Capitolo 6 Il sostituto del Procuratore del Re
Nel Gran Corso, di fronte alla fontana delle Meduse, in una di quelle vecchie case che hanno l'architettura aristocratica, fabbricata da Puget, si celebrava pure nello stesso giorno e nella stessa ora un pranzo di fidanzamento. Solamente, invece che gente del popolo, marinai e soldati, gli invitati appartenevano alla società benestante di Marsiglia.
Erano vecchi magistrati che avevano chiesto la dimissione dai loro impieghi sotto l'usurpatore; vecchi ufficiali disertati dalle nostre file per passare in quelle dell'armata di Condé, giovani allevati dalle loro famiglie ancor incerte della propria sicurezza, malgrado i molteplici prezzi che essi avevano pagato in odio a quell'uomo.
Erano a tavola, e la conversazione volgeva ardente su tutte le passioni dell'epoca; passioni molto più terribili, vive e passionali nel meridione.
L'Imperatore, Re dell'isola d'Elba, dopo essere stato sovrano di una parte del mondo, regnava su una popolazione di venticinquemila anime, e dopo avere sentito gridare "Viva Napoleone" da 120 milioni di sudditi, e in dieci lingue diverse, era trattato in quel luogo come un uomo perduto per sempre, per la Francia e per il trono: i magistrati riaccendevano le loro contese politiche, i militari parlavano di Mosca e di Lipsia, le donne del suo divorzio da Giuseppina.
A tutta questa gente allegra e trionfante, sembrava, non dalla caduta dell'uomo ma dall'annientamento del principe, che la vita ricominciasse per loro, e che uscissero da un sogno penoso. Un vecchio decorato della croce di San Luigi si alzò e propose ai convitati di bere alla salute di Luigi XVIII: questi era il Marchese di Saint-Méran. A questo brindisi che ricordava ad un tempo l'esiliato di Hartwel e il pacificatore della Francia, un gran numero di bicchieri si alzarono all'uso inglese; e le donne staccarono i loro mazzetti di fiori e li appuntarono alle decorazioni. Fu un entusiasmo quasi poetico.
«Ne converrebbero, se fossero qua» disse la Marchesa di Saint-Méran, donna dall'occhio secco, con le labbra sottili, il portamento aristocratico ed ancora elegante, malgrado i suoi cinquant'anni, «ne converrebbero, tutti quelli che ci cacciarono e lasciammo a nostra volta tranquillamente cospirare nei nostri vecchi castelli, che hanno acquistato per un tozzo di pane sotto il regime del Terrore; ne converrebbero, che il vero entusiasmo era dalla nostra parte, poiché noi ci attaccavamo alla monarchia che crollava, mentre essi, al contrario, salutavano il sole nascente che faceva la loro fortuna perdendo la nostra; essi ne converrebbero, che il nostro Re era per noi il vero Luigi prediletto, mentre il loro usurpatore non è stato per loro che il Napoleone maledetto, non è vero, Villefort?»
«Che dite, signora Marchesa?» Disse il giovane al quale era rivolta questa domanda. «Perdonatemi, io non prestavo attenzione alla conversazione.»
«Eh, lasciate in pace questi ragazzi, Marchesa» riprese il vecchio che aveva proposto il brindisi, «questi giovani debbono sposarsi fra poco, e naturalmente hanno tutt'altro da parlare che di politica.»
«Vi chiedo perdono, madre mia» disse una bella ragazza dai capelli biondi, «io vi rendo Villefort, che avevo accaparrato per un istante. Signor Villefort, mia madre vi parla...»
«Ed io son pronto a rispondere alla signora, se vuol avere la bontà di rinnovarmi la domanda che io non ho bene inteso.»
«Vi si perdona, Renata» disse la Marchesa, con un sorriso di tenerezza che faceva meraviglia veder comparire su quella secca figura, ma il cuore della donna è così fatto, che per quanto arido divenga al soffio dei pregiudizi o alle esigenze dell'etichetta, ha sempre un angolo fertile e ridente ed è quello che Dio ha consacrato all'amore materno. «Dicevo dunque, Villefort, che i bonapartisti non avevano né la nostra convinzione, né il nostro entusiasmo, né il nostro attaccamento alla prova dei fatti.»
«Oh, signora, essi hanno almeno qualche cosa che compensa tutto ciò! Per loro, Napoleone è il Maometto dell'Occidente; egli è per questi uomini volgari, ma di somma ambizione, non solo un legislatore ed un padrone, ma anche un modello...»
«Di che?» Esclamò la Marchesa. «Napoleone un modello! E che direte dunque di Robespierre? Mi sembra che gli rubiate il suo posto per darlo al Corso, e questa mi sembra una grossa usurpazione.»
