BEATRICE - Fossi a casa mia, sugli scogli

2151 Parole
BEATRICE - Fossi a casa mia, sugli scogli 1 Fossi a casa mia, sugli scogli dove si respira la salsedine, magari un’idea mi verrebbe. Ma in questa mansarda nel cuore di Milano l’unica cosa che ricorda il mare è l’arredamento, tutto azzurro e blu. Una fissa di Enrico, o di qualche arredatrice d’interni puntualmente scopata. Bella casa, semplice e di lusso. Peccato non risponderà alla domanda da un milione di euro: dov’è Enrico? E come potrebbe, del resto? La frequento da otto mesi soltanto, da quando cioè è scoppiata la nostra storia. Proprio una storia esplosiva, e il tempo insieme era sempre poco, troppo poco. Altro che perlustrare le stanze, o anche solo guardarmi intorno. Ora come ora, la definirei una casa dimezzata. Nel senso che l’armadio è mezzo vuoto, così come la libreria e il porta cd. Musica e libri non cambiano a seconda della destinazione. Gli abiti sì, ma io non ho un’idea così precisa del suo guardaroba. Dalla camera da letto manca lo stereo. Ammesso che significhi qualcosa, è una vaga minaccia su cui non voglio fissarmi. Sto farneticando. So benissimo che Enrico non ha lasciato Milano per una normale vacanza. Ci siamo visti l’ultima volta tre giorni prima di Ferragosto, abbiamo dormito qui. Lui e io, insieme. mi ha tenuto abbracciata tutta la notte. La mattina dopo sono partita per il mare e da allora è il buio. Quasi un mese di buio. La sua agenda sta lì, di fianco al telefono. Non ho scelta. Ci sono dozzine di numeri, scritti in una grafia impossibile. Nomi di politici, uffici, enti pubblici, amministrazioni. E tanta gente sconosciuta delle sue parti, come conferma il prefisso. Alla voce “casa” c’è il numero della residenza ufficiale di Casteggio, dove vive la moglie. Moglie tutt’ora in carica. Non ci faccio conto: l’ultimo posto in cui Enrico andrebbe a curarsi le ferite è proprio la villona. Così la chiama lui, caricando la parola di sarcasmo. Mi sono fatta l’idea che appartenga ai suoceri, ma non ho mai chiesto. Non sono una che fa domande. Né Enrico è uno che darebbe risposte. Ecco, appunto. Mi balena un attimo di raziocinio. Perché lo sto cercando? Cosa potrei mai ottenere? E soprattutto... cosa penso di raccontargli adesso? Tanto vale andarsene (no, non ancora). Devo affrontare il peggio. Raccogliere le poche tracce di me che restano qui. Il computer portatile, l’accappatoio, una T-shirt... (non ti servono). Il portatile sì, quello per forza. Solo quello. Il resto… vedremo. All’improvviso ho fretta, fretta di chiudermi dietro le spalle la porta di questa casa vuota. Fuori, un sole giallo-rosato, marchio di fabbrica del settembre milanese, filtra in mezzo ai vicoli di Brera. 2 Lotto invano per non svegliarmi, e poi lotto ancora per riaddormentarmi. Inutile. Occhi aperti, cuore in tumulto, la testa che pulsa furiosa. Proprio qui, sopra gli occhi. Sarà l’una di notte. Forse neppure, sta arrivando un tram. Lo sferragliare si sente da lontano, nonostante qui sotto le finestre ci sia il solito vociare di ragazzi e scooter. Il quartiere Ticinese non è silenzioso, e questa strada ancor meno delle altre. Eppure di solito dormo senza problemi, perché ciò che conta è il silenzio della testa e del cuore. Stanotte urlano, e io sono quasi grata a questi ragazzini, e al tram, e alle sirene, perché non mi lasciano sola con i mostri che mi accerchiano nel buio. Accendo la luce e subito sbiadiscono. Ma restano i ricordi. I ricordi non se ne andranno mai, e a