padre gli aveva urlato dalla carrozza mentre lasciava il monastero, Alëša rimase per un po’ fermo al suo posto, profondamente sconcertato. Ma non se ne stette lì impalato a lungo, non era da lui. Al contrario, malgrado il suo turbamento, senza porre tempo in mezzo, passò per la cucina dell’igumeno e scoprì quello che aveva combinato di sopra il suo papà. Dopo di che, si mise in cammino, nella speranza di risolvere in qualche modo il problema che lo assillava lungo il tragitto per andare in città. Darò qualche anticipazione: egli non temeva affatto le urla del padre e l’ordine di trasferirsi a casa “con il cuscino e il materasso”. Sapeva sin troppo bene che l’ingiunzione di trasferirsi, impartita ad alta voce e in tono così perentorio, era stata data in un impeto di “esaltazione”, per così dire, persino per fare scena – qualcosa di simile al comportamento di quel borghese che aveva fatto baldoria di recente nella loro stessa cittadina, alla festa per il suo onomastico, e che, incollerito perché non gli davano più vodka, aveva cominciato all’improvviso, in presenza degli ospiti, a rompere le sue stesse stoviglie, a strappare i vestiti suoi e della moglie, a rompere i mobili e per finire i vetri della casa, e tutto questo solo per far scena; più o meno la stessa cosa era avvenuta al padre in quell’occasione. Il giorno dopo, una volta sobrio, il borghese naturalmente si era rammaricato di aver rotto piatti e bicchieri. Alëša sapeva che il vecchio l’avrebbe certamente rimandato al monastero l’indomani, o anche quel giorno stesso, forse. Era fermamente convinto che il padre avrebbe potuto desiderare di offendere chiunque tranne lui. Alëša era convinto che in tutto il mondo nessuno avrebbe mai voluto offenderlo, e non solo: nessuno avrebbe mai potuto offenderlo. Questo era un assioma per lui, stabilito una volta per tutte, inconfutabile, e in questo suo convincimento egli procedeva senza alcuna esitazione. Ma in quel momento in lui ribolliva una paura diversa, di tutt’altro genere, e tanto più tormentosa in quanto lui stesso non era in grado di definirla, la paura di una donna, di Katerina Ivanovna, che lo aveva così insistentemente pregato di recarsi da lei per una certa faccenda tramite quel biglietto consegnatogli poco prima dalla signora Chochlakova. Quella richiesta e quella necessità di andare assolutamente avevano ispirato nel suo cuore una sensazione angosciosa, e per tutta la mattinata quella sensazione si era dolorosamente acuita man mano che il tempo passava, malgrado tutte le scenate e gli avvenimenti che avevano avuto luogo successivamente, prima nell’eremo, poi dall’igumeno e così via. La sua paura non derivava dal fatto di ignorare di che cosa lei gli volesse parlare e come le avrebbe risposto. E non era neanche la donna in generale che temeva in lei: di donne ne conosceva poche, s’intende; comunque, per tutta la vita, dalla prima infanzia sino al monastero aveva vissuto solo con donne. Egli aveva paura di quella donna, proprio di Katerina Ivanovna. Ne aveva avuto paura dalla prima volta che l’aveva vista. L’aveva incontrata solo un paio di volte, forse tre, una volta aveva scambiato con lei qualche parola, casualmente. L’immagine che gli sovveniva di lei era quella di una fanciulla bella, fiera e imperiosa. Ma non era la bellezza di lei a tormentarlo, era qualcos’altro. Ecco, l’imperscrutabilità della sua paura finiva con il rafforzare in lui quella paura stessa. I fini di quella fanciulla erano nobilissimi, lui questo lo sapeva; lei cercava di salvare suo fratello Dmitrij, già colpevole dinanzi a lei, e cercava di salvarlo solo per bontà