«No, signora, io lascio sul suo piedistallo Robespierre, nella piazza di Luigi XV, sul suo patibolo; Napoleone nella piazza Vendôme, sulla sua colonna. Ciò però non vuol dire» aggiunse Villefort, sorridendo, «che tutti e due non siano due infami rivoluzionari, che il 9 termidoro e il 4 aprile 1814 non siano due giorni felici per la Francia, e degni di essere ugualmente festeggiati dagli amici dell'ordine e della monarchia; ma ciò spiega ugualmente come Napoleone, caduto per non rialzarsi mai più, sia ancor ricordato. Ma che volete, Marchesa, Cromwell, che non era neppure la metà di ciò che è stato Napoleone, aveva anch'egli degli amici!»
«Sapete che ciò che dite, Villefort, puzza di rivoluzione lontano un miglio? Ma vi perdono: è impossibile esser figlio di un girondino, e non conservare qualche rispetto per il Terrore.»
Un vivo rossore passò sulla fronte di Villefort.
«Mio padre era girondino, signora» disse lui, «è vero; ma mio padre non ha dato il suo voto per la morte del Re; mio padre è stato proscritto da quello stesso Terrore che proscriveva voi pure, e poco è mancato che non portasse la sua testa sullo stesso patibolo dove cadde quella di vostro padre.»
«Sì» disse la Marchesa senza che questo sanguinoso pensiero portasse la minima alterazione alla sua fisionomia, «solamente era per principi diametralmente opposti che vi sarebbero saliti tutti e due; e la prova è che tutta la sua famiglia è rimasta affezionata ai principi esiliati, mentre vostro padre si è affrettato ad accomodarsi col nuovo governo, e che il cittadino Noirtier, dopo essere stato girondino, divenne il conte di Noirtier senatore.»
«Madre mia, madre mia» disse Renata, «voi sapete che fu convenuto che non si sarebbe giammai parlato di questi cattivi ricordi.»
«Signora» rispose Villefort, «io mi unisco alla signorina di Saint-Méran per domandarvi umilmente l'oblio del passato. Con quale vantaggio recriminare su cose davanti a cui la stessa volontà di Dio è impotente? Dio può cambiare l'avvenire; egli stesso però non può modificare il passato. Ciò che possiamo noi mortali è, se non rinnegarlo, almeno gettarvi sopra un velo. Ebbene io non solo mi sono diviso dalle opinioni di mio padre, ma anche dal suo nome.
Mio padre è stato, e forse è ancora bonapartista e si chiama Noirtier; io sono regio, e mi chiamo Villefort. Lasciate morire nel vecchio tronco un relitto rivoluzionario, e non badate, signora, al ramo che si allontana da questo tronco, senza potere, e dirò quasi senza volere, staccarsene del tutto.»
«Bravo Villefort» disse il Marchese, «bravo! Bella risposta! Ho sempre predicato alla Marchesa la dimenticanza del passato senza averla mai potuta ottenere; spero che voi sarete più fortunato di me.»
«Sì, sta bene» disse la Marchesa, «dimentichiamo il passato, io non domando di meglio, ciò è chiaro; ma che almeno Villefort sia inflessibile per l'avvenire. Non dimenticate, Villefort, che noi abbiamo garantito di voi a Sua Maestà, e che il Re stesso ha voluto dimenticare tutto, dietro le nostre raccomandazioni, come io dimentico tutto alla vostra preghiera.» Così dicendo gli stendeva la mano. «Soltanto se vi cade fra le mani qualche cospiratore, pensate che si hanno gli occhi aperti su voi; tanto più, in quanto si sa che voi siete di una famiglia che non può essere in relazione alcuna con tal gente.»
«Purtroppo, signora» disse Villefort, «la mia professione, e soprattutto il tempo in cui viviamo, mi impongono di essere severo, e lo sarò. Ho già avuto qualche accusa politica da sostenere, e sotto questo rapporto ho dato le mie prove. Disgraziatamente però, noi non siamo ancora alla fine.»
«Voi lo credete?» Disse la Marchesa.
«Ne ho timore. Napoleone all'isola d'Elba è troppo vicino alla Francia, la sua presenza quasi in vista delle nostre coste risveglia la speranza nei suoi partigiani. Marsiglia è piena di ufficiali a mezza paga, che tutti i giorni sotto qualche frivolo pretesto cercano un pretesto per bisticciare coi regi. Di qui duelli fra le persone della classe elevata, di là gli assassini nel rango del popolo.»
