Susanna prese il polso di Marcella e lo strinse.
– Guarda è la tua amica: la Calò. È molto bella, sembra un’apparizione.
Nel definirla bella, Susanna pagava un tributo alla celebrità. Certo, valutò Marcella, a confronto di tante cantanti liriche il suo fisico si manteneva invidiabile e c’era nobiltà nei tratti del suo viso, ma anche qualcosa di duro che respingeva.
– Indossa un autentico Capucci – sussurrò Lidia, – e con che noncuranza lo porta.
– Com’è di carattere? – chiese a bassa voce Susanna.
– Tutto sommato la definirei un po’ schiva, non ama la vita mondana, forse perché ha già abbastanza “serate” a teatro. Stasera ha fatto un’eccezione per me.
– È sposata?
– No.
– E con chi sta?
Marcella rispose laconicamente che non lo sapeva ed era la verità. Flora pensò, non era donna da incoraggiare confidenze. Si erano conosciute perché a Montecarlo erano vicine di casa e di terrazzo. La vedeva spesso sola a leggere o a guardare il mare sotto di loro, così un giorno le aveva rivolto la parola ed era nata l’amicizia. Un’amicizia con dei limiti ben precisi e invalicabili.
– Sembra che non abbia in testa che la sua arte – disse a voce alta.
– E l’uomo che ora l’accompagna chi è? – chiese ancora Susanna.
– Alessandro Pace, l’investigatore, ne avrete certamente sentito parlare. – Lidia si rivide mentre discuteva con Sveto, quell’investigatore poco prima era presente alla scena e si era voltato a guardarli. Ne era certa.
Come la coppia li raggiunse, Marcella fece le presentazioni. Nel salutare la cantante Susanna divenne leggermente rossa e piegò il busto come in un mezzo inchino; poi si sarebbe presa a schiaffi. A sua scusante c’era da dire che la cantante aveva un aspetto veramente regale. L’abito scultura che indossava era dritto e geometrico, ma le maniche si aprivano a ogni movimento delle braccia come enormi ventagli, o ali iridescenti. Le stesse pieghe, fitte e in tutte le sfumature possibili, tra l’azzurro e il verde, formavano una raggiera a coda di pavone intorno al bel collo della donna. La testa con i capelli neri, raccolti semplicemente sulla sommità della nuca e fissati con una spilla di diamanti ne emergeva fiera e pareva quella di uno strano uccello.
– Ci stavamo chiedendo tutte – disse Marcella rivolta all’amica, – di cosa ti stava parlando il signor Pace. Ti ho vista così interessata. Di qualche tremendo delitto, o discutevate di lirica?
Lei scosse il capo con un gesto divertito, si trattava di un argomento molto più serio, avevano parlato di gatti. Li adorava, da ragazzina aveva avuto una gatta bianca ed erano inseparabili.
Ora viaggiava troppo per poterne tenere uno, disse con un ombra di malinconia, ma le mancavano. La voce della cantante aveva toni piacevolmente bassi, che si facevano a tratti quasi aspri.
– Il signor Pace – spiegò, – ha un gatto di nome Camillo, mi ha promesso che me lo farà conoscere.
Frattanto Lidia aveva notato sotto una palma un uomo biondo che stava chiacchierando con un giovanotto, lo indicò a Marcella.
– Non è la Jolie? – chiese, – Bettina Jolie, quel giornalista che tiene una rubrica di gossip sui quotidiani?
Susanna sembrò sorpresa:
– Ma come, è un uomo? – assunse un’aria falsamente costernata. – E perché fa credere di essere una donna?
– Suppongo per rendere più piccanti i suoi articoli, o perché la cosa lo stuzzica – disse Marcella. – Domani comunque, questa festa, noi, i vestiti che indossiamo, ciò che abbiamo detto e anche ciò che non abbiamo detto, saranno il bersaglio di un suo articolo. Speriamo sia indulgente!
Le signore e Pace presero posto sotto un albero, su delle poltroncine di bambù seguite dall’occhio del giornalista che estrasse un quadernetto dalla tasca della giacca e scrisse qualcosa in fretta.
– Ti è venuta l’ispirazione? – chiese il giovanotto palestrato accanto a lui.
– No, solo un appunto, su una cosa che devo ricordarmi.
In realtà stava scrivendo “Flora Calò, Marcella Bono e Lidia Forleo, tre dame nei loro meravigliosi abiti, sono comparse sul prato come fiori un attimo prima invisibili, sbocciati davanti ai miei occhi, all’improvviso, in tutta la loro bellezza”. Aveva ignorato Susanna Perotti, ma quella contava poco. Chiuse il suo quadernetto e lo intascò soddisfatto. L’adulazione gli era utile, gli permetteva poi di sferrare quelle piccole stilettate maligne che tanto piacevano alle sue ammiratrici, tanto più se non ne erano il bersaglio.