d’animo. Eppure nonostante egli fosse consapevole di tutti questi magnifici e nobili sentimenti e non mancasse di rendere loro merito, tuttavia man mano che si avvicinava alla casa di lei, sentiva i brividi che gli correvano su per la schiena. Egli pensava di non trovare da lei suo fratello Ivan Fëdoroviè, che le era così intimo amico: il fratello Ivan in quel momento doveva essere con il padre. Era ancora più sicuro del fatto che non avrebbe trovato Dmitrij, e prevedeva anche la ragione della sua assenza. E così la loro conversazione avrebbe avuto luogo a quattr’occhi. Avrebbe tanto voluto vedere, anche per un solo momento, il fratello Dmitrij prima di quella conversazione fatale e fare un salto da lui. Avrebbero potuto scambiare quattro chiacchiere, anche senza mostrargli la lettera. Ma il fratello Dmitrij viveva lontano e sicuramente non era in casa in quel momento. Si fermò per un attimo, poi prese una decisione definitiva. Si fece un rapido segno di croce, nel suo solito modo curioso, e subito sorrise per qualche ragione, poi si diresse risoluto dalla sua terribile signora. Conosceva il suo indirizzo. Ma se fosse passato per la Bol’šaja, per poi attraversare la piazza, il tragitto sarebbe stato piuttosto lungo. La nostra piccola cittadina si estende su una superficie molto vasta, quindi le distanze sono considerevoli. E poi il padre lo aspettava: questi forse non aveva ancora dimenticato la propria ingiunzione, e poteva mettersi a fare le bizze, quindi bisognava affrettarsi per riuscire ad andare dall’una e dall’altro. Fatte tutte queste considerazioni, egli decise di accorciare la strada, passando per i cortili sul retro, tanto conosceva tutti i passaggi della cittadina come il palmo della sua mano. Passare per i cortili sul retro significava fare un percorso praticamente privo di strade, lungo steccati desolati, scavalcare in alcuni punti siepi di giardini altrui e rasentare cortili, dove del resto tutti lo conoscevano e lo salutavano. Per quella strada poteva raggiungere la Bol’šaja dimezzando il percorso. In un punto si trovò persino a passare molto vicino alla casa del padre, proprio accanto al giardino che confinava con quello paterno e che apparteneva a una vecchia casupola cadente con quattro finestre. La proprietaria di quella casupola era, come sapeva Alëša, una borghese di città, una vecchia dalle gambe paralizzate che viveva con sua figlia, un’ex cameriera che si era evoluta nella capitale, che fino a poco tempo prima passava da una casa di generali all’altra, e ora, da circa un anno, era tornata a casa per via della malattia della vecchia, e qui si pavoneggiava con i suoi vestiti di lusso. Quella vecchia e sua figlia, comunque, si erano ridotte in condizioni miserevoli tanto che ricorrevano ogni giorno alla mensa del loro vicino, Fëdor Pavloviè, per la zuppa e il pane. Marfa Ignat’evna gliene dava volentieri. Eppure la figlia, che andava sempre a prendere la zuppa, non si era ancora decisa a vendere neanche uno dei suoi tanti vestiti – e uno di quelli aveva persino uno strascico lunghissimo. Alëša era stato messo al corrente di quest’ultima circostanza – ovviamente in maniera del tutto casuale – dal suo amico Rakitin, il quale sapeva decisamente tutto quello che accadeva nella piccola cittadina, e, dopo esserne stato messo al corrente, aveva, naturalmente, dimenticato tutto. Ma mentre raggiungeva il giardino delle vicine, quello strascico gli tornò subito in mente, egli sollevò rapidamente il capo, che teneva pensosamente chino, e si imbatté d’un tratto... in una persona che non si sarebbe mai aspettato di incontrare lì. Oltre la siepe del