Capitolo 7-1

2031 Parole
Capitolo 7 L’interrogatorio Non appena Villefort fu fuori dalla sala da pranzo, lasciò la sua maschera sorridente per prendere l'aria grave di un uomo chiamato al supremo ufficio di pronunciarsi sulla vita del suo simile. Ora, malgrado la mobilità della sua fisionomia, mobilità che il sostituto aveva studiata, come deve fare ogni abile attore, più di una volta innanzi allo specchio, questa volta gli costò molta fatica aggrottare le sopracciglia e rendere severi i suoi lineamenti. Prescindendo dalle memorie di quella linea politica seguita dal padre che poteva, se non se ne allontanava compiutamente, rovinare il suo avvenire, Gérard Villefort era in questo momento tanto felice, quanto è concesso ad un uomo di esserlo. Già ricco per sé stesso, a ventisette anni occupava un posto elevato della magistratura, aveva sposato una bella ragazza, che amava; e, oltre la bellezza, che era notevole, la signorina di Saint-Méran apparteneva ad una delle famiglie più favorite alla corte di quell'epoca; infine l'influenza del padre e della madre di lei, non avendo figli maschi, poteva essere consacrata tutta intera al loro genero; lei portava inoltre al marito una dote di cinquantamila scudi che, grazie alle "speranze" (parola atroce inventata dai sensali di matrimonio), poteva un giorno sperare di aumentare con una eredità di mezzo milione. Tutti questi elementi messi assieme, componevano dunque per Villefort un quadro di felicità abbagliante, tanto che gli sembrava di vedere delle macchie nel sole quando a lungo guardava la sua vita con lo sguardo dell'anima. Alla porta trovò il commissario di polizia che lo aspettava. La vista dell'uomo in nero lo fece subito ricadere dall'altezza del terzo cielo sulla terra, dove noi camminiamo; egli ricompose il suo viso nel modo che abbiamo indicato, ed avvicinandosi all'ufficiale di giustizia: «Eccomi, signore» disse: «ho letto la lettera, e voi avete fatto benissimo ad arrestare quest'uomo: ora datemi su di lui e sulla cospirazione tutti i particolari che avete raccolto.» «Signore, della cospirazione noi non sappiamo ancora nulla» rispose il commissario, «ma tutte le carte che sono state trovate presso quest'uomo, sono tutte poste sotto un legaccio, e si trovano sigillate sul vostro scrittoio. Quanto al detenuto, voi lo avrete visto dalla lettera stessa che lo denuncia: si chiama Edmond Dantès, ed è secondo a bordo della nave a tre alberi il Pharaon, che fa commercio di cotone con Alessandria e Smirne, e appartiene alla casa Morrel e Figli di Marsiglia.» «Prima di servire nella marina mercantile ha servito nella marina militare?» Domandò Villefort. «Oh no, signore, è molto giovane.» «Qual è la sua età?» «Diciannove o venti anni al più.» Siccome Villefort, seguendo la strada grande era giunto all'angolo della via dei Consoli, un uomo che sembrava aspettarlo al suo passaggio, gli si fece incontro. Questi era Morrel. «Ah, signor Villefort» esclamò il brav'uomo, riconoscendo il sostituto. «Immaginatevi che si commette lo sbaglio più strano, più inaudito; è stato arrestato il secondo del mio bastimento, Edmond Dantès.» «Lo so, signore» disse Villefort, «ed io entro in casa per interrogarlo.» «Ah, signore» continuò Morrel, trasportato dalla sua amicizia per il giovane, «voi non conoscete colui che viene accusato, io sì che lo conosco. Immaginatevi l'uomo più probo ed oserei quasi dire l'uomo che conosce meglio il mestiere di tutta la marina mercantile. Oh, signor Villefort, io ve lo raccomando caldamente e con tutto il mio cuore.» Villefort, come si è potuto vedere, apparteneva al partito nobile della città e Morrel al partito plebeo; il primo era ultraregio, il secondo sospetto bonapartista. Villefort guardò sdegnosamente Morrel e gli rispose con freddezza: «Voi sapete che si può essere dolci nella vita privata, probi nelle relazioni commerciali, sapienti nel proprio mestiere, e tuttavia molto colpevoli, politicamente parlando... Voi lo sapete, non è vero?» E il magistrato calcò queste ultime parole come se avesse voluto riferirle allo stesso armatore, mentre con il suo sguardo scrutatore si sforzava di penetrare fino in fondo al cuore di quest'uomo, ardito abbastanza da intercedere per un altro, quando doveva sapere che aveva bisogno egli stesso