CAPITOLO UNO
CAPITOLO UNO
«Siamo arrivati.»
Piedi strascicati si fermarono davanti a una porta rinforzata. Una singola torcia lanciava una luce tremolante sulle pareti di pietra grezza macchiate di muffa scura. La torcia era stata imbevuta di una resina aromatica chiamata galbanum che, quando accesa per la prima volta, sprigionava un odore pungente e particolare. Dopo aver bruciato per qualche minuto la resina comunque si addolciva in qualcosa che ricordava le mele e i sempreverdi. Ma persino il dolce fumo non riusciva a mascherare l’aria nel tunnel, che era malsana, spiacevole come se avesse assorbito l’oscurità che premeva da tutti i lati.
Il Numeratore con la torcia sollevò la fiamma per esaminare la porta più da vicino, quindi fece un cenno di assenso. Il suo viso era tutto dure pianure e angoli, anche se non parevano calzare, come le pareti di una casa costruita in modo grossolano. Capelli castani che si andavano diradando ricadevano su una fronte alta, pallida.
«Ne sei sicuro?» domandò l’altro uomo. «Questa sezione è murata da decenni.»
«Ne sono sicuro.» Un dito elegante seguì la linea dei cardini. «Vedete? Non ci sono segni di ruggine. Controllate la mappa voi stesso, Gerarca. Questo è il posto.»
Il labirinto di tunnel sotto il distretto del tempio di Karnopolis era stato usato per molte cose nel corso degli ultimi mille anni. Se gli invasori arrivavano per bruciare e saccheggiare, come spesso facevano agli albori della città, i magi si nascondevano lì fino a quando non era sicuro uscire. In seguito, i tunnel erano serviti come cantine per il vino, covi per contrabbandieri e, naturalmente, sotterranei.
Ma la pace ormai regnava da più di due secoli. Gran parte dei condotti era caduta in disuso, e pochi ricordavano anche soltanto la loro esistenza. Rimaneva solo un prigioniero. Si trovava lì da moltissimo tempo. In effetti, avrebbe dovuto morire decenni prima e nessuno sapeva per certo perché non lo avesse fatto, anche se c’erano dei sospetti. Il prigioniero era al tempo stesso temuto e compatito, una reliquia dei tempi della guerra lasciata in silenzio a raccogliere polvere nell’oscurità. Se pensavano a lui, era principalmente per domandarsi quando sarebbe perito in modo da risparmiare loro l’umiliazione del suo sostentamento.
I due Numeratori all’esterno della cella erano le prime persone oltre ai suoi carcerieri a essere andate a trovarlo negli ultimi tempi. Cibo e acqua arrivavano due volte al giorno attraverso uno spazio nella pesante porta di quercia, e un secchio con i rifiuti veniva portato via, ma il prigioniero non parlava da una generazione, salvo per richiedere alcuni oggetti innocui, come penne e pergamene, a cui nessuno si opponeva. Fino a poco tempo prima, soltanto il Re e un manipolo di magi sapevano che era ancora vivo. Era stato uno di loro, un tempo, di conseguenza si trattenevano dall’ucciderlo subito. Sarebbe stato considerato un peccato agli occhi del Sacro Padre. Il prigioniero aveva anche una certa conoscenza arcana che si rifiutava di condividere, perciò era prudente tenerlo in vita nell’eventualità che un giorno ne avessero avuto bisogno.
Quel giorno era arrivato.
«È davvero necessario?» domandò il Numeratore più anziano. Era il capo dell’ordine ed era un uomo duro, ma il pensiero di vedere il prigioniero gli faceva tremare la voce.
«Se dobbiamo occuparci di lui, sarebbe saggio assicurarci prima delle sue condizioni», replicò l’uomo più giovane, il cui nome era Araxa.
«Lo so», sbottò il Gerarca. «Ma non trovi strano che viva ancora?» Fece il segno della fiamma, toccandosi la fronte, le labbra e il cuore. «C’è della magia oscura all’opera.»
«Deve esserci un collegamento con il bracciale che indossa», disse Araxa. «Mi hanno assicurato che lo fa restare tranquillo. Se avesse potuto liberarsi, lo avrebbe fatto anni fa. Non nego che sia pericoloso. Ecco perché dobbiamo toglierlo ai magi prima che la loro incompetenza provochi un altro disastro.»
Il Gerarca annuì con la sua testa canuta. «È una benedizione che il Re ci abbia incaricato di epurare i magi dai traditori. Probabilmente ne sono infestati da anni.»
I Numeratori di Karnopolis disprezzavano i magi, e il sentimento era reciproco. Come capo delle spie del Gerarca, ad Araxa era stato assegnato il compito di condurre quella purificazione. Una delle sue prime decisioni era stata di ordinare il trasferimento del prigioniero affinché fosse affidato ai Numeratori. Era stato sorpreso nello scoprire che il vecchio vivesse ancora, sia perché non avrebbe dovuto essere possibile sia perché Araxa viveva di segreti. Aveva degli informatori tra i magi, eppure nessuno gliene aveva mai fatto parola. Era stato soltanto dopo che due Purificati avevano sfacciatamente rubato il Sacro Fuoco che il Re aveva rivelato la verità. Negli ultimi duecento anni il Profeta Zarathustra era stato – abbastanza alla lettera – sotto il loro naso.
