Chapter 7

2861 Parole
V - Gli starcy Qualcuno fra i miei lettori potrebbe pensare che il mio giovanotto avesse una natura cagionevole, esaltata, scarsamente sviluppata e fosse un pallido sognatore, dal fisico consunto e emaciato. Tutto il contrario: Alëša a quel tempo era un prestante adolescente di diciannove anni, colorito e con lo sguardo limpido, uno che sprizzava salute da tutti i pori. Era persino molto bello, snello, abbastanza alto, con i capelli biondo–scuro, un ovale regolare, anche se un tantino lungo, splendidi occhi grigio –scuro, distanti fra di loro; era molto riflessivo e, in apparenza, molto tranquillo. Mi diranno forse che le guance colorite non escludono né il fanatismo né il misticismo, ma a me sembra che Alëša fosse persino più realista di molti altri. Certo, quando era al monastero egli credeva fermamente nei miracoli ma, secondo me, i miracoli non metteranno mai a disagio un realista. Non sono i miracoli a fare propendere il realista verso la fede. Un vero realista, se non è credente, troverà sempre in se stesso la forza e la capacità di non credere neanche nel miracolo, ma se il miracolo diventasse un fatto innegabile lì davanti ai suoi occhi, egli sarebbe disposto a non credere ai propri sensi piuttosto che ammettere il fatto. E se lo ammettesse, lo ammetterebbe come un fatto naturale fino a quel momento a lui ignoto. In un realista non è la fede a nascere dal miracolo, ma è il miracolo a nascere dalla fede. E una volta che il realista crede, allora egli dovrà inevitabilmente ammettere, proprio per via del suo realismo, anche il miracolo. L’apostolo Tommaso disse che non avrebbe creduto finché non avesse visto e quando vide disse: «Signore mio, Dio mio!» Fu il miracolo a costringerlo a credere? È molto probabile di no: egli credette unicamente perché voleva credere e, forse, già credeva ciecamente, nel profondo del suo cuore, persino quando diceva: «Non crederò finché non avrò veduto». Mi si potrà dire che Alëša fosse ottuso, poco colto, che non aveva finito la scuola e così via. Che non avesse finito la scuola è vero, ma dire che egli fosse ottuso o stupido sarebbe una grave ingiustizia. Ripeterò semplicemente quello che ho già detto: egli imboccò quella strada unicamente perché, a quel tempo, essa sola lo aveva colpito e si presentava a lui, per così dire, come l’ideale dell’esodo della sua anima che si strappava dalle tenebre per andare verso la luce. Aggiungete a questo che egli era già, in parte, un giovane dei nostri tempi, cioè onesto di natura, uno che desiderava la verità, la ricercava e ci credeva, e quando credeva in qualcosa, voleva prendervi parte immediatamente, con tutta la forza della propria anima, e poi sentiva l’esigenza dell’azione immediata e l’irresistibile desiderio di sacrificare anche tutto per essa, persino la vita. Eppure, purtroppo, questi giovani non si rendono conto che il sacrificio della vita è, forse, in molti casi, il più facile fra tutti i sacrifici e che sacrificare, per esempio, cinque o sei anni della propria impetuosa giovinezza a uno studio arduo e faticoso, al sapere, sebbene allo scopo di decuplicare in se stessi le forze per servire quella stessa verità e quella stessa causa che si è presa a cuore e che ci si è proposti di perseguire, è molto spesso superiore alle forze di molti di loro. Alëša aveva scelto la strada opposta a quella di tutti gli altri, ma con la stessa brama di azione immediata. Non appena si fu convinto, dopo una seria riflessione, dell’esistenza di Dio e dell’immortalità, egli si era subito detto, istintivamente: «Voglio vivere per l’immortalità, non accetto compromessi». Allo stesso modo, se avesse concluso che l’immortalità e Dio non esistono, sarebbe passato, detto fatto, dalla parte degli atei e dei socialisti (giacché il socialismo non è solo la questione operaia, o il cosiddetto quarto stato, ma è principalmente la questione dell’ateismo, la questione della forma che l’ateismo assume oggi, la questione della torre di Babele costruita senza Dio, non già per raggiungere il cielo dalla terra, ma per portare il cielo sulla terra). Ad Alëša sembrava persino strano e impossibile continuare a vivere come prima. È scritto: «Da’ tutto quello che hai e seguimi se vuoi essere perfetto». E anche Alëša aveva detto a se stesso: «Non posso dare due rubli al posto di “tutto” e andare alla messa invece di “seguire Lui”». Forse nei ricordi della sua prima infanzia era rimasta traccia del monastero alla periferia della nostra cittadina, dove la madre probabilmente lo portava a messa. Può darsi che sulla