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«La ragazza che ho rimorchiato ieri sera stamattina si è svegliata, si è girata, mi ha guardato e ha detto: “Oh, grazie a Dio sei fico”. Poi è tornata a dormire».
Sebastian
«Credevo che avessimo già stabilito che non sono la tua tutor».
La ragazza è china, bloccata sul suo libro di testo, l’evidenziatore sospeso sopra il margine destro. Non ha ancora alzato lo sguardo, ma almeno mi ha riconosciuto prima che io prendessi misure drastiche come schiarirmi la voce o bussare sul tavolo.
Questo lo definisco un progresso.
«Giusto. Questo l’ho capito la prima volta che sono venuto qui».
Il suo evidenziatore fluo rimane immobile, sospeso sopra il libro aperto a ventaglio davanti a lei. Lo clicca una volta per chiuderlo, toglie un auricolare e lo tiene sospeso in aria come se aspettasse che io dica qualcosa. «C’è qualcosa che posso fare per te?».
Inclina la testa di lato, in attesa, ascoltando ma continuando a studiare.
Decido di rischiare tutto: «Ho bisogno che mi baci».
Nulla.
Nessuna reazione.
Nessun rifiuto, nessun rossore sulle guance, nessun commento.
Come se questo genere di cose le capitasse regolarmente.
«Vuoi guardarmi, dannazione?».
Questo aziona il meccanismo, attira la sua attenzione.
Alza la testa, la lunga coda di cavallo castana cade a cascata sulla spalla destra, elegante e sofisticata.
I suoi occhi sono di un blu brillante, le ciglia lunghe.
I nostri sguardi si incontrano.
Si uniscono.
I battiti cardiaci martellano.
Potrei buttare lì qualunque fottuto cliché… sarebbero tutti fastidiosi, ma eccoci qui.
Lei mi sta guardando con diffidenza, quegli occhi blu si stringono in modo scontroso.
L’agitazione fa allargare le sue narici.
Molto poco promettente.
Liquidandomi dopo un lungo periodo di silenzio, rimette a posto il suo auricolare, abbassa la testa e con l’evidenziatore riprende i tratti costanti e senza sforzo sulla pagina distesa davanti lei.
«Sei ridicolo», mormora con un distaccato gesto del polso. «Torna dai tuoi amici».
«Non posso». Tanto vale essere brutalmente onesto, lo apprezzerà. Sembra proprio che questa sia qualcosa che abbiamo in comune: zero tolleranza per le stronzate.
Posso lavorarci su.
Lei tira su la testa e alza gli occhi al cielo. «Non puoi tornare indietro? E questo cosa vorrebbe dire?».
Faccio un sorrisetto, prevedendo la bomba che sto per sganciare. «Scusa, tesoro, è impossibile. Sono qui in missione e non posso tornare finché non sarà compiuta».
Alzo le mani disperatamente, implorante.
«Prima di tutto, non chiamarmi mai più “tesoro”. Sono una sconosciuta per te. Seconda cosa, non sono interessata a qualunque gioco tu e i tuoi amichetti stiate giocando. Ho del lavoro serio da fare qui, quindi…».
La ragazza mette giù l’evidenziatore giallo, fruga tra le penne posate sul tavolo e sceglie un pennarello blu. Qualunque sia la cosa alla quale sta lavorando, ha la sua completa attenzione e ci ritorna come se io non fossi qui a pressarla, in tutto il mio metro e ottantasette.
Nonostante io non sia attratto da lei nel modo in cui lo sarei, diciamo, da qualcuna che mi sbatterei, il competitivo atleta di alto livello che è in me rifiuta di muoversi da questa posizione; piuttosto, cerco una nuova strategia. Mi metto più vicino alla sua sedia, una grande mano poggiata su un angolo del tavolo di legno. A pochi centimetri dal suo pc, invadendo il suo spazio personale, le mie grosse dita picchiettano l’angolo della scrivania, ne accarezzano lentamente la superficie. Qualche altra carezza e tiro fuori la sedia accanto a lei, consapevole che i miei compagni di squadra mi stanno guardando dall’altro lato della stanza.
Stronzi ficcanaso.
Le gambe della sedia raschiano contro il vecchio parquet, facendo scattare più di una testa nella nostra direzione.
Mi ci siedo a gambe divaricate, incrociando le braccia sullo schienale, e la affronto a testa alta.
Il capo inclinato di lato mentre copia gli appunti dal laptop, scrivendoli sul foglio. La prima cosa che noto quando porta la coda di cavallo errante dietro la sua spalla è la pelle liscia nella curva del suo collo, poi i piccoli bottoncini di diamanti ai suoi lobi.
Osservo la stoffa morbida del suo cardigan, e so che è morbida perché sono abbastanza sicuro che l’ultima ragazza della confraternita femminile che mi sono scopato avesse lo stesso maglioncino. È l’uniforme delle donne collegiali altezzose.
Questa ragazza è di gran classe.
E mi sta anche palesemente ignorando.
La guardo per qualche altro minuto mentre lei continua a copiare gli appunti presi in classe dal laptop al suo taccuino a spirale, ignorandomi.