negarli ingigantiscono. Non serve far finta che non esistano, tenerli chiusi in una scatola in fondo all’armadio. Non mi uccideranno. Li prendo e li spargo sul letto, disegni, biglietti e fotografie che il tempo ha ricoperto con un velo d’oro e di nebbia. In quasi tutte si vede il mare, quell’angolo di Camogli raccolto tra la chiesa e il molo. Dove non c’è il mare c’è la focacceria del nonno, colorata di giallo, con le insegne verdi. Lì sopra era casa mia. Proprio in faccia alla spiaggetta di sassi. Il mare mi ha vista balbettare, parlare, camminare, correre... (cadere). Faccio fatica a ricordare, perché l’ultimo ciak di quella vita si fagocita il resto della pellicola. Ogni volta che cerco di proiettarmi tutto il film, finisce che metto via alla rinfusa e scappo in qualche altro luogo della mente. Ma adesso no, non posso permettermelo. Lascio che scorrano le immagini di un giorno di giugno, martedì, l’una e mezzo del pomeriggio. Ho finito il compito di matematica dell’esame di terza media, e il risultato del problema coincide con quello delle mie compagne. Ripercorro il vialetto della scuola e poi, con un repentino cambio di scena, sono davanti a casa. Urlo un tutto okay ai nonni, imbocco le scale, chiamo mia madre cantando, faccio un chiasso esagerato. Poi tutto rallenta. C’è una tavola apparecchiata con la tovaglia a quadretti bianchi e verdi e nel piatto bordato di margherite mi aspettano le trofie al pesto. Le divoro e intanto racconto dell’esame come un torrente in piena. «Beatrice... non sto... bene». Così dice – disse – mia madre. Quel bene così fioco, così lontano, precedette di un secondo o due il suo ultimo respiro. Lo disse e qualcosa dentro la mia testa scattò, una consapevolezza non razionale, perché io ero una ragazzina e non sapevo nulla della vita e della morte. Eppure capii di averla perduta. Fu un istante, vidi le pareti rovesciarsi, e il cielo divenne terra e la terra cielo. Ieri pomeriggio, dopo diciassette anni, l’infarto di mamma è tornato a tormentarmi, non più fantasma del passato ma ipoteca sul futuro. Sul futuro di mio figlio. Sul mio. «Coartazione aortica». Così s’è espresso il pediatra, nove sillabe mai udite prima, eppure ho capito e come allora ho visto le pareti rovesciarsi, il cielo diventare terra e la terra cielo. «L’intervento ha ottime possibilità di successo». Possibilità, non certezze, ma comunque ottime. Su questo slancio ho vissuto ieri notte, la prima di questo nuovo dopo. A navigare su Internet passano le ore, anche se in realtà mi è avanzato il tempo per chinarmi cento volte sul letto di Stefano a spiare il suo respiro, il suo colorito... Assurdità, ma quando hai un figlio di tre anni che deve andare sotto i ferri per un intervento al cuore, la razionalità tende a cedere il passo a paure primitive. Il pediatra ha escluso rischi immediati. Io ci credo. Con la testa. Il resto di me è qui, l’orecchio teso ad ascoltare il ronfare sommesso che esce dal Voice Control. Il resto di me ha bisogno di essere tenuto sotto controllo. Devo trovare Enrico. Quando ha perso le elezioni non ho forse pensato che la nostra storia era la pietra su cui poteva edificare il resto della sua vita? Ecco, è venuto il momento di verificare se mi sono illusa. Cosa molto probabile, e ne sono profondamente conscia, ma devo farlo. Comincerò domani. 