sua immaginazione abbiano influito anche i raggi obliqui del sole che tramontava davanti all’immagine sacra, verso la quale lo protendeva la sua mamma, la klikuša. Tutto assorto nei suoi pensieri era arrivato da noi, forse solo per dare un’occhiata, per vedere se lì si dava tutto o soltanto due rubli, ma poi nel monastero aveva incontrato quello starec... Quello starec, come ho già spiegato prima, era lo starec Zosima; ma a questo punto bisognerebbe spiegare chi siano in generale gli starcy nei nostri monasteri ed è un peccato che in questo campo non mi senta abbastanza competente e ferrato. Tenterò comunque di dire quattro parole a proposito, a grandi linee. In primo luogo, i competenti e gli specialisti dicono che gli starcy e l’istituto dello starèestvo abbiano fatto la loro comparsa fra di noi, nei nostri monasteri russi, in tempi molto recenti – pare che non sia passato nemmeno un secolo – mentre in tutto l’Oriente ortodosso, in particolare nel Sinai e sul Monte Athos, esistono da più di mille anni. Sostengono che lo starèestvo sia esistito anche da noi nella Rus’ in tempi remoti, o per lo meno che debba senz’altro essere esistito, ma in seguito alle sciagure che si abbatterono sulla Russia – il dominio tataro, il periodo dei torbidi, l’interruzione delle precedenti relazioni con l’Oriente, seguita alla conquista di Costantinopoli, – questa istituzione cadde nell’oblio e gli starcy cessarono di esistere. Lo starèestvo venne ripristinato fra noi verso la fine del secolo scorso, per merito di uno dei grandi anacoreti (come lo chiamano), Paisij Velièkovskij, e dei suoi discepoli, ma a tutt’oggi, dopo ben cento anni, questo istituto esiste solo in pochi monasteri ed è stato persino oggetto di una sorta di persecuzione, come fosse stata un’innovazione inaudita in Russia. Lo starèestvo ha prosperato nella nostra Rus’ soprattutto nel celebre eremitaggio di Kozel’skaja Optina. Ignoro chi e quando lo abbia introdotto nel monastero alla periferia della nostra città, ma a quel tempo vi si contava già la terza generazione di starcy, l’ultima delle quali era rappresentata dallo starec Zosima, ma anche lui ormai stava morendo per il deperimento e la malattia e non vi era nessuno che potesse prendere il suo posto. Era una questione importante per il nostro monastero, poiché fino ad allora esso non si era distinto per nulla di particolare: non vi si conservavano reliquie di santi, né icone miracolose, non godeva nemmeno di tradizioni gloriose legate alla nostra storia, non figuravano a suo nome imprese storiche o meriti patriottici. Aveva prosperato ed acquisito fama in tutta la Russia proprio grazie agli starcy; per vederli e ascoltarli affluivano da noi moltitudini di fedeli dall’intera Russia, anche da migliaia di verste di distanza. Ma allora che cos’è uno starec? Lo starec è colui che accoglie la vostra anima, la vostra volontà nella propria anima, nella propria volontà. Quando scegliete uno starec, voi rinunciate alla vostra volontà e gliela affidate in completa sottomissione, con assoluta abnegazione. Questo tirocinio, questa terribile scuola di vita viene accettata spontaneamente da colui che offre se stesso, nella speranza, al termine della lunga prova, di sconfiggere il proprio essere e di dominarsi fino al punto di conquistare infine, attraverso una vita di ubbidienza, la libertà assoluta, vale a dire la libertà da se stesso, per evitare il destino di coloro che hanno vissuto tutta una vita senza trovare dentro di sé se stessi. Questa istituzione, lo starèestvo appunto, non è fondata sulla teoria, ma è nata in Oriente da una pratica ormai millenaria. Gli obblighi nei confronti dello starec non corrispondono alla consueta “ubbidienza” che è sempre esistita nei nostri monasteri russi. Lo starèestvo impone la confessione perpetua di tutti coloro che si sono assoggettati allo starec e il legame indissolubile tra colui che lega e colui che è legato. Si narra per esempio che una volta, agli albori del cristianesimo, un novizio che non aveva eseguito un certo ordine impartitogli dallo starec, lasciò il suo monastero in Siria e andò in Egitto. Lì, dopo molte grandi imprese, meritò finalmente di patire i tormenti e il martirio per la fede. Mentre la comunità, che lo considerava già un santo, gli dava una degna sepoltura, all’esclamazione del diacono: «Catecumeni, uscite», la bara con il corpo del martire si staccò dal suo posto e fu scaraventata fuori dalla chiesa per ben tre volte. Solo alla fine vennero a sapere che quel santo martire aveva rotto il voto di ubbidienza abbandonando il