«Per quando avrò finito, i magi ci saranno riconoscenti se gli permetteremo di tornare strisciando ai loro villaggi insignificanti», disse Araxa. «Il loro potere sarà infranto e ai Numeratori sarà dato pieno controllo anche sui daeva. Allora potremo liberarci di loro nel modo che riterremo giusto.»
Il Gerarca aggrottò le sopracciglia nel sentire quelle parole. «Ma abbiamo bisogno dei daeva affinché combattano per noi.»
«Soltanto per sconfiggere i Druj una volta per tutte. Che servano pure al loro scopo e tornino all’inferno da cui provengono.» Fece un sorriso furbo, da rettile. «Potranno anche guarire velocemente, ma non sono immuni a una pugnalata al cuore. O al fuoco.»
«Forse.» Il Gerarca agitò una mano dove affioravano vene bluastre. «Non ci sono guardie?»
«Non ve ne sono da cento anni. Dicono che non abbia mai provato a fuggire. Nessuno neanche ricorda che questi tunnel esistano, Vostra Eccellenza. E un uomo potrebbe vagare nell’oscurità per settimane senza trovare una via d’uscita.»
«Rimane comunque uno stupido rischio.»
«Come dite voi. In ogni caso, sarà presto una questione irrilevante. Sono d’accordo sul fatto che non possa essere lasciato qui sotto. Non con quegli eretici adoratori del diavolo a piede libero, e con quei traditori tra le file di coloro che dovrebbero essere i suoi custodi.»
Il Gerarca si schiarì la gola con un umido harrumph. «Facciamola finita. Apri.»
Araxa estrasse una rozza chiave di bronzo e fece scattare la serratura. Spinse la fiamma attraverso la porta, aspettandosi oscurità, ma la camera al di là della soglia era illuminata dalla luce delle candele. Un materasso di paglia era stato spinto contro una parete di pietra. Il Gerarca arricciò il naso all’odore che arrivava dalla prigione, stantio e animalesco e di cera. Si strinse nelle immacolate vesti bianche e sbirciò oltre la spalla di Araxa con morbosa curiosità. In quale stato si sarebbe trovato il prigioniero dopo duecento anni in una cella senza finestre? Gli erano state offerte occasioni per pentirsi, per tornare sui suoi passi. Ma Zarathustra era un uomo ostinato. E a quanto pareva anche pazzo.
Araxa prese un respiro veloce alla scena davanti a lui.
«È un miracolo che non sia bruciato vivo», disse. «I magi sono stati davvero folli ad assecondarlo così.»
Mucchi di pergamene torreggiavano dal pavimento al soffitto, molte delle quali a pochi centimetri di distanza dalla fiamma delle candele. Una parete era dedicata a carte dei cieli, frutto dei ricordi. Un’altra era ricoperta di diagrammi incomprensibili, mentre la parte vicino alla porta consisteva in schizzi di capre, alcune con dei disturbanti occhi umani. Non vi era né capo né coda. Era la cella di uno squilibrato.
Araxa sapeva che il vecchio ai suoi tempi era stato considerato un genio, un inventore e un alchimista. Ironia della sorte, aveva persino progettato il bracciale d’oro che lo teneva intrappolato lì dentro.
«Ho finito l’inchiostro», disse una voce tremante. «Mi avevate promesso l’inchiostro due mesi fa. Me lo avete portato?»
I Numeratori si scambiarono un’occhiata. «Mi assicurerò che sia fatto», rispose Araxa con tono rassicurante, senza avere la minima intenzione di accontentarlo.
Il Profeta Zarathustra, ritenuto morto dal mondo intero, tornò a dedicarsi alla pergamena che aveva tra le ginocchia. Con un’unghia sporca, frastagliata ne grattava la superficie, tracciando simboli intricati su di essa, i lunghi capelli grigi come ragnatele lungo il viso. Nel giro di pochi istanti sembrò aver dimenticato che ci fosse qualcun altro con lui.
«Vedete?» disse Araxa. «Non ci causerà alcun problema.»
«Fai i preparativi», disse il Gerarca. «E brucia queste carte una volta che sarà stato portato via. Potranno non avere senso, ma potrebbero portare a domande che non vogliamo abbiano risposta. In quanti sanno della sua esistenza?»
«L’Alto Magus di Karnopolis, naturalmente. Il Re e i suoi consiglieri più vicini. Un manipolo di magi che si occupa dei suoi bisogni giornalieri.»
«Metti questi ultimi sulla tua lista degli interrogatori», disse il Gerarca. «Non sarei sorpreso se avessero dei legami con i cosiddetti Seguaci.»
«Ci sono già», rispose Araxa. «In cima.»
«Bene.» Il Gerarca lanciò un’ultima occhiata al prigioniero, scosse la testa per il disgusto, e uscì dalla cella, con Araxa dietro di lui.
La porta rinforzata fu di nuovo chiusa a chiave. Araxa sollevò la torcia e insieme ripercorsero i loro passi nell’oscurità.
Nel complesso, il capo delle spie era soddisfatto della situazione. Era stato preoccupato che il Gerarca fosse troppo vecchio e debole per fare ciò che era necessario, ma la cosa non importava più visto che aveva ceduto a lui l’autorità sull’intera faccenda.
«Ti uniresti a me per un bicchiere di vino nel mio studio?» gli domandò il Gerarca quando raggiunsero il passaggio finale che conduceva fuori dal labirinto. «Allevia la mia artrite.»
Araxa sorrise. Pensieri di veleno danzarono nella sua testa, ma il momento non era ancora quello giusto. «Ne sarei onorato, Vostra Eccellenza.»