«Perché stai ricopiando appunti che hai già preso?».
Un lungo, rumoroso sospiro. «Ripetizione. Così posso memorizzarli».
Mmh. Non è una cattiva idea.
Forse lo proverò qualche volta.
«Il mio nome è Oz, comunque». Le offro un sorriso abbagliante, la bocca piena di scintillanti denti perfettamente dritti che hanno fatto cadere perizomi, mutandine e culottes in tutto il campus… e, a dirla tutta, anche in parecchie altre università.
Chi sono io per discriminare?
Ancora, la ragazza non dice nulla.
«Oz Osborne», ripeto, nel caso in cui sia dura d’orecchi, dato che ancora non mi sta rispondendo. Porca. Vacca. E se è sorda e può solamente leggere il labiale?
Attendo che il mio nome venga riconosciuto, aspetto un sopracciglio che si alzi o le guance che arrossiscano. Attendo qualunque segno che indichi che mi abbia sentito nominare, lo hanno fatto tutte. Ma il mio saluto incontra un silenzio sgradevole e assordante, quindi davvero o non ha mai sentito di me, o sta facendo la fica, o non può sentirmi, oppure semplicemente non gliene frega un accidente.
Scratch, scratch, scratch, continua la penna sul suo foglio.
In imbarazzo, sono bloccato al suo dannato tavolo da studio, mentre i miei amici mi fissano come ebeti da lì vicino; l’autocompiacimento di Zeke è visibile attraverso la sala. Le braccia incrociate, è appoggiato sulla sua sedia, una matita infilata dietro l’orecchio. Anziché studiare, sta a guardare come se io fossi un fenomeno da baraccone.
Il suo sopracciglio arrogante e arrabbiato si solleva.
Non importa, ho tutto sotto controllo. Nessuna pollastra altezzosa mi guarderà dall’alto in basso: io sono Sebastian Osborne, cazzo.
Imperterrito, mi schiarisco la gola e provo di nuovo.
«Comunque, come stavo dicendo, mi chiamo Oz. Piacere di conoscerti».
Appoggio il gomito sul bordo del tavolo, il petto sospeso pericolosamente vicino al suo spazio personale. Alzo la voce e scandisco le parole… nel caso in cui sia sorda e non possa sentirmi.
«Vedi quel gruppo di ragazzi laggiù?», inclino la testa verso il tavolo occupato dai miei compagni di squadra: mi stanno incitando con dei gesti volgari. Raffinati. «Ripensandoci, non guardare. Sono degli stronzi».
La ragazza tira su col naso.
«Inoltre, pensano che tu non mi bacerai». Ogni parola risuona chiara come una campana, abbastanza forte da attirare la sua attenzione.
«Prima di tutto, abbassa la voce». Alza gli occhi ma tiene la testa bassa, continuando a scrivere. «E, seconda cosa, i tuoi amici hanno ragione. Io non ti bacerò».
«Ah! Bene… allora non sei sorda. Stavo iniziando a spaventarmi».
La sua testa scatta in su. «Oh mio Dio, cos’hai appena detto?».
«Ho pensato per un attimo che fossi sorda e che per questo mi stessi ignorando».
«Sei un idiota insensibile». L’espressione sconvolta sul suo viso la dice lunga, il suo tono è inorridito quando apre le labbra per dire: «Posso sentirti, annusarti… caspita! Persino vederti! Ti sto ignorando al cento per cento».
«Mi sono presentato quattro volte».
Alza gli occhi. «Non ti hanno mai detto di non dar retta agli sconosciuti?».
«Ho lasciato il mio furgone bianco per i rapimenti al covo di tossici, quindi sei salva… per adesso».
La risposta arguta cattura il suo interesse e alza di nuovo la testa, incredula. Due occhi scintillanti incontrano i miei per la seconda volta da quando ho sequestrato il suo tavolo, valutandomi nello stesso modo in cui io l’ho studiata: con consapevolezza, curiosità e… umorismo.
È divertita da me, si vede.
«Sei alquanto assurdo, ma… divertente». Fa una pausa. «Oz».
«Grazie? Credo…».
«Allooora…», la ragazza picchietta la penna sullo spigolo della scrivania, strizza gli occhi verso un angolo del monitor del suo pc, e mi guarda ansiosamente. «Abbiamo finito qui, giusto? Si sta facendo tardi e non mi rimane molto tempo per studiare».
Io mi schiarisco la gola. «Solo un bacio e ti lascerò in pace».
«Quale parte del “no” non ti è arrivata? Il tuo cervello da atleta non ha imparato questa parola?», la sua voce è misurata, bassa, come se io non parlassi la sua lingua.
«Tecnicamente non hai mai detto di no».
Mi fissa, senza espressione.
Io persisto. «Che ne dici di uno piccolo? Solamente un bacetto veloce sulle labbra. Senza lingua».
Continuo a scherzare senza la minima traccia di un sorriso sulla sua faccia.
«Va bene». Rido. «Un po’ di lingua».
