Chapter 20

1859 Parole
II - Lizaveta Smerdjašèaja C’era qui una circostanza particolare che scosse profondamente Grigorij e rafforzò definitivamente in lui un vecchio sospetto sgradevole e ripugnante. Questa Lizaveta Smerdjascaja era una ragazzetta di bassissima statura, “un esserino sul metro e mezzo”, come dicevano commosse di lei, dopo la sua morte, molte vecchiette devote della nostra cittadina. Il suo viso da ventenne, florido, ampio e colorito, aveva un’espressione completamente idiota; anche lo sguardo dei suoi occhi era fisso e sgradevole, sebbene mite. Per tutta la vita aveva sempre vagabondato scalza, sia d’inverno sia d’estate, con indosso soltanto una camiciola di canapa. I suoi capelli scuri, quasi neri, straordinariamente folti, arricciati come quelli di un montone, le spuntavano sulla testa come una specie di enorme cappello. Inoltre erano sempre impiastricciati di terra e fango e pieni di foglioline, scheggette, trucioli appiccicati, in quanto ella dormiva sempre per terra, in mezzo al fango. Suo padre Il’ja, era un senzatetto, un borghesuccio caduto in rovina e pieno di acciacchi, fortemente dedito all’alcool, che viveva ormai da molti anni con mansioni di operaio presso alcuni padroni agiati, anche loro borghesi delle nostre parti. La madre di Lizaveta era morta da tempo. Il’ja, abbrutito e sempre malaticcio, picchiava Lizaveta in maniera disumana tutte le volte che lei tornava a casa. Ma lei ci tornava di rado perché campava grazie alla carità di tutti gli abitanti della città, come una povera creatura mentecatta e cara a Dio. Sia i padroni di Il’ja, sia Il’ja stesso e persino molti cittadini compassionevoli, in prevalenza mercanti e mercantesse, avevano provato più di una volta a far indossare a Lizaveta qualcosa di più decente che non fosse quella sua striminzita camiciola, e d’inverno le mettevano indosso un pellicciotto di montone e ai piedi degli stivaletti; lei di solito si lasciava vestire senza protestare, ma poi se ne andava da qualche parte, per lo più sul sagrato della chiesa, e puntualmente si toglieva tutto quello che le avevano donato – fosse il fazzoletto, la gonna, il pellicciotto, gli stivaletti – e lasciava tutto lì e se ne andava scalza e con la sola camiciola indosso, come prima. Una volta accadde che un nuovo governatore del nostro governatorato, facendo un giro d’ispezione nella nostra città, quando vide Lizaveta si sentì molto offeso nei suoi sentimenti migliori e, sebbene si rendesse conto che era una mentecatta come gli avevano riferito, tuttavia fece notare che una giovane donna che andasse in giro con la sola camiciola indosso violava ogni norma di decenza e che perciò, da quel momento in poi, non doveva più ripetersi una cosa simile. Ma il governatore andò via e Lizaveta fu lasciata così com’era. Poi suo padre morì e per questo ella diventò ancora più cara a tutte le persone compassionevoli della città, in quanto era rimasta orfana. In realtà sembrava che tutti le volessero bene, non capitava nemmeno che i ragazzini la prendessero in giro o la offendessero, e i ragazzini da noi, soprattutto quelli che vanno a scuola, sono una masnada di dispettosi. Quando entrava in casa di sconosciuti nessuno la cacciava, al contrario, la coccolavano tutti e le davano un soldino. Quando le davano un soldino, lei andava immediatamente ad infilarlo nella cassetta per l’elemosina delle chiese o delle carceri. Quando al mercato le regalavano una ciambellina o una pagnottella, lei immancabilmente la regalava al primo bambino che incontrava, oppure fermava qualcuna delle nostre signore più ricche e la regalava a lei, e le signore accettavano persino con gioia. Quanto a lei, non si cibava che di pane nero e acqua. Quando entrava e si fermava in qualche ricca bottega, dove c’era merce preziosa e denaro in giro, i padroni non la controllavano mai, perché sapevano che anche se avessero preso e dimenticato davanti a lei migliaia di rubli, Lizaveta non avrebbe sottratto neanche una copeca. In chiesa andava