giardino delle vicine, c’era suo fratello Dmitrij Fëdoroviè che, sollevandosi su qualcosa, si sporgeva con il petto, si sbracciava per attirare la sua attenzione, lo chiamava, gli faceva segno di avvicinarsi, nel palese timore non solo di gridare, ma persino di parlare a voce alta. Alëša raggiunse la siepe di corsa. «È un bene che ti sia guardato attorno da solo, ero già lì lì per gridare», gli sussurrò in fretta Dmitrij Fëdoroviè tutto contento. «Arrampicati qui! Fa presto! Ah, che bello che sei venuto. Stavo giusto pensando a te...» Anche Alëša era contento, solo che non sapeva come arrampicarsi sulla siepe. Ma Mitja, con la sua mano erculea, lo afferrò per un gomito e lo aiutò a saltare. Sollevata la tonaca, Alëša balzò con la disinvoltura di quei monelli che vanno in giro scalzi per la città. «Ecco fatto, adesso andiamo!», disse Mitja con un sussurro trionfante. «Andiamo dove?», gli sussurrò di rimando Alëša, guardandosi intorno e vedendo il giardino deserto intorno a sé: a parte loro due, non c’era anima viva. Il giardino era piccolo, ma la casupola delle padrone era comunque a una distanza non inferiore ai cinquanta passi. «Ma se non c’è nessuno perché bisbigli?» «Perché bisbiglio? Diavolo!», gridò improvvisamente a squarciagola Dmitrij Fëdoroviè. «È vero: perché mai bisbiglio? Be’, vedi un po’ che brutti scherzi ti fa la natura tutt’a un tratto. Sono qui in segreto e a guardia di un segreto. La spiegazione la rimando a dopo, ma sapendo che è un segreto, mi sono messo a parlare in segreto e a bisbigliare come uno scemo, anche se non ce n’è alcun bisogno. Andiamo! Andiamo di lì! Ma per ora sta calmo. Ho voglia di darti un bacio! Gloria al Signore che è nel mondo Gloria al Signore che è in me!... Me lo ripetevo adesso, prima che tu arrivassi, mentre me ne stavo lì seduto». Il giardino aveva la superficie di un ettaro o poco più, ma gli alberi – meli, aceri, tigli e betulle – erano piantati solo intorno, lungo i quattro lati delle siepi. Al centro, c’era un prato vuoto, nel quale in estate si falciavano alcuni pudy di fieno. La padrona lo affittava in primavera per pochi rubli. Tutt’intorno, lungo le siepi di recinzione, c’erano anche cespugli di lamponi, uva spina, ribes; dei filari di ortaggi erano stati tracciati di recente accanto alla casa. Dmitrij Fëdoroviè condusse l’ospite in uno degli angoli del giardino più lontani dalla casa. Lì, in mezzo a un folto di tigli e vecchi arbusti di ribes, sambuco, viburno e lillà, spuntarono all’improvviso i ruderi di un decrepito chioschetto verde, annerito dagli anni e cadente, con le pareti a graticcio, ma con il tetto integro sotto il quale era ancora possibile ripararsi dalla pioggia. Il chiosco era stato costruito Dio solo sa quando, una cinquantina di anni prima, si diceva, dall’allora proprietario della casetta, Aleksandr Karloviè von Šmidt, tenente colonnello a riposo. Ma ormai cadeva a pezzi, il pavimento marciva, le assi traballavano, il legno puzzava di umidità. Nel chioschetto c’era un tavolo verde di legno fissato al terreno e tutt’intorno delle panchine pure verdi, sulle quali ci si poteva ancora sedere. Alëša aveva notato subito lo stato d’animo esaltato del fratello, ed entrando poi nel chioschetto, scorse sul tavolo una mezza bottiglia di cognac e un bicchierino. «Ecco qui del cognac!», disse Mitja scoppiando a ridere. «E tu guardi e pensi: “È di nuovo ubriaco”. Non credere a un fantasma. Non credere alla folla vacua e falsa Dimentica i tuoi dubbi... Non sono ubriaco, sto soltanto “golosando”, come dice quel porco del tuo Rakitin, che diventerà consigliere di V classe e continuerà sempre a dire “sto