suo starec e per questo, senza l’assoluzione dello starec, non poteva nemmeno essere perdonato nonostante avesse compiuto grandi gesta. Solo quando lo starec, convocato per l’occasione, lo sciolse dal voto di ubbidienza, poté aver luogo la sepoltura. Naturalmente, questa è solo un’antica leggenda, ma ecco un episodio recente: un monaco dei giorni nostri conduceva vita ascetica sul Monte Athos quando un bel giorno il suo starec gli ordinò di lasciare il Monte Athos, che egli amava con tutta la sua anima come una cosa sacra, come un rifugio di pace, e di andare prima a Gerusalemme a rendere omaggio ai luoghi sacri, e poi di tornare in Russia, al nord, in Siberia: «Là è il tuo posto, non qui». Confuso e stravolto dal dolore, il monaco si presentò dal patriarca ecumenico a Costantinopoli e lo pregò di scioglierlo dal voto di ubbidienza; ma ecco che l’autorità suprema gli rispose che non solo lui, patriarca ecumenico, non poteva fare una cosa simile, ma che in tutta la terra non c’era, né ci poteva essere autorità in grado di scioglierlo dal voto d’ubbidienza, una volta che questo gli era stato imposto da uno starec, fatta eccezione per l’autorità di quello stesso starec che glielo aveva imposto. Quindi gli starcy sono investiti di un potere che in certi casi è assoluto e imperscrutabile. Ecco perché in molti monasteri da noi lo starèestvo è stato persino oggetto di persecuzione. Nel contempo il popolo ha cominciato immediatamente a nutrire un grande rispetto per gli starcy. Dagli starcy del nostro monastero, per esempio, affluivano in massa sia gente del popolo sia persone eminenti allo scopo di prostrarsi dinanzi a loro e confessare i propri dubbi, i propri peccati, le proprie sofferenze, chiedere consiglio e guida. Vedendo questo, i detrattori degli starcy gridavano, oltre alle solite accuse, che qui si mortificava con arroganza e leggerezza il sacramento della confessione, sebbene la pratica di aprire continuamente la propria anima allo starec da parte del novizio e dei laici non abbia affatto il carattere di sacramento. Comunque, l’istituto dello starèestvo ha finito col resistere a queste accuse e pian pianino sta prendendo piede nei monasteri russi. Forse è anche vero che questo sperimentato e ormai millenario strumento di rigenerazione morale dell’uomo dalla schiavitù alla libertà e al perfezionamento morale può trasformarsi in un’arma a doppio taglio, perché potrebbe condurre qualcuno, invece che all’umiltà e al completo autocontrollo, proprio all’orgoglio più satanico, e quindi alla schiavitù e non alla libertà. Lo starec Zosima aveva circa sessantacinque anni, proveniva da una famiglia di proprietari terrieri; un tempo, nella prima giovinezza, era stato militare e aveva prestato servizio in Caucaso con il grado di ufficiale superiore. Senza dubbio, egli aveva colpito Alëša per qualche speciale qualità della sua anima. Alëša viveva nella stessa cella dello starec, che lo amava molto e lo aveva accolto presso di sé. Occorre notare che, pur vivendo nel monastero, Alëša allora non aveva alcun obbligo, poteva andare dove voleva, assentarsi anche per giorni interi, e se indossava la tonaca, lo faceva volontariamente, per non distinguersi dagli altri. E senza dubbio questo gli faceva piacere. È probabile che sull’immaginazione giovanile di Alëša producesse un forte effetto il potere e la fama che circondavano incessantemente la persona dello starec. Dello starec Zosima molti dicevano che, avendo egli ammesso alla propria presenza, per tanti anni, tutti quelli che venivano ad aprirgli il proprio cuore, desiderosi di un suo consiglio e di una sua parola consolatoria, aveva accolto nella sua anima tante di quelle rivelazioni, sofferenze, confessioni da acquisire alla fine una preveggenza così acuta che gli bastava un’occhiata al viso dello sconosciuto visitatore per intuire il motivo della sua visita, che cosa voleva e persino che tipo di sofferenza tormentava la sua coscienza; egli alle volte destava meraviglia, turbamento e persino spavento nel suo visitatore quando questi si accorgeva che lo starec conosceva il suo segreto prima ancora di aver aperto bocca. Ma Alëša notava quasi sempre che molti, quasi tutti, coloro che si recavano per la prima volta dallo starec per un colloquio a quattr’occhi, entravano impauriti e agitati ma uscivano sereni e contenti, e anche il viso più cupo diveniva felice. Alëša fu particolarmente impressionato anche dal fatto che lo starec non era affatto severo; al contrario egli era quasi sempre allegro. I monaci dicevano che egli si affezionava a chi