di rado, dormiva nei sagrati delle chiese oppure in qualche orto, dove si intrufolava scavalcando la siepe (da noi ci sono ancora molte siepi al posto degli steccati). A casa, cioè nella casa di quei padroni presso i quali aveva vissuto il suo defunto padre, si faceva vedere su per giù una volta alla settimana, e d’inverno anche ogni giorno, ma soltanto per la notte e dormiva nell’andito oppure nella stalla. Ci si meravigliava che riuscisse a sopportare una simile vita, ma lei era abituata così; sebbene fosse piccola di statura, aveva una costituzione straordinariamente robusta. C’era fra i nostri concittadini chi sosteneva che lei facesse tutto questo per una specie di orgoglio, ma questa spiegazione non era molto convincente: non sapeva parlare, di tanto in tanto articolava qualche suono e mugghiava qualcosa – quale orgoglio ci poteva essere in tutto questo? Accadde un giorno (molti anni fa), in una notte di luna piena tiepida e luminosa, in settembre, a un’ora molto tarda, secondo le nostre abitudini, che una combriccola brilla di nostri concittadini, cinque o sei giovanotti, tornasse dal club dopo una serata di bagordi, per una viuzza che attraversava i cortiletti sul retro delle case. Su entrambi i lati della viuzza si snodavano le siepi dietro le quali si allungavano gli orti delle case attigue; la viuzza sbucava su un ponticello che attraversava quella pozza d’acqua fetida che da noi si suole chiamare fiumicello. Presso la siepe, fra le ortiche e la lappola, la nostra combriccola scorse Lizaveta che dormiva. Gli avvinazzati signori si soffermarono accanto a lei ridendo e si misero a fare dello spirito con la più sfacciata licenziosità. Ad uno di quei signorotti venne ad un tratto in mente una domanda davvero singolare su un argomento assurdo: “Sarebbe possibile che qualcuno consideri una bestia del genere come una donna, e quindi...” e così via. Tutti con fiero disgusto decretarono che sarebbe stato impossibile. Ma anche Fëdor Pavloviè si trovava a far parte di quella combriccola, e questi subito saltò su e disse che era possibile considerarla una donna, anzi possibilissimo e che nella cosa ci sarebbe stato anche un che di piccante, eccetera eccetera. Vero è che da noi, in quel periodo egli si era esageratamente compenetrato nel ruolo di buffone, gli piaceva mettersi in mostra e divertire i signori come se fosse un loro pari, sebbene, in realtà, ai loro occhi fosse un perfetto zoticone. Era quello lo stesso periodo nel quale aveva ricevuto da Pietroburgo la notizia della morte della sua prima moglie, Adelaida Ivanovna e, con la fascia del lutto sul cappello, beveva e combinava tante di quelle porcherie che alcuni dei peggiori libertini, nostri concittadini, provavano disgusto a vederlo. La combriccola, ovviamente, rise a crepapelle sentendo formulare questa opinione inattesa, qualcuno cominciò persino a istigare Fëdor Pavloviè, mentre gli altri si misero a manifestare il loro ribrezzo più di prima, seppure con la stessa smodata allegria. Alla fine proseguirono per la loro strada. In seguito Fëdor Pavloviè giurò di essere andato via anche lui con gli altri quella sera: può anche darsi che le cose fossero andate così, nessuno può saperlo per certo, né nessuno saprà mai quale sia la verità, fatto sta che cinque o sei mesi più tardi in tutta la città si cominciò a parlare, con intensa e sincera indignazione, della gravidanza di Lizaveta: ci si domandava e si indagava di chi fosse la colpa e chi fosse l’oltraggiatore. In quell’occasione si diffuse per tutta la città la terribile voce che l’oltraggiatore altri non fosse che Fëdor Pavloviè. Da che cosa era nata quella voce? Di quella combriccola di ubriachi, a quel tempo, in città, era rimasto un solo partecipante: un anziano e rispettato consigliere, un capofamiglia, padre di figlie già adulte; costui non avrebbe mai messo in giro una chiacchiera simile anche se fosse stata vera; quanto agli altri partecipanti, cinque in tutto, a quel tempo ognuno se n’era andato per la sua