– Mon cher, cosa mi dicevi dei tuoi addominali? – chiese stringendo con una mano il braccio muscoloso del giovanotto. – È vero, non posso giudicare, non ti ho ancora visto in costume, ma rimedieremo al più presto... – Non si curò dell’occhiata perplessa del suo interlocutore.
Nel frattempo era tornata Maria Teresa e si era seduta vicino a Susanna che pareva ben disposta e l’aveva accolta esclamando:
–Brava, stai un po’ qui con noi!
In quel momento Susanna si sentiva parte di una stretta cerchia di privilegiati e continuava a lanciare occhiate verso la cantante, come per catturarne il segreto della fama e del successo.
– Devo lamentarmi con te. Mi avevi promesso di presentarmi quel Luca Gorini, ma non hai mantenuto.
– Chi è questo Gorini? – chiese la cantante. La risposta le era del tutto indifferente, ma voleva dimostrare la sua buona volontà nel partecipare al dialogo.
– Non so se l’ha notato... – le spiegò Maria Teresa, – un uomo molto abbronzato, col garofano bianco sull’abito scuro, alta finanza è di questo che si occupa; credo sia di origine meridionale: messinese, ma poi ha girato il mondo.
– Come me, allora – disse la cantante.
– Ha fatto fortuna in Brasile o Argentina, non ricordo bene – aggiunse Maria Teresa. – Una grande fortuna, a quel che dicono.
– Ed è scapolo, scapolo, scapolo! – esclamò Susanna. – Scapolo, capite? Non è meraviglioso! – Tutte risero. E lei, per un momento, si sentì felice. Era stata spiritosa tenendo testa alle amiche e Flora Calò le aveva rivolto uno sguardo di divertita complicità.
– Chi lo ha introdotto? – chiese Lidia asciugandosi una lacrima.
– Ha conoscenze in curia, forse lo stesso cardinale, certamente don Maniglio. Chissà, forse ha anche ambizioni politiche.
– Quel prete! Ho visto che lo hai invitato – disse Lidia rivolta a Marcella. – Mi fa impressione, anzi a essere schietta mi dà i brividi; così grasso, flaccido, untuoso, sembra un grosso rospo in procinto di scoppiare.
– Quando parla perde le bave – disse Susanna e intanto pensava che doveva ricordarsi l’intera conversazione per ripeterla pari pari il giorno dopo a certi suoi conoscenti. Si scandalizzeranno e schiatteranno di invidia, si diceva, loro se li sognano inviti del genere! Si sentiva soddisfatta di come stava andando la serata e questa disposizione d’animo era per lei abbastanza insolita. Infatti pur tenendo moltissimo alle sue amicizie altolocate, quando veniva a contatto diretto con quel mondo si intristiva. Erano troppo vistosi i privilegi di cui le amiche godevano a piene mani, senza neanche rendersene ben conto. A lei, che a una vita di agi si sentiva così intimamente portata, invece erano negati. Di solito provava un risentimento sordo contro il destino che l’aveva esclusa defraudandola.
Il piacere che ricavava dall’essere invitata, si riduceva in gran parte nel poter poi farsene vanto con le persone di tutt’altra cerchia che frequentava abitualmente. Famiglie di modesti borghesi, piccoli commercianti, gente semplice che un po’ disprezzava, ma che le era indispensabile come uditorio. Le amicizie non si scelgono a caso, ma secondo le passioni che ci dominano e lei aveva saputo individuare e avvicinare gli scontenti del loro stato, gli esclusi dal paradiso della mondanità e della ricchezza. Per costoro, Susanna, con i suoi racconti, sapeva schiudere un mondo di splendori e di raffinatezze nel quale, a sentir lei, era ricercata, voluta e vezzeggiata. Nel descriverlo, un po’ si rifaceva a ciò che sentiva e vedeva in casa delle amiche, ma per lo più inventava senza scrupoli, esagerava con sfrontatezza e impudenza straordinarie. Recitare per gli altri e per se stessa era diventato ormai un vizio del quale non poteva più fare a meno.
Si era distratta dalla conversazione.
– No, basta davvero. Siamo troppo cattive – stava dicendo Maria Teresa. – Parliamo dei belli invece.
– Dei preti belli? – finse di capire Susanna, – la palma la darei al segretario del Papa.
– Avete visto le foto sui giornali di questo segretario, in tenuta da tennis, in pantaloncini corti? – chiese Marcella, – Chissà se è stato scelto per la sua avvenenza...
– Non farmi fare pensieri blasfemi – protestò Maria Teresa.
