Rodolfo scosse la testa, poi lentamente sollevò lo sguardo come stesse puntando una pistola, fissò Luigi e tirò un pugno sulla scrivania tanto forte che si ferì le nocche. “Perché non me l’hanno detto subito?” urlò.
“Non lo so, signore.” Luigi trattenne a fatica la rabbia. Non bastava lavorare, spaccarsi la schiena per due quattrini, doveva anche subire l’arroganza, anzi, la follia di quell’essere immondo. I francesi avevano fatto una rivoluzione per essere liberi, i fiorentini invece preferivano tenere in testa due corone, quella degli Asburgo e quella dei Lorena, pensò. Il garzone aspettava il momento giusto per reagire, ma adesso doveva assicurarsi il magro stipendio, gli sarebbe servito per realizzare qualcosa di più grande. Quel pensiero gli diede coraggio.
Luigi guardò Martini atteggiarsi a padrone del mondo, issato sul suo piedistallo, a guardare tutti dall’alto, soddisfatto di suscitare timore e innescare sfide. Provò pena per lui: dietro la facciata di uomo di potere vedeva un disperato che annaspava tra amicizie di comodo, amanti di una notte, compromessi politici e… nessuno accanto a lui. La scomparsa del primo figlio non lo aveva reso migliore, anzi, l’imprenditore riversava l’odio per la vita sulle persone che gli capitavano vicine.
Il ragazzo, chiudendo la porta alle spalle, si voltò un attimo a guardare l’insegna Tessuti Martini, dove la emme si imponeva come un’onda trascinante.
Margherita annusò il profumo intenso e persistente di viola dalla giacca del marito.
“Almeno frequenta donne ricche,” commentò. Una smorfia di sdegno le segnò il viso.
Quanto ancora avrebbe dovuto sopportare l’umiliazione?
Qual era il prezzo da pagare pur di fare parte di quella potente famiglia?
Ciò che la feriva maggiormente erano le voci della gente, il pettegolezzo da salotto, le lingue al vetriolo che pungevano la sua dignità. Troppe volte aveva pianto fino a disperarsi, sapendosi giudicata. Certo, non era e non sarebbe stata l’unica donna tradita del mondo, non esisteva uomo di potere che non avesse delle amanti, ma Rodolfo non si preoccupava di nascondere l’evidenza, neppure ci provava.
“Mi fai schifo! Maledetto!” urlò in un accesso d’ira, scaraventando a terra la giacca rivelatrice. Poi si voltò di scatto, temendo che qualcuno l’avesse vista, e con un gesto istintivo si sistemò l’acconciatura disfatta, poi si versò un bicchiere abbondante di vino.
“Brava mamma, ottima scelta l’Ansonica, è un vino eccellente, ma berlo di mattina non conviene.”
Come aveva fatto a non sentirlo entrare?
Giovanni, alto ed elegante, la squadrò con un sorriso a metà. Era altezzoso come suo padre, e come il padre non abbassava mai lo sguardo.
Aveva appena fatto ritorno da Leeds, sempre accompagnato da uno dei collaboratori di fiducia di Rodolfo. Il viaggio in Inghilterra gli era servito a rendersi conto di quanto l’industria tessile inglese fosse all’avanguardia in confronto all’Italia, ferma a tecniche obsolete. C’era molto da imparare.
Sua madre lo guardò stupita. Com’era cambiato in così poco tempo! Giovanni aveva diciassette anni, ma chiunque lo avrebbe ritenuto più grande. Recitava, fino a crederci, il ruolo dell’uomo vissuto. Il verde degli occhi ancora puliti dai segni dell’esperienza e il sorriso ruffiano, però, lo tradivano e lasciavano trapelare l’irruenza giovanile.
Margherita gli accarezzò il viso rasato e sperò che il figlio non si accorgesse che le tremava la mano; fissò il suo doppiopetto con i bottoni dorati, la vaporosa cravatta inamidata e trovò ridicola la capigliatura pettinata in avanti e le lunghe basette.
“Ma come ti sei conciato?”
“Non vi garba la moda dandy, mamma?” Grondava di vanità.
Le prese la mano e la baciò. Margherita rabbrividì appena. Non era abituata a ricevere attenzioni da lui, figuriamoci dei baci. Da tempo aveva smesso di sentirsi una madre e Giovanni non l’aveva mai aiutata a superare quella drammatica realtà.
