Chapter 19

2403 Parole
I - Nelle stanze della servitù La casa di Fëdor Pavloviè Karamazov sorgeva piuttosto distante dal centro della città, anche se non proprio in periferia. Era una casa vecchia, ma piacevole a vedersi: ad un piano, con un attico, le pareti dipinte di un colore grigiognolo e il tetto rosso di ferro. Era spaziosa e confortevole e poteva reggere ancora molti anni. Aveva una miriade di sgabuzzini e nascondigli di vario genere e scalette a sorpresa. Era infestata di ratti, ma Fëdor Pavloviè non era molto contrariato per questo: “Se non altro si sente meno la noia, quando la sera si rimane soli soletti”. Infatti era sua abitudine mandare a dormire i servi nella dipendenza e chiudersi a chiave da solo in casa per tutta la notte. La dipendenza si trovava in cortile, era ampia e solida. Fëdor Pavloviè aveva disposto che essa avesse anche una cucina, sebbene in casa ce ne fosse già una; egli non amava l’odore della cucina e, sia d’inverno sia d’estate, gli portavano i cibi passando per il cortile. La casa era stata concepita per una famiglia numerosa, avrebbe potuto ospitare il quintuplo della gente che vi abitava, fra padroni e servitù. Ma al momento del nostro racconto vi abitavano soltanto Fëdor Pavloviè e Ivan Fëdoroviè, mentre nella dipendenza della servitù vivevano solo tre persone: il vecchio Grigorij, la vecchia Marfa, sua moglie e il servitore Smerdjakov, che era ancora un giovanotto. Dobbiamo parlare un po’ più dettagliatamente di queste tre persone di servizio. Del vecchio Grigorij Vasil’eviè Kutuzov, del resto, abbiamo già detto abbastanza. Era un uomo fermo e inflessibile, che perseguiva il suo scopo tenacemente, andando dritto per la sua strada, bastava che quello scopo, per qualche ragione, a volte sorprendentemente priva di logica, apparisse ai suoi occhi nella veste di verità assoluta. In generale, era persona onesta e incorruttibile. Sua moglie, Marfa Ignat’evna, nonostante si fosse incondizionatamente piegata alla volontà del marito per tutta la vita, aveva terribilmente insistito con lui per lasciare Fëdor Pavloviè subito dopo l’emancipazione dei servi della gleba, andare a Mosca e intraprendere lì una qualche piccola attività commerciale (avevano messo da parte i loro bei soldini), ma Grigorij aveva deciso allora, e una volta per tutte, che la donnetta vaneggiava, “perché tutte le donne sono disoneste”, e che non dovevano abbandonare il loro vecchio padrone, comunque egli fosse, “perché quello, al presente, era il loro dovere”. «Lo capisci che cos’è il dovere?», aveva domandato a Marfa Ignat’evna. «Il dovere lo capisco, Grigorij Vasil’eviè, ma qual è il dovere che ci costringe a restare qui, questo proprio non lo capisco», rispose duramente Marfa Ignat’evna. «E tu non capire, tanto sarà così lo stesso. D’ora innanzi tieni la bocca chiusa». E così fu: i due non se ne andarono e Fëdor Pavloviè fissò per loro una retribuzione modesta, ma che pagava puntualmente. Grigorij sapeva, inoltre, di avere un’influenza indiscutibile sul padrone. Ne era consapevole ed era proprio così: Fëdor Pavloviè era un buffone astuto e ostinato, eppure, sebbene avesse una volontà ferrea “in certe cose della vita”, come diceva lui stesso, in altre “cose della vita”, con sua somma meraviglia, si dimostrava molto debole. Egli conosceva le proprie debolezze, le conosceva e ne aveva paura. In alcune occasioni della vita bisognava tenere gli occhi aperti e in tali circostanze era duro non avere una persona affidabile a fianco, e Grigorij era il più affidabile degli uomini. Nel corso della sua vita erano capitate persino molte occasioni in cui Fëdor Pavloviè si era trovato sul punto di prenderle, e di prenderle di santa ragione, e Grigorij gli aveva sempre dato una mano, pur non risparmiandogli poi la sua ramanzina. Ma le busse soltanto non avrebbero spaventato Fëdor Pavloviè: c’erano occasioni più