«A proposito» disse il conte de Servieux, vecchio amico di Saint-Méran e ciambellano del conte Artois, «voi sapete che la Santa Alleanza lo leverà di là.»
«Sì, si è tenuto un discorso su questo argomento quando siamo entrati in Parigi» disse Saint-Méran. «Ma dove lo manderanno?»
«A Sant'Elena.»
«A Sant'Elena? Che cosa è?» Disse la Marchesa.
«Un'isola situata a duemila leghe da noi, al di là dell'Equatore» rispose il Conte.
«Alla buon'ora! È una gran follia aver lasciato un simile uomo fra la Corsica, dov'è nato, e Napoli.»
«Disgraziatamente» disse Villefort, «noi abbiamo i trattati del 1814, e non si può toccare Napoleone senza infrangere questi trattati...»
«Ebbene, s'infrangeranno» disse de Servieux. «È andato giù per il sottile quando si trattò di far fucilare l'infelice duca d'Enghien?»
«Sì» disse la Marchesa, «è stabilito, la Santa Alleanza libererà l'Europa da Napoleone, e Villefort libererà Marsiglia dai suoi partigiani. Il Re, o regna o non regna... Se regna il suo governo dev'essere forte e i suoi agenti inflessibili: questo è il solo mezzo per prevenire il male.»
«Disgraziatamente, signore» disse Villefort, «un sostituto del Procuratore del Re giunge sempre quando il male è fatto. Allora sta a lui ripararlo. Potrei aggiungere ancora, signora, che noi non ripariamo il male, ma soltanto lo vendichiamo.»
«Oh, signor Villefort» disse una bella giovane figlia del conte de Servieux e amica di Renata, «cercate dunque di farci avere un bel processo fino a che noi saremo a Marsiglia; io non ho mai veduto una seduta al tribunale e mi si dice che sia una cosa molto bella e curiosa!»
«Curiosissima davvero, signorina» disse il sostituto, «perché in luogo di una finta tragedia si rappresenta un dramma vero e reale; in luogo di dolori rappresentati, sono dolori sentiti. Quell'uomo che si vede là, invece di ritornare a casa sua dopo aver terminato il turno lavorativo, di andare a cena con la sua famiglia, e di dormire tranquillamente, per rappresentare all'indomani la stessa scena, rientra in prigione dove trova il più delle volte il carnefice.
Vedete bene che per le persone eccitabili che cercano emozioni non vi è spettacolo che possa paragonarsi a questo; state tranquilla, signorina, se la circostanza si presenterà, proverò la verità del mio ragionamento.»
«Ci fa rabbrividire... ed egli ride!» Disse Renata, impallidendo.
«Che volete» riprese Villefort, «questo è un duello... Io ho già ottenuto cinque o sei volte la pena di morte contro alcuni accusati politici... Ebbene, chissà quanti pugnali a quest'ora si arrotano nelle tenebre o sono già diretti sopra di me!»
«Oh, mio Dio» disse Renata, impallidendo sempre più, «parlate seriamente, Villefort?»
«Non si può parlare più seriamente, signorina» rispose il giovane magistrato con un sorriso sulle labbra. «È con questi bei processi che la signorina desidera avere a che fare per soddisfare la sua curiosità, e che io bramo per soddisfare la mia ambizione; la situazione delle cose non farà che peggiorare. Tutti questi soldati di Napoleone abituati ad andare come ciechi incontro alle pallottole nemiche, credete voi che ci penseranno due volte a bruciare una cartuccia, o a marciare a passo di carica con la baionetta abbassata? Credete voi che ci penseranno due volte di più ad uccidere un uomo che credono loro nemico personale, che ad uccidere un russo, un tedesco o un ungherese che non hanno mai veduto? D'altronde bisogna ammetterlo, altrimenti non vi sarebbe punto di difesa. Io stesso, quando vedo luccicare nell'occhio dell'accusato il lampo luminoso della rabbia, mi esalto tutto e m'incoraggio: non è più un processo, ma un combattimento; io lotto contro di lui, egli risponde; io raddoppio il combattimento che finisce come tutti gli altri, o con una vittoria o con una sconfitta. Ecco ciò che si chiama dibattimento! È il pericolo che fa l'eloquenza. Un accusato che sorride dopo una mia replica mi fa conoscere che ho parlato male; e ciò che ho detto è privo di forze, senza vigore, insufficiente; immaginate dunque quale dev'essere la sensazione d'orgoglio di un procuratore del Re convinto della colpevolezza dell'accusato, allorquando vede avvilirsi ed annientarsi il reo sotto il peso delle prove e sotto i fulmini della sua eloquenza! Quella testa si abbassa, dunque cadrà.»