I sentimenti del figlio non sconfinavano mai troppo verso di lei, erano sempre misurati, a volte freddi. Dopo la scomparsa di Francesco, Giovanni si era chiuso sempre di più in se stesso, non permettendo a nessuno di entrare nel suo tormento.
Margherita non riusciva a liberarsi dai lacci del dolore. Doveva ammettere di non essere più in grado di occuparsi del figlio che le era rimasto, e tanto meno di ricucire il rapporto con il marito, che probabilmente mai l’aveva amata.
La speranza che Francesco tornasse un giorno a casa l’aveva ormai abbandonata, e a quel punto la vita non meritava più il suo rispetto. Non c’era più niente di importante, o forse le futilità erano diventate le uniche che contavano qualcosa.
Margherita tornò al presente, obbligandosi a reagire. Osservò la sua immagine riflessa allo specchio: i capelli rossi dal taglio corto pieno di riccioli, il trucco sciolto, le borse sotto gli occhi neri inquieti, le guance scavate. Si voltò di scatto e chiuse gli occhi per qualche secondo.
Giovanni finse di non notare la reazione della madre, e mise via la bottiglia.
“Figliolo…”
“Vi prego, quando usate quel tono melenso, so già di cosa volete parlarmi. Sono ancora troppo giovane per un matrimonio, non sono mio cugino.”
“Ma guardati tesoro, sei un uomo, sei il delfino dei Martini, si deve pensare al tuo futuro.” Gli mise una mano sulla spalla. “Insomma, figliolo, ci imparenteremo con dei nobili, se sposerai Costanza Alberti. Rifletti.”
Giovanni si irrigidì. Margherita, abbassando lo sguardo, trovò il coraggio di aggiungere: “Il suo babbo, il conte Alberti, è…”
“Un traditore, è presto detto! Per ricevere la riconoscenza di Napoleone ha fatto carte false, e adesso eccolo che sale sul carro del nuovo vincitore.” Spalancò la portafinestra per tirare un bel respiro, poi guardò la madre e disse: “Ma cosa volete saperne voi di queste cose?”
“Non mi pare che i Martini siano sempre stati leali col nostro sovrano.”
Margherita non aveva paura di dire la sua in famiglia. Rodolfo l’aveva scelta per questo: era remissiva in società e mostrava un forte temperamento nel privato.
Giovanni la guardò stupito per qualche secondo. “Son tutte ciance,” disse, e poi se ne andò sbattendo la porta.
I conti Alberti erano filonapoleonici dai tempi in cui il Granducato era stato annesso alla Francia. Devoti oltremisura alla Corona francese e all’imperatore, doppiogiochisti, lascivi, erano disposti a qualsiasi azione pur di mantenere un posto di riguardo in una città dove l’aristocrazia e il clero stavano perdendo lustro e potere. Non si erano ancora arresi all’idea del ritorno dei Francesi, ma adesso era inevitabile per loro cambiare sovrano e posizione politica.
Il castello di Luigi Goffredo Alberti, risalente al xvi secolo, si ergeva a Pratolina, sulla collina fiorentina, in tutta la sua decadente bellezza. Da dimora solitaria, nascosta dal verde del bosco, si mostrava in quei giorni piena di luce, animata da un grande movimento di persone. Il conte aveva perfino richiesto altro personale di servizio per riportare all’antico splendore i saloni, le stanze e il giardino all’inglese.
Il nobile gestiva buona parte del settore delle spedizioni nel porto di Livorno ed era proprietario di diverse imbarcazioni, ma con il blocco del porto franco imposto dai Lorena non aveva più potuto agire liberamente. Adesso, però, grazie a dei favori reciproci con il granducato, Luigi Goffredo Alberti era tornato a essere un uomo di successo.
Il matrimonio tra la contessina Costanza Antonia Alberti e Giovanni Martini era quindi diventato un affare necessario e Rodolfo era determinato affinché suo figlio non facesse di testa sua. Giovanni avrebbe sposato Costanza, lo doveva al futuro dei Martini.
Bisognava agire presto, le sorti del Granducato erano in continua trasformazione, come quelle di tutto il paese.
Così decise Rodolfo Martini, e Giovanni alla fine ubbidì, facendo di necessità virtù.
Biagio lasciò a malincuore la Casa del melograno, come ormai tutti la chiamavano, per trasferirsi nel palazzo vicino alla Badia Fiorentina, proprietà della famiglia.
Lui e sua moglie Anna si meritavano una casa tutta loro, senza dovere subire le continue interferenze della famiglia Martini.