serie, anche molto sottili e complicate, nelle quali Fëdor Pavloviè stesso non sarebbe stato capace di definire quella straordinaria esigenza di avere accanto una persona fedele e devota, che sopraggiungeva in lui a volte all’improvviso, repentinamente e inspiegabilmente. Erano circostanze quasi morbose, queste: il dissolutissimo Fëdor Pavloviè, spesso crudele nella sua lussuria al pari di un cattivo insetto, a volte veniva sopraffatto, in momenti di ubriachezza, da un terrore spirituale e da uno scuotimento morale che si ripercuoteva quasi fisicamente nella sua anima. “È come se in quei momenti l’anima mi tremasse nella gola “, diceva a volte. E proprio in quei momenti gli piaceva sapere che lì accanto, nelle vicinanze, non proprio nella stessa stanza, ma nella dipendenza, ci fosse un uomo così devoto, fermo, completamente diverso da lui, non dissoluto, il quale, sebbene assistesse a quegli eccessi e fosse al corrente di tutti i segreti, per devozione gli lasciasse passare tutto questo, non lo contrastasse e, soprattutto, non lo biasimasse e non lo minacciasse in alcun modo, né in questa vita né nell’altra e, in caso di bisogno, lo difendesse – ma da chi? Da qualche essere sconosciuto, ma terribile e pericoloso. Ciò di cui aveva bisogno era che ci fosse assolutamente un altro, una persona amica da vecchia data, e che nei momenti di crisi lo potesse chiamare solo per vederne il viso, magari per scambiare quattro chiacchiere, anche su argomenti futili; se il servitore non era arrabbiato, egli sentiva un certo sollievo nel cuore, e se invece era arrabbiato si sentiva ancora più triste. Accadeva addirittura (ma molto di rado) che Fëdor Pavloviè si recasse di notte nella dipendenza per svegliare Grigorij e chiedergli di andare da lui un minutino. Quello ci andava, e Fëdor Pavloviè si metteva a discorrere delle cose più banali e ben presto lo congedava, a volte persino con qualche battuta scherzosa e qualche burla; poi, una volta rimasto solo, dopo averci sputato su, si coricava e si addormentava del sonno del giusto. A Fëdor Pavloviè era accaduto qualcosa di simile anche dopo l’arrivo di Alëša. Alëša gli “aveva trafitto il cuore” per il fatto che “viveva con lui, vedeva ogni cosa e non giudicava mai”. Inoltre egli portava con sé una cosa che suo padre non aveva mai visto prima: l’assenza assoluta di disprezzo nei confronti di un vecchio come lui e, al contrario, una costante dolcezza e un affetto perfettamente spontaneo e sincero verso il padre, che se lo meritava così poco. Tutto ciò era stato una sorpresa assoluta per quel vecchio donnaiolo privo di attaccamento alla famiglia, un’esperienza inattesa per un uomo che fino a quel momento aveva amato solo il “luridume”. Quando Alëša andò via, egli confessò a se stesso di aver capito qualcosa che fino a quel momento non aveva voluto capire. Ho già avuto modo di dire, all’inizio del mio racconto, che Grigorij aveva detestato Adelaida Ivanovna, prima consorte di Fëdor Pavloviè e madre del suo primogenito, Dmitrij Fëdoroviè, mentre aveva preso le difese della seconda consorte, la klikuša, Sof’ja Ivanovna, contro il suo stesso padrone e contro tutti quelli a cui veniva in mente di dire sul suo conto parole cattive o avventate. La simpatia verso quell’infelice si era trasformata in lui in una specie di sacra devozione, tanto che, a distanza di vent’anni dalla sua morte, egli non avrebbe tollerato che chicchessia osasse anche solo alludere a lei in maniera irriverente e avrebbe senz’altro risposto per le rime all’offensore. All’apparenza Grigorij era un uomo freddo e grave, taciturno, un tipo che soppesava accuratamente le parole, senza avventatezza. Non era possibile capire così, a una prima occhiata, se egli avesse dell’affetto o meno per quella moglie tanto sottomessa, ubbidiente, ma in realtà le voleva davvero un gran bene e lei questo lo capiva. Marfa