Renata gettò un leggero grido.
«Ecco ciò che si chiama saper parlare» disse uno dei convitati.
«Ecco l'uomo che ci serve in tempi come i nostri!» Disse un altro.
«Così» disse un terzo, «nel vostro ultimo affare, voi sarete rimasto superbo, mio caro Villefort. Parlo di quell'uomo che ha ucciso suo padre. Ebbene, letteralmente, voi lo avete ucciso prima che il carnefice lo toccasse.»
«Oh, per i parricidi» disse Renata, «poco importa, non vi sono supplizi abbastanza grandi per tal razza di gente, ma gli infelici accusati politici!...»
«Gli accusati politici!» Esclamò la Marchesa. «È ancor peggio; perché il Re è padre della nazione, e volere rovesciare od uccidere il Re è lo stesso che volere uccidere il padre di 32 milioni di uomini.»
«Oh, non è lo stesso! Villefort» disse Renata, «mi promettete di avere indulgenza per quelli che vi raccomanderò?»
«State tranquilla» disse Villefort con un sorriso affettuoso, «noi faremo assieme le nostre requisitorie.»
«Cara mia» disse la Marchesa, «occupatevi dei vostri pizzi, dei vostri aghi, dei vostri nastri, e lasciate al vostro futuro sposo disimpegnare il suo ufficio. Oggigiorno le armi sono in riposo, e la toga è in credito; vi è a questo proposito un motto latino.»
« Codant arma togo» interruppe inchinandosi Villefort.
«Io avrei preferito che voi foste stato un medico» rispose Renata: «l'angelo sterminatore, per quanto sia un angelo, fa sempre paura.»
«Buona Renata!» Mormorò Villefort, accarezzando la giovane con uno sguardo d'amore.
«Figlia mia» disse il Marchese, «Villefort sarà il medico morale e politico di questa provincia, questa è una bella parte da rappresentare, credetemi.»
«E sarà un mezzo per far dimenticare la parte che ha rappresentato suo padre» soggiunse l'incorreggibile Marchesa.
«Signora» riprese Villefort, con un mesto sorriso, «ho di già avuto l'onore di dirvi che mio padre aveva, spero almeno, ripudiati gli errori del tempo passato, che era divenuto un amico zelante della religione e dell'ordine, migliore forse di me stesso, poiché lo è stato con pentimento, ed io non lo sono che con passione.»
E dopo questa frase ampollosa Villefort, per giudicare dell'effetto della sua facondia, girò intorno lo sguardo sui convitati, come dopo una frase equivalente avrebbe guardato l'uditorio dal suo seggio in tribunale.
«Ebbene, mio caro Villefort» disse il Conte Servieux, «è appunto ciò che io risposi l'altro giorno alle Tuileries al ministro della casa del Re, che mi domandava conto di questa singolare alleanza tra il figlio di un girondino e la figlia di un ufficiale dell'armata di Condé e il ministro l'ha inteso molto bene. Questo sistema di fusione è pur quello di Luigi XVII. Così il Re, che senza che noi lo sapessimo, ascoltava la nostra conversazione c'interruppe dicendo: «Villefort» notate bene che il Re non ha pronunziato il nome Noirtier, anzi ha insistito al contrario su quello di Villefort, «Villefort» ha dunque detto il Re, «farà una bella carriera; è un giovane già maturo e che è di mio genio. Ho visto con piacere che il Marchese e la Marchesa di Saint-Méran lo prendono per genero ed avrei loro consigliata questa alleanza io stesso, se essi non fossero stati i primi a chiedermi il permesso di contrarla».
«Il Re ha detto questo?» Esclamò con entusiasmo Villefort.
«Io ho riferito le sue stesse parole e, se il Marchese vuol esser sincero, vi confesserà che ciò che ho riferito in questo momento collima perfettamente con quanto il Re disse a lui stesso, circa sei mesi fa, quando gli parlò di un progetto di matrimonio fra sua figlia e voi.»
«Sì, è vero» disse il Marchese.
«Ah, dunque io dovrò tutto a quest'ottimo Principe! Perciò che cosa non farò pur di servirlo bene?»
«Alla buon'ora» disse la Marchesa, «ecco come io vi desidero; venga ora un cospiratore e sarà il benvenuto.»
«Ed io, madre mia» disse Renata, «prego il cielo che non vi ascolti; che egli non invii a Villefort che dei ladroncelli, dei piccoli fallimenti, dei timidi scrocconi; in questo modo soltanto potrò dormire tranquilla.»