aveva più peccato: più uno aveva peccato e più egli lo amava. Fra i monaci ci furono quelli che odiarono e invidiarono lo starec fino alla fine dei suoi giorni, ma erano rimasti in pochi e tacevano, sebbene tra di loro ci fossero alcune personalità molto note e importanti nel monastero, come per esempio uno dei monaci più anziani, un campione nell’attenersi alla regola del silenzio e uno straordinario digiunatore. Tuttavia la stragrande maggioranza stava ormai, senza ombra di dubbio, dalla parte dello starec Zosima e fra di essi molti lo amavano con tutto il cuore, fervidamente, sinceramente; alcuni nutrivano per lui una devozione che sfiorava il fanatismo. Questi ultimi dichiaravano apertamente, ma non proprio ad alta voce, che egli era un santo, che non c’erano più dubbi su questo, e, prevedendo l’imminente sua dipartita, si attendevano addirittura miracoli immediati e una grande gloria nel prossimo futuro per il monastero grazie all’estinto. Anche Alëša credeva incondizionatamente nella potenza miracolosa dello starec, così come incondizionatamente credeva al racconto della bara volata fuori dalla chiesa. Egli vedeva che molti dei fedeli che arrivavano con bambini o anziani parenti malati affinché lo starec imponesse loro le mani e recitasse una preghiera su di loro, tornavano ben presto, alcuni persino il giorno dopo e, in ginocchio, in lacrime davanti allo starec, lo ringraziavano per la guarigione dei loro malati. Si trattava di vera guarigione o soltanto di un naturale miglioramento nel decorso della malattia? Alëša non si poneva nemmeno una tale domanda, giacché egli era già fermamente convinto della potenza spirituale del maestro e gioiva della gloria di lui come di un trionfo personale. Il suo cuore palpitava in particolar modo, ed egli sembrava tutto raggiante, quando lo starec usciva per incontrare la folla di fedeli che aspettava la sua apparizione presso le porte dell’eremo: era tutta gente semplice, convenuta da ogni parte della Russia apposta per vedere lo starec e ricevere la sua benedizione. Essi si inchinavano dinanzi a lui, piangevano, gli baciavano i piedi, baciavano la terra che lui calpestava, urlavano, le donne protendevano verso di lui i propri figli, gli avvicinavano le klikuši malate. Lo starec parlava con loro, recitava una breve preghiera, li benediceva e li congedava. Negli ultimi tempi si era così indebolito per gli attacchi della malattia da non avere la forza di uscire dalla cella, e i fedeli alle volte lo aspettavano nel monastero per alcuni giorni. Alëša non si domandava nemmeno il motivo per cui lo amavano tanto, si prostravano davanti a lui, piangevano per la commozione solo nel vedere il suo viso. Egli comprendeva benissimo che per l’anima umile del popolo russo, estenuato dalla fatica e dal dolore, e soprattutto dalle eterne angherie e dal costante peccato, proprio e del resto dell’umanità, non ci poteva essere esigenza e consolazione più grandi di trovare un oggetto sacro o un santo, cadere in ginocchio e prostrarsi davanti ad esso: «Da noi c’è il peccato, l’ingiustizia, la tentazione, tuttavia esiste un posto sulla terra dove c’è un santo, un essere superiore. In compenso da lui c’è giustizia, in compenso egli conosce la verità; quindi esse non si estinguono sulla terra e un giorno verranno anche da noi e regneranno su tutta la terra, come ci è stato promesso». Alëša sapeva che il popolo pensa e ragiona proprio in questo modo, egli questo lo comprendeva, e sul fatto che lo starec fosse un santo, il difensore della giustizia divina agli occhi del popolo – egli non aveva il minimo dubbio al pari di quei contadini in lacrime e delle loro donne malate che protendevano i figli verso lo starec. La convinzione che lo starec, una volta morto, avrebbe portato al monastero una fama straordinaria dominava l’anima di Alëša forse ancora più fermamente di quella di chiunque altro al monastero. E in generale, in quell’ultimo periodo, una sorta di profonda, ardente esaltazione interiore infiammava il suo cuore con sempre maggior forza. Non era affatto turbato dal fatto che quello starec fosse comunque un essere unico: «Egli è pur sempre un santo, nel suo cuore è riposto il segreto della rigenerazione per tutti, quella potenza che instaurerà finalmente la giustizia nel mondo e tutti saranno santi, tutti si ameranno l’un l’altro, non ci saranno più ricchi e poveri, trionfatori e umiliati, ma saranno tutti figli di Dio e avrà inizio il vero regno di Cristo». Ecco quello che sognava Alëša nel suo cuore.
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