Senza i mobili, il salone del primo piano sembrava ancora più grande. Nella stanza, al momento, c’erano solo la credenza in legno di noce del Settecento e il camino di marmo con dei bassorilievi raffiguranti ninfe e fiori, dono di uno scultore senese.
Le operazioni di trasloco sarebbero durate ancora qualche giorno. L’unica camera completamente ammobiliata era quella nuziale, con il letto a baldacchino, oltre a una delle sale da bagno. Il resto del mobilio era ancora radunato al piano terra, in procinto di essere distribuito nei vari spazi. Si trattava per lo più di pezzi di arredamento e opere d’arte acquistati dai mercanti con cui i Martini facevano affari.
In quei giorni dominava il caos: servitori e facchini entravano e uscivano caricando e scaricando mobili e suppellettili sotto gli occhi indiscreti dei curiosi. Quadri, arazzi, mobiletti orientali, sofà, sedie dalle alte spalliere, candelabri d’argento, cassapanche intarsiate venivano contati e registrati dalla giovane governante Sofia Paci e da Alfredo, già maggiordomo del generale Fulvio Martini.
Alla sera, le voci e la polvere sollevate durante il giorno svanivano insieme all’afa di quel maggio terribilmente caldo.
Sul pavimento di marmo con le venature Giallo Siena era stato srotolato un tappeto persiano sul quale posava un tavolino basso di artigianato olandese e grandi cuscini di velluto su cui sedersi. Sofia aveva creato un’atmosfera romantica posando un grande mazzo di rose e gigli accanto alle candele accese. La brocca di karkadè era ancora fumante e tra i dolcetti nel piattino d’argento c’erano quelli alla crema di mandorle che piacevano a Anna.
Dopo un’ultima occhiata al risultato di quel nido d’amore, la governante sorrise soddisfatta.
Anna arrivò con una camminata lenta e piena di grazia, inconsapevolmente provocante. Gli occhi castani brillavano sul viso diafano e rotondo, il vestito di raso rosa le scivolava sul corpo, la stoffa lucida tirava sul ventre e sui seni gonfi. La gravidanza le donava un’espressione dolce, lo sguardo era quello di una madre e di un’amante.
A guardarla adesso mentre gli andava incontro, Biagio rivide la scena di quando, radiosa ed emozionata, Anna aveva varcato la navata della chiesa fino all’altare dove avevano pronunciato un sì tremante. Tutti erano convinti che fosse un matrimonio riparatore, e non avevano capito invece che i due giovani si amavano sul serio, e volevano un bambino per formare la loro famiglia.
Aiutata da suo marito, Anna si sedette tra i cuscini, con un po’ di fatica per via della grossa pancia. Una volta comoda allungò una mano per prendere un dolcetto, ne gustò la crema chiudendo gli occhi, poi si tolse le forcine, lasciando cadere sulle spalle i lunghi capelli castani.
“Non ne potevo più,” disse appoggiando la testa sul petto del marito. “Che passione, sono stata tanto in piedi oggi.”
Biagio le baciò i capelli, le guance, la bocca, respirò il profumo della sua pelle tenendo gli occhi chiusi, poi appoggiò una mano sul ventre rotondo e la sentì… Sentì la vita.
“Sarà un maschio, di sicuro,” disse.
Anna gli prese il viso tra le mani, gli occhi marroni di Biagio erano lucidi di amore. Lasciò che i suoi riccioli neri le solleticassero il volto, gli baciò le labbra carnose e appoggiò anche lei una mano sul grembo, la sovrappose a quella del marito e rimasero tutti e tre in contatto per qualche secondo.
“Non vorrai che dica allo zio Rodolfo che hai pianto?” Risero.
“È ancora arrabbiato. Quella dell’altro ieri è stata proprio una brutta lite. Dice che non faccio gli interessi dell’azienda, e giù con la solita storia che la famiglia è un grande bastimento in cui ognuno deve fare la sua parte. Sì, ma io su questo benedetto bastimento faccio il mozzo.”
Anna lo guardò. Da quando lo conosceva non aveva mai smesso di adorarlo, che raccontasse sciocchezze o che si avventurasse in discorsi acculturati. In silenzio lo ringraziava ogni volta per averla scelta.
“Preferisco occuparmi dei terreni e dei vigneti e fare il giornalista fastidioso,” le sorrise accarezzandole i capelli setosi e facendoli scorrere tra le sue dita. “Adesso però basta parlare degli indomiti Martini, stasera sono qui per esaudire ogni tuo desiderio, amore mio.”