3 «Casa di signora Gatti Oliviero. Chi parla?». «Sono la dottoressa Ferrando del “Corriere della Sera”, il giornale», spiego alla donna dal forte accento ispanico, di sicuro una domestica. «Ho appuntamento per un’intervista con il dottor Oliviero». «Dottore partito. Non so dove». Voci soffocate. Forse una mano sul microfono. «Sono Laura Oliviero. Lei chi è?». «Beatrice Ferrando del “Corriere”. Ho appuntamento...». «Mio marito non rilascia interviste. Buongiorno». Click. Telefonata inutile. Come previsto. Da qualche parte dovevo pur cominciare. 4 Io e Stefano partiamo sotto un cielo sporco, lattiginoso. In un attimo Milano è alle spalle, insieme al mio lavoro, alle domande, ai numeri di telefono inutili che non mi porteranno mai da Enrico. Ho scelto il Gaslini di Genova perché Stefano c’è nato. Come le gatte, ero tornata nella mia tana per partorire. Vicino al mare. Vicino a papà e alla sua nuova compagna, le uniche persone che avevo – che ho – al mondo. “Tuo marito non si fa vedere?”. “Non voglio parlarne, papà. Oggi è nato mio figlio”. Non ne abbiamo parlato mai più. Sono di nuovo qui, a scrutare il mare dalle finestre. Sola un’altra volta, ma oggi mi sento forte. Seguo l’infermiera stringendo Stefano per mano. O forse è Stefano che tiene stretta me. Quattro ore dopo abbiamo la conferma del verdetto e la data dell’intervento: il 22 novembre. Se tutto andrà bene. Se non si presenteranno urgenze. Se, se, se. Stefano si addormenta appena imboccata l’autostrada del ritorno. Lo spio nel retrovisore. Fragile. Pallido. Non mi sento più forte. E quei numeri di telefono non mi sembrano più inutili. Ho tempo, adesso. Mi fermo a far benzina e intanto aggancio l’auricolare. 5 «Renda e Associati, desidera?». «Ferrando del “Corriere”. L’avvocato Renda, per cortesia». «Vedo se è in ufficio». Musichetta di sottofondo. «Ciao, Beatrice». Piatto. Come un sospiro o uno sbuffo. «No, non so dove sia Enrico. Non lo sento da una vita. Per il partito è un irrecuperabile». Infatti non sto chiamando il partito. Sto chiamando il migliore amico di Enrico. «Beh, amico... Prima di tutto il suo legale». Senza pudore. Sono come gemelli siamesi fin da bambini. E lo studio legale Renda era uno dei tanti, a Voghera, prima che Enrico spiccasse il volo in politica. In pochi anni... clientela al passo e ufficio di rappresentanza a Milano. E vuoi vedere che non l’ha mai cercato? In tre mesi? «Avrei dovuto? Non c’era niente di nuovo, niente da firmare... Scusa, mi chiamano sull’altra linea». Click. Telefonata inutile numero due. 6 «Gaia, per favore. Sono Ferrando del “Corriere”». Sto superando il mio limite di faccia tosta. Gaia è l’ex amante ufficiale di Enrico Oliviero, che io stessa ho destituito dopo un onorato servizio di cinque anni. In realtà c’è da domandarsi chi abbia prestato onorato servizio a chi: Gaia Giganti è la proprietaria delle Dalie Blu, una galleria d’arte che – ma tu pensa il caso! – in quei cinque anni si è trasferita da via Pagano a via Borgonuovo. Come dire da dieci a cento senza passare dal via. La sua cuccagna è finita per colpa mia, davanti alla Milano che conta. Una scena esagerata. Nel bel mezzo del vernissage di un pittore israeliano di buona fama, Enrico sbuca fuori dal passato e mi riconosce al primo sguardo nonostante il tempo trascorso. Tra noi passano sorrisi, lampi divertiti e smorfie d’intesa. Ci corteggiamo dai due lati della sala, finché lui l’attraversa e mi sussurra all’orecchio “Chiamo un taxi?”, e io rispondo: “Sì”. Roba da romanzetto rosa, lo so. Gaia se l’è legata al dito, e ha le sue ragioni. «Beatrice, tesoro! Qual buon vento?». Ho forse sbagliato numero? Gaia Giganti è quella