«Sarebbe» disse ridendo Villefort, «come se voi auguraste ad un medico che gli capitassero soltanto delle emicranie, delle piccole flussioni, delle punzecchiature di api, tutte cose che non compromettono minimamente la salute. Ma se volete vedermi procuratore del Re, auguratemi il contrario: vale a dire che abbia da curare quelle malattie che fanno onore al medico.»
In quel momento, come se il destino avesse inteso il voto di Villefort per esaudirlo, un cameriere entrò e gli disse qualche parola all'orecchio.
Villefort lasciò la tavola scusandosi e ritornò dopo brevi istanti col viso aperto e le labbra sorridenti. Renata lo guardò con amore; perché veduto così, coi suoi begli occhi azzurri, il colorito maschio e i neri favoriti che gli contornavano il viso, era veramente un giovanotto bello ed elegante.
Tutta l'anima della giovane sembrava pendere dalle sue labbra, aspettando che spiegasse la causa della sua momentanea assenza.
«Ebbene» disse Villefort, «voi desideravate, signorina, avere un medico per marito. Io ho coi medici questa somiglianza, che non ho mai tempo per me, e mi si viene a disturbare anche vicino a voi, anche al pranzo del fidanzamento.»
«E per qual cosa venite dunque disturbato?» Domandò la bella giovane con una leggera inquietudine.
«Ahimè, per uno che, a quanto sembra, se debbo credere a quello che mi è stato detto, si trova agli estremi; questa volta è un caso grave, e la malattia lo conduce vicino al patibolo.»
«Oh, mio Dio!» Esclamò Renata impallidendo.
«Davvero?» Disse ad una voce tutta l'assemblea.
«Sembra si sia scoperto niente meno che un complotto bonapartista.»
«Sarebbe possibile!» Esclamò la Marchesa.
«Ecco la denuncia» e Villefort lesse ad alta voce ciò che il lettore conosce già, vale a dire la lettera di Danglars.
«Ma» disse Renata, «questa non è che una lettera anonima, diretta al Procuratore del Re e non a voi.»
«Sì, ma il Procuratore del Re è assente, in sua assenza la lettera è stata portata al suo segretario, che è autorizzato ad aprire le lettere. Egli dunque ha aperto questa, mi ha fatto cercare, e non avendomi trovato, ha dato gli ordini necessari per l'arresto.»
«Il colpevole dunque è già stato arrestato?» Disse la Marchesa.
«Cioè l'accusato» soggiunse Renata.
«Sì, signora» disse Villefort, «e come avevo l'onore di dire poco fa alla signorina, se la lettera si rinviene, il malato è compromesso gravemente.»
«E dov'è quest'infelice?» Domandò Renata.
«A casa mia che aspetta.»
«Andate dunque, amico mio» disse il Marchese, «non mancate al vostro dovere per trattenervi con noi; andate, poiché il servizio del Re ve lo impone.»
«Ah, signor Villefort, siate indulgente» disse Renata accostando le mani, «ricordatevi che questo è il giorno del vostro fidanzamento.»
Villefort fece un giro intorno alla tavola, e avvicinatosi alla sedia della giovane, appoggiandosi alla spalliera, disse: «Per risparmiarvi un'inquietudine, farò tutto ciò che potrò, mia cara Renata; ma se gli inizi sono sicuri, e l'accusa è vera, bisognerà certamente tagliare questa cattiva erba bonapartista.»
Renata rabbrividì a questa parola "tagliare", poiché quell'erba che si pensava di tagliare era la testa di un uomo.
«Eh via!» Disse la Marchesa. «Non date ascolto a questa ragazzina, Villefort; si abituerà.»
E la Marchesa stese a Villefort una mano rigida che egli baciò, sempre guardando Renata e dicendole con gli occhi: «È la vostra mano che io intendo baciare in questo momento, o almeno desidererei che fosse.»
«Questi sono tristi auspici» mormorò Renata.
«In verità, signorina» disse la Marchesa, «voi siete di una puerilità disarmante. Io vi domando che può aver a che fare il destino dello Stato con le vostre fantasie sentimentali, e con la vostra sensibilità di cuore...»
«Oh, madre mia» mormorò Renata.
«Grazie signora Marchesa» disse Villefort. «Io vi prometto di fare il mio mestiere di sostituto procuratore del Re coscienziosamente, vale a dire di essere orribilmente severo.»
Ma nel medesimo tempo che il magistrato indirizzava queste parole alla Marchesa, il fidanzato gettava di nascosto uno sguardo alla sua bella, e questo sguardo diceva: «State tranquilla, Renata, per il vostro amore io sarò indulgente.»
Renata corrispose a questo sguardo col più dolce sorriso, e Villefort se n'andò con il paradiso nel cuore.