d'indulgenza. Morrel arrossì, poiché non sentiva la coscienza netta riguardo alle sue opinioni politiche; e d'altronde la confidenza che gli aveva fatta Dantès del colloquio tenuto col gran Maresciallo e delle poche parole che gli aveva dirette l'Imperatore, gli turbava un poco lo spirito. Tuttavia aggiunse con l'accento del più profondo interesse: «Ve ne supplico, signor Villefort, siate giusto come dovete esserlo, buono come lo siete sempre, e rendete a noi ben presto questo povero Dantès.» Il «rendete a noi» risuonò spiacevole all'orecchio del sostituto procuratore del Re. «Eh! eh!» Si disse «rendete a noi»? Questo Dantès sarebbe forse affiliato a qualche setta di carbonari, perché il suo protettore impieghi così, senza pensarci, la formula collettiva? È stato arrestato in un'osteria mi disse il commissario, e in numerosa compagnia, mi soggiunse; forse sarà stata...» Poi proseguendo ad alta voce rispose: «Signore, potete stare perfettamente tranquillo, e non vi sarete appellato inutilmente alla mia giustizia, se l'imputato è innocente; ma se al contrario è reo, viviamo in tempi così difficili che l'impunità sarebbe un esempio fatale; ed io sarei obbligato a fare il mio dovere.» E siccome era arrivato alla porta della sua casa, attigua al Palazzo di Giustizia, egli vi entrò maestosamente, dopo aver salutato con una gentilezza glaciale l'infelice armatore, che rimase come pietrificato sul posto ove lo lasciò Villefort. L'anticamera era piena di gendarmi e di agenti di polizia. In mezzo ad essi, guardato a vista, circondato da sguardi fulminanti d'odio, stava calmo, immobile e dritto in piedi il prigioniero. Villefort traversò l'anticamera, diede uno sguardo minaccioso a Dantès dopo aver preso un plico che gli venne rimesso da un agente, dicendo: «Mi si conduca il prigioniero.» Per quanto rapido fu lo sguardo, questo bastò a Villefort per farsi un'idea dell'uomo che stava per interrogare. Egli aveva riconosciuto l'intelligenza in quella fronte larga ed aperta, il coraggio nell'occhio fisso e nel sopracciglio corrugato, e la franchezza nelle labbra grosse e semiaperte che lasciavano vedere due file di denti come se fossero d'avorio; la prima impressione era stata dunque favorevole per Dantès; ma Villefort aveva inteso dire spesso, in segno di realismo politico, che bisogna diffidare del primo impulso, allorché sia favorevole, per cui applicò la sentenza all'impressione ricevuta, senza tener conto della differenza che passa fra le due impressioni. Egli soffocò dunque i buoni istinti che premevano il suo cuore per liberare lo spirito dalla violenza, accomodò davanti allo specchio il suo portamento come nei giorni dei grandi processi, e si sedette cupo e minaccioso dietro lo scrittoio. Un istante dopo entrò Dantès. Il giovane era sempre pallido, ma calmo e sorridente. Egli salutò il suo giudice con una deferenza non affettata, poi cercò con gli occhi una sedia, come si fosse trovato nella camera del signor Morrel. Fu allora soltanto che incontrò lo sguardo di Villefort, sguardo particolare degli uomini di palazzo che non vogliono che si legga il loro pensiero, e fanno del loro occhio un cristallo appannato. Questo sguardo gli fece capire che era davanti alla giustizia, simbolo di sinistri auspici. «Chi siete voi, e come vi chiamate?» Domandò Villefort sfogliando le note che l'agente gli aveva rimesso entrando, e che da un'ora erano divenute voluminose, tanto la corruzione si attacca presto al corpo disgraziato di colui che si definisce imputato. «Signore, mi chiamo Edmond Dantès» rispose il giovane con voce calma e sonora, «sono secondo di bordo della nave il Pharaon, che appartiene ai signori Morrel e Figli.» «La vostra età?» Continuò Villefort. «Diciannove anni» rispose Dantès. «Che facevate, al momento che foste arrestato?» «Assistevo al pranzo del mio fidanzamento» disse Dantès, con una voce leggermente commossa, tanto era doloroso il contrasto fra i momenti di gioia e la lugubre cerimonia che si compiva, e tanto il viso cupo di Villefort faceva brillare di luce la raggiante figura di Mercedes. «Voi assistevate al pranzo del vostro fidanzamento?» Disse il sostituto, rabbrividendo suo malgrado. «Sì, signore, sono sul punto di sposare una donna che amo da tre anni!» Villefort, sebbene d'ordinario impassibile, fu