Ignat’evna non solo non era una donna stupida, ma era persino più intelligente di suo marito, o almeno più assennata nelle faccende quotidiane; comunque, si era sottomessa a lui con rassegnazione e umiltà, sin dall’inizio del loro matrimonio, e lo rispettava incondizionatamente per la sua autorità spirituale. Va notato che entrambi, nel corso di tutta la loro vita, si erano parlati pochissimo e sempre di cose strettamente necessarie e quotidiane. Il grave e maestoso Grigorij ponderava sempre da solo tutte le proprie faccende e i propri grattacapi, tanto che Marfa Ignat’evna aveva capito da tempo, e una volta per tutte, che egli non aveva affatto bisogno dei suoi consigli. Ella si accorgeva che il marito apprezzava il suo silenzio e lo prendeva come un segno di buon senso da parte sua. Picchiarla, non l’aveva mai picchiata, fatta eccezione per una sola volta, ma anche quella solo leggermente. Un giorno, durante il primo anno di matrimonio di Adelaida Ivanovna e Fëdor Pavloviè, le ragazze e le donne contadine del villaggio, ancora soggette a quell’epoca al regime di servitù feudale, si erano riunite nel cortile padronale per cantare e danzare. Avevano intonato la canzone “Nei prati” e ad un tratto Marfa Ignat’evna, che allora era ancora giovane, balzò davanti al coro e eseguì la “russa” in un modo particolare, non alla campagnola come le altre contadine, ma come era abituata a ballarla quando stava a servizio dai ricchi Miusov, nel teatro privato dei proprietari, dove gli attori imparavano a danzare sotto la guida di un maestro di ballo venuto da Mosca. Grigorij era presente all’esibizione della moglie e quando furono tornati nella loro izba, un’ora più tardi, le diede una bella lezione tirandola un po’ per i capelli. Ma le botte finirono lì: non la picchiò mai più. Marfa, dal canto suo, fece voto di non ballare mai più in vita sua. Dio non aveva concesso loro dei figli, avevano avuto solo un piccino, ma era morto. Grigorij amava i bambini, si vedeva, non lo nascondeva: cioè, non si vergognava a dimostrarlo. Aveva preso sotto le proprie cure Dmitrij Fëdoroviè, quando Adelaida Ivanovna era scappata e il piccino aveva solo tre anni, e se n’era occupato quasi per un anno intero: con le proprie mani lo pettinava con il pettinino, con le proprie mani gli faceva il bagnetto nella vasca da bucato. Poi si prese cura anche di Ivan Fëdoroviè e di Alëša, e per questo si guadagnò pure un bel ceffone; ma di tutto questo abbiamo già avuto modo di parlare. Il suo figlioletto gli donò unicamente la gioia della speranza durante la gravidanza di Marfa Ignat’evna. Non appena il piccino fu nato, il suo cuore fu sopraffatto dal dolore e dall’orrore. Il fatto era che il piccino era nato con sei dita. Grigorij fu così colpito nel vedere questo che non solo non disse una parola sino al giorno del battesimo, ma se ne andava di proposito in giardino per starsene per conto proprio. Era primavera, e per tre giorni interi vangò l’orto. Per il terzo giorno era fissato il battesimo del piccino; Grigorij nel frattempo aveva preso una decisione. Entrando nell’izba dove erano convenuti il clero della parrocchia e gli ospiti, ed era venuto persino Fëdor Pavloviè in persona in veste di padrino, egli dichiarò all’improvviso che il bambino “non doveva assolutamente essere battezzato”: non alzò la voce, non si diffuse in spiegazioni, pronunciò controvoglia una parola dietro l’altra, limitandosi a fissare ottusamente il prete mentre parlava. «E perché mai?», s’informò il prete in tono di allegra sorpresa. «Perché è... un drago... », borbottò Grigorij. «Un drago, che drago?» Grigorij rimase per un po’ in silenzio. «È avvenuta una confusione di natura...», borbottò in modo indistinto, ma molto fermo ed evidentemente senza alcuna voglia di aggiungere altro. Quelli scoppiarono a ridere e naturalmente il povero piccino venne battezzato. Grigorij