solo golosando”. Siediti. Alëša, ti prenderei e ti stringerei al petto, sino a farti soffocare, giacché in tutto il mondo (ascoltami con attenzione, ascoltami con attenzione) io amo veramente soltanto te... ve–ra–men–te!» Aveva pronunciato quest’ultima frase quasi con rabbia. «Soltanto te, e poi c’è anche una creatura “abietta” della quale mi sono innamorato e per questo sono spacciato. Ma essere innamorati non vuol dire amare. Si può essere innamorati e odiare. Ricordatelo! Per il momento sto parlando ancora per scherzo. Siediti qui al tavolo, io mi siederò accanto a te, ti guarderò e ti dirò tutto. Tu starai zitto per tutto il tempo e io dirò tutto perché è giunta l’ora. Del resto, sai, credo che dobbiamo davvero parlare a bassa voce perché qui... qui... chissà quali orecchie potrebbero essere in ascolto. Ti spiegherò tutto, te l’ho già detto: la continuazione a dopo. Perché ho tanto desiderato stare con te? Perché ti ho bramato tutti questi giorni e anche adesso? (E sono già cinque giorni che ho piantato l’ancora qui). Tutti questi giorni! Perché solo a te posso dire tutto, perché devo farlo, perché ho bisogno di te, perché domani volerò giù dalle nuvole, perché domani la vita avrà una fine e un inizio. Hai mai provato la sensazione, hai mai sognato di precipitare dall’alto in una fossa? Ebbene, io in questo momento sto precipitando allo stesso modo, ma non sto sognando. Eppure non ho paura e non devi aver paura neanche tu. Cioè, io ho paura, ma per me è una dolce sensazione. Cioè, non è una dolce sensazione, è l’estasi... Ma al diavolo, tanto fa lo stesso qualunque cosa sia! Uno spirito forte, uno spirito debole, uno spirito da femminuccia, qualunque cosa sia! Rendiamo lode alla natura: vedi che bel sole, che cielo limpido, le foglie sono tutte verdi, l’estate è al suo culmine, sono le quattro di pomeriggio, la quiete! Dove stavi andando?» «Stavo andando da nostro padre, ma prima volevo fare un salto da Katerina Ivanovna». «Da lei e da nostro padre! Oh, che coincidenza! Ma lo sai il motivo per il quale ti ho chiamato, perché desideravo vederti, perché ti anelavo e ti bramavo in tutti i recessi della mia anima e in tutte le fibre del mio cuore? Proprio per mandarti da nostro padre, a nome mio, e poi da lei, da Katerina Ivanovna, e così farla finita sia con lei sia con nostro padre. Mandare un angelo. Avrei potuto mandare uno qualunque, ma a me occorreva mandare un angelo. Ed ecco che tu, di tua stessa iniziativa, stai andando proprio da lei e da nostro padre». «Ma è vero che volevi mandare proprio me?», gridò Alëša con un’espressione sofferente in volto. «Aspetta, tu lo sapevi. E vedo che hai capito tutto in un batter d’occhio. Ma sta zitto, per ora sta zitto. Non mi compatire e non piangere!» Dmitrij Fëdoroviè si alzò, rifletté per un attimo e portò l’indice alla fronte: «Ti ha chiamato lei stessa, ti ha scritto una lettera, o qualcosa del genere, e per questo tu stai andando da lei, altrimenti tu non ci saresti mai andato di tua volontà». «Ecco il biglietto». Alëša lo estrasse dalla tasca. Mitja gli dette una veloce scorsa. «E tu ci andavi passando per i cortili sul retro! Oh, dèi! Vi ringrazio per averlo fatto passare per i cortili sul retro in modo tale che venisse dritto dritto da me, come il pesciolino d’oro andò dal vecchio pescatore sciocco della fiaba. Ascolta, Alëša, ascolta fratello. Adesso ho intenzione di dirti tutto. A qualcuno dovrò pur dirlo. All’angelo del cielo l’ho già raccontato, ma adesso devo raccontarlo a un angelo sulla terra. Tu sei un angelo in terra. Tu ascolterai, giudicherai e perdonerai... E a me serve proprio questo, che