strada. Ma quelle voci designarono subito Fëdor Pavloviè e continuarono a designarlo anche in seguito. Ovviamente, egli non se la prese molto per questo: certo, non si sarebbe preoccupato di giustificarsi con mercantesse e gente di mezza tacca. A quel tempo era orgoglioso e si degnava di parlare esclusivamente con la cerchia di funzionari e nobili che sapeva divertire così bene. Ecco, in quell’occasione Grigorij non solo aveva preso energicamente le difese del padrone contro tutte quelle calunnie, ma si era messo pure a litigare e fare discussioni in sua difesa, riuscendo a far cambiare idea a molte persone. «È colpa di lei, della meschina», affermava con convinzione e l’oltraggiatore altri non era che “Karp, quello della vite” (così si chiamava un detenuto famigerato che in quel periodo era fuggito dal carcere del governatorato e che viveva in latitanza nella nostra città). Questa ipotesi risultò plausibile: ci fu chi ricordò, e ricordò con chiarezza, che Karp proprio in quelle notti, all’inizio dell’autunno, si era aggirato per la città e aveva derubato tre persone. Ma quell’incidente e tutte le chiacchiere che seguirono non solo non alienarono alla povera mentecatta le simpatie generali, ma tutti cominciarono a proteggerla e a prendersi cura di lei ancora più di prima. La mercantessa Kondrat’eva, una vedova agiata, aveva persino dato disposizioni che Lizaveta fosse condotta da lei alla fine di aprile con l’intenzione di non lasciarla andare via sino al momento del parto. La tenevano continuamente sotto sorveglianza, ma, a dispetto di tutta la sorveglianza, andò a finire che Lizaveta, proprio la sera dell’ultimo giorno, scappò all’improvviso e di nascosto dalla casa della Kondrat’eva e andò a finire nel giardino di Fëdor Pavloviè. Come avesse fatto, nelle sue condizioni, a scavalcare l’alto e solido steccato del giardino, rimase un mistero. Alcuni sostenevano che qualcuno l’avesse “aiutata a scavalcare”, altri dicevano che l’avesse “aiutata qualche forza oscura”. La cosa più probabile è che tutto fosse accaduto in un modo naturale anche se molto complicato: dal momento che Lizaveta era abituata ad arrampicarsi sulle siepi per passare la notte negli orti altrui, in qualche modo doveva pure essersi arrampicata sullo steccato di Fëdor Pavloviè e di lì, malgrado le condizioni in cui si trovava, doveva aver fatto un salto giù nel giardino, facendosi male. Grigorij si precipitò da Marfa Ignat’evna e la mandò ad aiutare Lizaveta; quanto a lui, corse dalla vecchia levatrice, una borghese, che viveva non lontano. Riuscirono a salvare il bambino, ma Lizaveta spirò verso l’alba. Grigorij prese il piccino, lo portò a casa, fece sedere la moglie e glielo poggiò sulle ginocchia, vicino al petto: «Un bimbo di Dio, un orfanello è parente di tutti, e a maggior ragione, mio e tuo. È stato il nostro morticino a inviarcelo; egli è nato dal figlio del diavolo e da una giusta. Allattalo e d’ora in avanti non piangere più». Così fu Marfa Ignat’evna ad allevare il bambino. Lo battezzarono e lo chiamarono Pavel, e quanto al patronimico cominciarono spontaneamente a chiamarlo Fëdoroviè. Fëdor Pavloviè non si oppose in alcun modo e lo trovò persino divertente, anche se continuava a negare con tutte le sue forze la propria responsabilità. In città fece buona impressione che egli avesse accolto il bimbo abbandonato. In seguito Fëdor Pavloviè inventò anche un cognome per il trovatello: lo chiamò Smerdjakov, dal soprannome di sua madre, Lizaveta Smerdjascaja. Così questo Smerdjakov diventò il secondo servitore di Fëdor Pavloviè; all’inizio della nostra storia, egli abitava nella dipendenza insieme al vecchio Grigorij e alla vecchia Marfa. Si occupava della cucina. Dovrei soffermarmi su di lui in particolare, ma mi vergogno di distogliere tanto a lungo l’attenzione del mio lettore a causa di ordinari lacchè, pertanto ritornerò al mio racconto, sperando che capiti ancora l’occasione di parlare di Smerdjakov.
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