colpito da questa coincidenza; e quella voce commossa di Dantès sorpreso in mezzo alla sua felicità, andò a svegliare una fibra simpatica nel fondo della sua anima. Egli pure si stava ammogliando, egli pure era felice e si veniva a disturbare la sua felicità perché contribuisse a distruggere la gioia di un uomo, che, come lui, già toccava la felicità! Questo ravvicinamento filosofico, pensò, farà grande effetto al mio ritorno nel salone del Marchese di Saint-Méran, ed egli vi andava già con il pensiero, mentre Dantès attendeva nuove domande, le parole contrastanti con cui gli oratori costruiscono quelle frasi che strappano applausi e qualche volta fanno presumere in essi una vera eloquenza. Allorché il suo piccolo dialogo interiore fu sedato, Villefort sorrise del suo effetto, e ritornato a Dantès: «Continuate» disse. «Che volete che continui?» Domandò Dantès. «Ad illuminare la giustizia.» «Che la giustizia mi dica su qual punto vuol essere rischiarata, ed io le dirò tutto quello che so. Soltanto» aggiunse con un sorriso, «la prevengo che so ben poche cose.» «Avete servito l'Imperatore?» «Ciò cadde appunto quando stavo per essere incorporato nella marina militare.» «Si dice che le vostre opinioni politiche siano esagerate» disse Villefort, al quale nessuno aveva detto una parola di ciò, ma non poteva fare a meno di porre una domanda come si pone un'accusa. «Le mie opinioni politiche? Le mie, signore? È quasi vergognoso dirlo, ma io non ho mai avuto ciò che si chiama un'opinione. Ho diciannove anni appena, come ebbi l'onore di dirvi: non so niente, non sono destinato a rappresentare alcuna parte; il poco che sono e che sarò, se mi si accorda il posto che desidero, lo dovrò solo al signor Morrel. Per tal modo tutte le mie opinioni, non dirò politiche, ma private, si limitano a questi tre sentimenti: io amo mio padre, rispetto il signor Morrel e adoro Mercedes. Ecco, signore, tutto ciò che posso dire alla giustizia. Voi vedete che questo può interessarle ben poco.» A misura che Dantès parlava, Villefort guardava il suo viso dolce ad un tempo ed aperto, e sentiva ritornare alla memoria le parole di Renata, che senza conoscere l'imputato, gli aveva domandato indulgenza per lui. Con l'abitudine che aveva di trattare i delitti e i delinquenti, il sostituto vedeva ad ogni parola di Dantès le prove della sua innocenza. Questo giovane, che si sarebbe potuto chiamare ancora ragazzo, semplice, ingenuo, eloquente, di quella eloquenza del cuore che non si trova mai quando si cerca, pieno d'affezione per tutti perché era felice, poiché la felicità rende buoni anche gli stessi malvagi, versava sul suo giudice la dolce affabilità del suo cuore. Edmond non aveva nello sguardo, nella voce, nel gesto, per quanto rozzo e severo fosse stato con lui Villefort, che affabilità e bontà per chi lo interrogava. «Perbacco!» Disse tra sé Villefort, «ecco un buon giovane ed io non penerò molto, lo spero, a farmi un merito con Renata, compiacendo la sua prima raccomandazione. Ciò mi frutterà una buona stretta di mano in presenza di tutti, ed un bacio ineffabile di nascosto.» A questa doppia speranza la figura di Villefort si abbellì, a tal modo che quando rivolse gli sguardi dai suoi pensieri sopra Dantès, questi che aveva seguito tutti i movimenti della fisionomia del suo giudice, sorrideva quasi al suo pensiero. «Sapete di avere qualche nemico?» Disse Villefort. «Io dei nemici?» Rispose Dantès. «Ho la fortuna di essere ancora ben poca cosa perché la mia posizione me ne faccia. Quanto al mio carattere forse un poco troppo vivace, ho sempre cercato di addolcirlo verso i miei subordinati. Ho dieci o dodici marinai sotto i miei ordini; che vengano pure interrogati, signore, ed essi vi diranno che mi amano e mi rispettano, non come padre, perché sono troppo giovane, ma come un fratello maggiore.» «Bene» continuò Villefort, «vediamo ora se invece di nemici poteste avere qualcuno che vi invidia o prova gelosia per voi. Voi state per essere nominato capitano a diciannove anni, il che è un posto elevato nella vostra condizione. Voi state per sposare una giovane che vi ama il che è un bene raro in ogni circostanza. Questi due giochi del destino, avrebbero potuto procurarvi qualche invidia.»
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