– Paolo – chiamò Marcella rivolta a un giovane che stava passando e guardava altrove. Lui rispose al richiamo fermandosi a distanza di sicurezza. Era magro, longilineo, e nei suoi pantaloncini corti e maglietta, parve a Pace poco più che adolescente.
– Mio figlio – spiegò Marcella.
– Sera – biascicò il ragazzo senza alzare lo sguardo.
– Dov’eri? Non ti ho visto da nessuna parte, almeno hai mangiato qualcosa? – chiese guardando le spalle ossute del figlio.
– Sì, poco fa in cucina. Posso andare? – Mostrò il libro che stringeva tra le mani, come per giustificare la sua fretta.
– Mi esaspera – commentò Marcella mentre il figlio si allontanava. – Io do una festa e lui non si fa vedere. Gli avevo detto che poteva invitare chi voleva, compagni di scuola o amici, sempre che ne abbia, con il carattere che si ritrova... Niente da fare, lo avete sentito anche voi, ha mangiato qualcosa in cucina. A volte devo tenermi per non... Ha diciotto anni, ma è ancora così selvatico. Tutto libri e computer e quell’aria da giudice poco benevola. Va d’accordo solo con Sveto, con lui parla, chissà perché?
– Vedrai che bel giovanotto si farà – disse Susanna, – ha un aspetto così romantico e infelice. Farà strage di cuori.
– Infelice? – ribatté Marcella piccata, – non so proprio come possa essere infelice. Ha tutto, tutto, e sembra sempre che gli manchi qualcosa.
Pace chiese scusa alle signore e si allontanò. Attraversò un prato aggirandosi tra gente che non conosceva; per quanto, qua e là, vi fosse qualche faccia da rotocalco. Riconobbe una biondissima stellina televisiva e uno scrittore di una qualche fama. Due calciatori, appartenenti alle opposte squadre cittadine, chiacchieravano tra di loro amichevolmente. La Jolie li aveva individuati e cercava di avvicinarli veleggiando verso di loro e pilotando con sé la gran mole di don Maniglio.
Pace sentì che diceva:
– Stavamo per cadere tra le grinfie della Gatti. Dio ci scampi! Vuole essere lei il nuovo sindaco di Genova e tormenta tutti. Se ci riesce siamo rovinati.
– Non le piace? – biascicò don Maniglio.
– Oh, sì, moltissimo. È intelligente, tenace, ma è anche una gran stancacervelli. Sa tutto, ha un opinione su tutto e te la vuole dare. È implacabile.
Due ragazze ballavano tra di loro soffocando le risate, un ragazzo dall’aria infelice le guardava. Forse si burlavano di lui. In lontananza si udivano scoppi di voci e lo strimpellare di una chitarra. Passando in una zona poco illuminata gli arrivò un’implorazione accorata:
– Io ti amo, perché tu non mi ami?
Ma non vide chi poneva la domanda e neppure a chi era diretta. Avanzando, le luci diventavano più festose, i gruppi si formavano e scioglievano con più facilità, le voci erano meno educate. C’era animazione. Una ragazza passava da un gruppo all’altro come una falena impazzita, rideva di un riso incontrollabile e gesticolava troppo. Un’altra in mezzo al prato, si era tolta le scarpe e ballava da sola con movenze da ballerina classica.
Ballava e piangeva sotto la luna alta in cielo. Si sentirà una Fracci o una Isadora Duncan, pensò Pace. Troppo champagne. Man mano che la festa si faceva più allegra, sulla pista da ballo, le donne diventavano sentimentali e aggressive con i loro cavalieri. Una di esse ballando avvinghiata, cercava di togliere la camicia al suo uomo. Era già riuscita a sbottonargli il colletto e due lembi di seta bianca fuoriuscivano dai pantaloni. L’uomo si difendeva come poteva riallacciando i bottoni, cercando di schivare le mani di lei. Ma la donna cominciava da capo.
Una signora massiccia, non più giovane, molto alta e con una specie di pennacchio in testa, reggeva nella mano destra una coppa che gli parve più grande di quelle che aveva visto circolare sinora; con l’altra, servendosi di un dito come di un punteruolo, colpiva lo sparato bianco di un uomo all’altezza del cuore.
– Questo a me non dovevi dirlo! No, non a me! – ripeteva.
Si vedevano già uomini in manica di camicia con la faccia paonazza e ogni tanto un convitato, non sapeva resistere, mandava all’aria le convenzioni e pieno com’era di champagne andava ad alleggerirsi all’albero più vicino.
– All’una ci sarà una spaghettata – gridò uno studentello a dei giovani che stavano fotografandosi a vicenda col cellulare, – lo diceva poco fa un cameriere.