un essere superiore mi perdoni. Ascolta: se due creature all’improvviso si staccano da ogni cosa terrena e volano in una dimensione straordinaria, oppure, se almeno una di loro, prima di prendere il volo e di andare incontro alla rovina, va dall’altra e le dice: “Fa’ per me questo e quest’altro”, qualcosa che non si chiede mai a nessuno, ma che si può chiedere solo in punto di morte – può quell’altra creatura rifiutarsi di farlo... se è un amico, se è un fratello?» «Lo farò, ma dimmi di che si tratta e dillo in fretta», disse Alëša. «In fretta... Hmm... non avere fretta, Alëša: tu hai fretta e sei inquieto. Ma adesso non c’è motivo di avere fretta. Adesso il mondo ha imboccato una nuova strada. Eh, Alëša, che peccato che tu non sia arrivato a concepire l’estasi. Ma che cosa ti vengo a dire? Come se tu non l’avessi mai concepita! E io, imbecille, che vado dicendo: Sii nobile, o uomo! Di chi è questo verso?» Alëša si decise ad aspettare. Egli aveva capito che, forse, in quel momento, proprio lì occorreva la sua opera. Mitja rimase per un attimo sovrappensiero, con il gomito poggiato sul tavolo e la testa appoggiata sul palmo della mano. Entrambi tacquero per un po’. «Lëša», disse Mitja, «tu sei l’unico che non si metterà a ridere! Volevo iniziare... la mia confessione... con l’inno alla gioia di Schiller. An die Freude! Ma non conosco il tedesco, so soltanto An die Freude. E non pensare neanche che vaneggi per i fumi dell’alcool. Non sono affatto ubriaco. Il cognac è cognac, certo, ma a me occorrono due bottiglie per ubriacarmi: Va’ Sileno dal corno rubizzo Sull’asino incespicante, mentre io non ho bevuto neanche un quarto di bottiglia e non sono Sileno. Io non sono Sileno, ma sono forte perché ho preso una decisione definitiva. Mi perdonerai il gioco di parole, mi dovrai perdonare molte cose oggi, non soltanto il gioco di parole. Non ti preoccupare, non mi perdo in chiacchiere, sto parlando di un fatto preciso e andrò dritto al punto. Non mi metterò a tirarla tanto per le lunghe. Aspetta, come diceva...» Sollevò la testa, ci pensò su e poi esordì infervorato: «Pavido, nudo e selvaggio si nascondeva il troglodita fra i dirupi ed il nomade vagava per i campi e i campi devastava. Il cacciatore con lancia e dardi correva minaccioso per i boschi... Guai al naufrago travolto dalle onde sui lidi inospitali! Dalla sommità dell’Olimpo discende la madre Cerere sulle tracce di Proserpina rapita: il mondo dinanzi a lei si estende miserando. Non un angolo ospitale lì si offre alla dea, né v’è tempio che testimoni la venerazione agli dèi. Il frutto dei campi e i dolci grappoli non brillano nei conviti, solo fumi di resti umani sugli altari insanguinati. E dovunque la dea posi lo sguardo afflitto scorge l’umanità in profonda umiliazione. I singhiozzi proruppero all’improvviso dal petto di Mitja. Afferrò Alëša per un braccio. «Amico mio, amico mio, mi sento umiliato, mi sento umiliato anche in questo momento. L’uomo deve sopportare un fardello terribilmente pesante su questa terra, troppe sono le sue disgrazie! Non pensare che io sia solo un villano in divisa da ufficiale, che beve cognac e conduce una vita dissoluta. Io, fratello, quasi quasi non penso ad altro che a questo, a quest’uomo umiliato, se solo non mento. Che Dio mi conceda di non mentire e di non elogiare me stesso. Penso a quest’uomo, perché io stesso sono quest’uomo. Affinché dall’abiezione dell’ anima l’uomo possa risollevarsi con l’antica madre–terra deve stringere eterno patto. Ma la difficoltà è proprio questa: come faccio io a stringere un eterno patto con l’antica madre terra? Io non bacio la terra, non