pregò con fervore accanto al fonte battesimale, ma la sua opinione sul neonato non cambiò. Del resto, non interferiva in nessun modo: anzi, nelle due settimane di vita del bimbo malato, egli non gli dette neppure un’occhiata, cercava di non notare la sua presenza e trascorreva la maggior parte del tempo fuori di casa. Ma quando il bambino morì d’afta due settimane più tardi, fu lui stesso a comporre il piccino nella sua piccola bara e lo guardava tutto addolorato e, mentre coprivano la sua piccola fossa poco profonda, egli cadde in ginocchio e si prostrò sino a terra. Da quel giorno, per molti anni, non menzionò mai il suo bambino, e neanche Marfa Ignat’evna parlava mai del figlioletto in sua presenza, e quando le capitava di parlare con qualcuno del suo “piccino”, lo faceva sussurrando anche se Grigorij Vasil’eviè non era presente. Marfa Ignat’evna aveva notato che, dopo la morte del bambino, egli aveva cominciato ad occuparsi in modo particolare di “cose religiose”: leggeva i Èet’i–Minei, se ne stava per lo più in silenzio, da solo, e ogni volta inforcava i suoi grossi occhiali tondi, con la montatura d’argento. Raramente leggeva ad alta voce, fatta eccezione, forse, per il periodo della Quaresima. Prediligeva il libro di Giobbe e da qualche parte si era procurato una raccolta dei detti e dei sermoni del “nostro timorato padre Isacco di Siro”, che leggeva con tenacia da anni senza capirci quasi nulla, ma forse proprio per questo lo apprezzava e amava ancora di più. Di recente aveva cominciato a dare ascolto con attenzione alla dottrina dei Flagellanti, con i quali aveva avuto occasione di entrare in contatto. Era stato visibilmente colpito da loro, anche se non giudicava ben fatto convertirsi a una nuova fede. La sua dimestichezza con le “cose religiose” aveva conferito alla sua fisionomia un’aria ancora più grave. Egli, forse, era incline al misticismo. Ma la nascita di quel bambino con sei dita e la sua morte, quasi a farlo apposta, coincisero con un altro fatto singolare, molto strano e inatteso, che lasciò nella sua anima un “marchio”, come ebbe ad esprimersi una volta in seguito. Accadde che proprio la notte successiva alla sepoltura del piccino dalle sei dita, Marfa Ignat’evna, fu svegliata da un rumore simile al pianto di un neonato. Si spaventò e svegliò il marito. Quello si mise in ascolto e disse che gli sembrava piuttosto che qualcuno si stesse lamentando, “sembrerebbe una donna”. Si alzò, si vestì; era una sera di maggio abbastanza mite. Uscito sul terrazzino, sentì distintamente che i lamenti provenivano dal giardino. Ma il giardino era stato chiuso a chiave per la notte dalla parte del cortile e non c’era altro modo di entrarvi, dal momento che esso era cinto tutt’intorno da uno steccato alto e solido. Grigorij rientrò in casa, accese una lanterna, prese la chiave del giardino e, senza badare alle paure isteriche della moglie, ancora convinta di sentire il pianto di un bambino, anzi, sicuramente, del suo bambino che piangeva e la chiamava, si recò in silenzio nel giardino. Lì si accorse chiaramente che i gemiti provenivano dalla casetta del bagno situata nel giardino, poco distante dalla porticina, e che a lamentarsi era proprio una donna. Aprì la porta del bagno e vide uno spettacolo che lo lasciò di stucco: una mentecatta della città, una che vagabondava per strada ed era conosciuta da tutti in città con il soprannome di Lizaveta Smerdjascaja, si era rifugiata nella loro casetta da bagno e aveva appena dato alla luce un bambino. Il bimbo giaceva accanto a lei ed ella stava morendo accanto a lui. Non disse nulla semplicemente perché non aveva mai saputo parlare. Ma la sua storia richiede una particolare spiegazione.
Lettura gratuita per i nuovi utenti
Scansiona per scaricare l'app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Scrittore
  • chap_listIndice
  • likeAGGIUNGI