Lei posa la sua penna e intreccia le dita, gli occhi blu fiammeggiano. «Basta».
Una parola.
Basta.
Nemmeno io sono talmente stupido da insistere.
Bene, insisterò, ma solo un pochino. «Dai pupa. Non farmi tornare lì con questa lunga coda tra le gambe».
Alla mia illusione, il suo sguardo acuto guizza velocemente tra le mie gambe, atterra sul cavallo dei jeans e si allarga, prima di sorprendersi a farlo. Se non me ne fossi accorto io, avrei pensato di averlo immaginato.
Le sue labbra si contraggono.
La ragazza allunga un braccio e prende gli occhiali dalla sua testa, li poggia sul suo elegante naso e lancia un’occhiata sdegnosa attraverso la sala, verso il tavolo pieno di compagni di squadra.
«So come deve apparire tutta questa cosa, ma ti giuro, le mie intenzioni sono onorevoli. Stiamo solo provando a divertirci un po’, no? Niente di male a…».
«Onorevoli?», gli auricolari rosa stanno ancora penzolando dalle sue orecchie, quando allunga una mano e li toglie, facendoli cadere sul laptop. «Un po’ di divertimento? A spese di chi?».
Parlando di spese, sto per perdere cinquecento bigliettoni alla mossa della sua mano che si alza per bloccare la mia risposta.
«Dimmi: vieni qui, provi a ottenere un bacio per Dio-solo-sa-quale-ragione, e io dovrei essere lusingata dalle tue attenzioni? Per favore. Chi ti credi di essere?».
Apro la bocca per dirglielo, ma mi interrompe.
Di nuovo.
«Vinci qualche status speciale? Una targa con il tuo nome sopra, forse? Il posto auto principale alla sede della confraternita per il mese di settembre?».
Vuole che io sia diretto? Bene. «Non sono in una confraternita, ma sì, vinco sul serio qualcosa: ricevo cinquecento dollari se mi baci e, onestamente, potrebbero davvero farmi comodo quei soldi».
Adesso è appoggiata alla sua sedia, bilanciandosi come un bellimbusto. «Ah, quindi hai interrotto la mia ricerca per comportarti come un imbecille con uno scherzo. Per soldi».
«Sì, praticamente». Alzo le spalle. «Cinquecento dollari sono cinquecento dollari».
Abbiamo infine una resa dei conti, guardandoci a vicenda con evidente interesse. Fa poco per nascondere l’esame che fa al mio corpo, una mascherata espressione che è indecifrabile mentre comincia dai miei stivali e procede verso sopra.
So quando i suoi occhi colpiscono la superficie piatta dei miei addominali scolpiti. Sento quando corrono pigramente sulle mie spalle e esitano quando guizzano sulle gambe aperte, sul cavallo dei jeans.
Lunghe e scure ciglia ricoperte di mascara nero, sbattono. La pelle chiara e perfetta arrossisce. Le sue labbra, non posso fare a meno di notare, sono contratte ma piacevolmente piene.
Maledettamente carina, eccetto per il fatto che sono completamente incapace di dire cosa stia pensando.
«Hai una bella faccia di bronzo, lo sai?».
«Grazie».
Mi chino. «Come ti chiami?».
Alza al cielo gli occhi blu.
Con indifferenza, io stringo le spalle. «Se non me lo dirai, dovrò insistere a chiamarti “bibliotecaria sexy”».
I suoi occhi fanno un giro sulle mie spesse braccia piegate sullo schienale della sedia, l’intera manica tatuata.
«Vedi quella donna laggiù con lo chignon grigio e il cardigan che sta catalogando i dizionari? Quella è la bibliotecaria».
Adesso sono io ad alzare gli occhi. «No cazzo, lei lo sembra… ma se facciamo un paragone, ti mancano i capelli grigi, l’espressione dura e gli occhiali da nerd».
Tocca con le mani la montatura che circonda i suoi occhi blu.
«Non importa, ne centri due su tre. Una tripletta di repressione sessuale».
«Io non sono sessualmente repressa».
Alla base del mio spesso collo, fingo di avere una collana attorno alla gola e tocco una perla immaginaria. «Magari mi ha ingannato…».
Lei socchiude gli occhi. «Se questo è il tuo modo di provare a essere affascinante, stai fallendo miseramente. Pensavo che stessi provando a baciarmi».
«Questo significa che ci stai pensando?».
Riflette, scegliendo la penna e disegnando dei piccoli cerchi sul suo taccuino. «Ti sorprenderebbe se dicessi di sì, non è così?».
Io ridacchio. «Sì».
«Aspetta… voglio ricordare il momento in cui pronuncio le parole». Strizza gli occhi su di me, come se stesse scattando una foto nella sua mente, poi dice lentamente: «Sì, ci sto pensando».
Non. È. Ciò. Che. Mi. Aspettavo.
Fa sul serio questa tipa?
«Davvero?», mi lascio sfuggire, le sopracciglia piantate all’attaccatura dei capelli. «Non mi stai solo prendendo per il culo?».
Alza le spalle. «Sicuro, perché no? Mi farebbero comodo trecento dollari».