che al telefono mi ha dato dell’arrivista succhiacazzi. Non paga, l’ha ripetuto al mio caporedattore, che s’è fatto una grassa risata ma poi mi ha tolto i vernissage di Milano. Per ragioni di opportunità. Considerando che m’ero appena trasferita da Torino, dopo un’anticamera di quattro anni, ringrazio il cielo di non essere stata licenziata o spedita in provincia. «Cara, sei sempre lì? È caduta la linea?». Veramente sono caduta io, dovrei rispondere. Non mi ricordo proprio quando e come siamo diventate amiche. Però, chissenefrega. «Scusami. Stavo sorpassando, sono in auto. Ti chiamo per la nuova stagione. Con chi ci stupirai quest’anno?». «Oh, ti spedisco il programma. Una cosa da urlo, vedrai! Ma dimmi di Enrico. Come sta? Si sarà mica depresso, vero?». Ha già risposto. Non sa nulla. Troppo festosa e affabile, però, e continuo a non capire. Finché d’un tratto mi torna in mente l’unica volta che Enrico mi ha parlato di lei. Per bollarla così: «Quella ha una sola religione, quella delle 3 P». Confidenze postcoitali, che formano un puzzle e di colpo tutto mi è chiaro. Il quando il come e anche il perché. Le 3 P: potere, prestigio, possesso. Tutte cose che Enrico Oliviero, senza il suo seggio, non garantisce più. Gaia Giganti si sente come una che ha venduto l’automobile sei mesi prima che una legge le imponesse il fastidio di rottamarla. Infinitamente grata all’incauto compratore. Click. Telefonata inutile numero tre. 7 «Ferrando, redazione del “Corriere”. Potrei parlare con il dottor Nascimbeni? Solo un paio di domande». «È molto occupato. Resti in linea». Musichetta. Nascimbeni è un professionista della politica, quelli di una volta, che cadono sempre in piedi. Anzi, seduti. Infatti la poltrona in Consiglio Regionale l’ha mantenuta. «Le risponde tra un attimo. Attenda». Sempre sollecito con la stampa, Nascimbeni. Una delle ragioni della sua lunga resistenza ai vertici: capacità di crearsi alleanze, simpatie, addirittura amicizie. «Eccomi a lei, signorina...». «Ferrando. Conduco un’inchiesta sul clamoroso tonfo del suo partito alle elezioni...». Faccio flanella con qualche domanda sulle prospettive e i progetti della sua parte politica, senza ascoltare le risposte. Poi parto con l’affondo. «Vorrei intervistare i veri perdenti, Nascimbeni. Il dottor Oliviero, per esempio, sembra svanito». «Svanito è una parola grossa: sarà semplicemente tornato a essere un normale cittadino. È il privilegio di quelli come lui, che vengono dalle professioni! Io che ho sposato la politica, non so cosa darei per tornare un signor nessuno». Vaffanculo, signor nessuno. Click. Telefonata inutile numero quattro. 8 Di nuovo la sera, il buio. Scrivo e riscrivo un sms che alla fine cancello. Enrico continua a essere irraggiungibile. Provo il numero almeno una volta al giorno, da Ferragosto. Ho tentato anche con il cellulare ufficiale, quello della politica, pur sapendo che l’ha spento il giorno dopo le elezioni. “Fai conto che l’abbia perso”, mi ha detto l’ultima sera. Perché insisto? Delle chiamate in arrivo resta traccia. Appena accende, se accende, le vede. A quel punto, se vuole, mi cerca. Altrimenti fa finta di nulla. Un bookmaker inglese punterebbe sulla seconda e non sarà un messaggio in più a cambiare il pronostico. A meno di scrivere altro, su quell’sms. La verità. Ma questo è fuori discussione. Non stavolta, l’ho giurato a me stessa. Né sms, né telefono. Né mail, né chat. Non stavolta.
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