le squarcio il petto, dovrei forse mettermi a fare il contadino o il pastore? Io cammino e non so se vado verso il fetore e la vergogna oppure verso la luce e la felicità. Perché è questa la disgrazia: ogni cosa nel mondo è un enigma! E quando mi è capitato di affondare nella più abietta degradazione (e a me è capitato solo questo), ho sempre recitato questi versi su Cerere e l’uomo. Mi hanno mai corretto? Mai! Perché io sono un Karamazov, perché quando spicco il volo verso l’abisso, a capofitto, con la testa in giù e i piedi in aria, sono persino soddisfatto di cadere proprio in una posizione così umiliante e ci vedo sempre qualcosa di bello. Ed ecco che mentre mi trovo in quella degradazione, all’improvviso intono un inno. Che io sia maledetto, che sia vile e meschino, purché possa baciare il lembo di quella pianeta con cui è avvolto il mio Dio; che possa seguire anche il diavolo, ma rimango pur sempre figlio tuo, o Signore, e ti amo e provo una felicità senza la quale il mondo non potrebbe esistere. Ogni anima creata da Dio la gioia eterna alimenta, di forza arcana e fermento arde la coppa della vita; l’erba fece germogliare, soli dal caos formò e negli spazi ignoti all’astrologo li lanciò. Al seno della natura tutti gli esseri attingono gioia; tutte le creature, tutti i popoli, ella attrae dietro di sé. A noi diede amici nella sventura e il succo delle viti e i serti, agli insetti, la lussuria... l’Angelo sta in piedi dinanzi a Dio. Ma basta con i versi! Ho versato qualche lacrima, ma lasciami piangere un pochino. Che sia pure una sciocchezza questa, una di quelle che fanno ridere tutti. Ma tu non riderai. Ecco, anche tu hai i lucciconi agli occhi. Ma basta con i versi. Adesso voglio parlarti di quegli “insetti”, di quelli ai quali Dio ha fatto dono della lussuria: Agli insetti, la lussuria! Io, fratello, sono l’insetto più insetto che ci sia e quel verso sembra scritto apposta per me. E in noi tutti Karamazov, anche in te, che sei un angelo, vive quest’insetto e anche nel tuo sangue alimenterà la tempesta! Sono tempeste quelle, perché la lussuria è una tempesta, anzi è peggio di una tempesta! La bellezza è una cosa spaventosa e terribile, spaventosa perché non è definita, ma essa è indefinibile perché Dio ha posto solo enigmi. Qui gli opposti si congiungono e tutte le contraddizioni convivono. Io, fratello, sono molto ignorante, ma ho riflettuto a lungo su questo. C’è una quantità spaventosa di misteri! Troppi enigmi opprimono l’uomo sulla terra. Dobbiamo cercare di risolvere gli enigmi meglio che possiamo, e cercare di uscire asciutti dall’acqua. La bellezza! Io non posso sopportare che un uomo superiore, con un gran cuore e con un’intelligenza elevata, incominci con l’ideale della Madonna e finisca con l’ideale di Sodoma. È ancora più spaventoso che un uomo, con l’ideale di Sodoma nell’anima, non rinunci all’ideale della Madonna, e che il suo cuore ne arda, ne arda sinceramente come negli anni innocenti della giovinezza. No, l’uomo è vasto, sin troppo vasto, io lo restringerei. Ma poi lo sa il diavolo che cosa sia l’uomo, ecco cosa vi dico! Ciò che alla mente sembra ignominia, al cuore può sembrare pura bellezza! In Sodoma c’è bellezza? Credi a me, per la stragrande maggioranza delle persone la bellezza è proprio in Sodoma, lo conoscevi questo segreto? Ciò che fa paura è che la bellezza non sia soltanto spaventosa ma anche misteriosa. Qui il diavolo combatte con Dio e il campo di battaglia è il cuore dell’uomo. E del resto, la lingua batte dove il dente duole. Ascolta, adesso vengo al sodo».
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