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2035 Parole
1 “Hanno cercato di cenare e filarsela senza pagare il conto, ma il cameriere è saltato sul cofano della loro auto e ha rotto il parabrezza.” RHETT «Brindiamo al pivello!» Oz Osborne, un veterano della squadra di wrestling, si alza in piedi al tavolo attorno a cui la squadra è riunita. Tutta la squadra, infilata nella sala da pranzo di un qualche ristorante a orario continuato fuori dal campus, per quella che definiscono una cena di “benvenuto in squadra” dopo l’allenamento. «Su, su! Un brindisi» urla qualcun altro ridacchiando. Osborne solleva il bicchiere d’acqua in aria, inclinando il corpo nella mia direzione e parlando direttamente a me. «Pivello, potremmo mettere in dubbio le decisioni della tua vita sulla base della tua scelta dei coinquilini,» lancia un’occhiata e un ghigno a Rex Gunderson ed Eric Johnson, «e alla tua capacità di vestirti, ma, in puro stile dell’Uni dell’Iowa, ti diamo ufficialmente il benvenuto in squadra.» Alza ancora di più il bicchiere. «Alcuni avevano delle riserve sul fatto di averti tra noi,» getta uno sguardo rapido in direzione di Zeke Daniels, che lo ricambia subito con un’occhiataccia, «ma ti guardiamo le spalle.» «E il davanti» giunge un urlo. «Finché non inizi a perdere» aggiunge qualcun altro sottovoce. Osborne ridacchia e mi indica. «Ha ragione. Se inizi a perdere, ti cacciamo a calci nel culo.» Altre risate. «Non dovremmo solo brindare al prenderlo a calci in culo?» «Alzate tutti il bicchiere per il Pivello e sbrigatevi. Io e Daniels dobbiamo filarcela, il suo fratellino ha una recita a scuola o qualche altra stronzata del genere.» La stanza si riempie di urla e grida di esultanza da parte dei miei nuovi ed eccessivamente turbolenti compagni di squadra che bevono entusiasti acqua, soda e tazze di caffè attorno al tavolo coperto di lino, i liquidi che si versano sulle tovaglie bianche. Un’enorme quantità di cibo invade il lungo tavolo da banchetti: pasta, hamburger, antipasti, patatine fritte, bottiglie di ketchup e senape. Alcuni hanno ordinato milkshake e caffè speciali, e c’è anche del gelato. Impreco sottovoce: che branco di lavativi. Abbasso lo sguardo sul ketchup accanto alla mia forchetta e al cucchiaio. «Torno subito» borbotto a Gunderson, spingendo indietro la sedia e alzandomi. «Devo pisciare.» Lui annuisce con un sorrisino, gli occhi che saettano attorno al tavolo. «Fa’ con comodo.» Mi sbrigo a fare una pisciata, mi lavo le mani e mi guardo allo specchio. Noto il mio volto cupo e senza sorriso. I lividi. I capelli a cui farebbe bene un taglio. Le orecchie che sono state schiacciate fin troppe volte dal caschetto negli ultimi anni. Afferro il ripiano con le mani e mi appoggio in avanti. «Che cazzo ci fai qui, Rabideaux?» si chiede il riflesso. «Che. Cazzo. Ci. Fai. Qui?» Che cazzo mi ha posseduto per farmi cambiare scuola quando avrei potuto restare in Louisiana? Concludere la stagione da campione, iniziare una carriera invece di far agitare e deludere i miei genitori, abbandonare le mie radici, trasferirmi mezzo paese più in là. Per cosa? Una borsa di studio più sostanziosa? Più spese pagate? Per avere una faccia che nessuno vorrebbe vedere stampata sui cartelloni universitari? Ne è valsa la pena? Mi do un’altra severa occhiata, disgustato, prima di raddrizzarmi. «Pazzo da legare, ecco cosa sei.» Impreco contro me stesso un’ultima volta prima di buttare l’asciugamani di carta nel cestino. Apro la porta metallica del bagno e la attraverso, spingendola. Torno verso il tavolo pieno di… Nessuno. Mi ritrovo in una sala da pranzo piena di tavoli vuoti, a parte un paio di tavolini laterali e passanti incuriositi, famiglie e altri clienti che mangiano, ma nessun lottatore di wrestling. Tutta la cazzo di squadra è sparita. Mentre mi avvicino con cautela al tavolo, la nostra giovane cameriera compare dal nulla, blocchetto in mano, matita dietro l’orecchio, spossata. Mi afferra dalla manica della maglietta e: «Grazie a Dio è ancora qui! Meno male! Pensavo ve ne foste andati tutti!» «In che senso pensavi ce ne fossimo andati tutti?» Do un’occhiata alla porta. «Un momento, i miei amici se ne sono andati?» Quasi mi strozzo con la parola amici, non mi sfugge l’ironia della situazione. Degli amici non ti farebbero una stronzata del genere, e questi tizi li conosco a stento. «Sì, sono scappati fuori; ero letteralmente sul punto di dare di matto, ho pensato che di sicuro ve ne foste andati senza pagare.» Continua a parlare, ignara della mia confusione. «Aspetta un attimo: che vuol dire che sono scappati fuori?» Ho bisogno che me lo spieghi senza mezzi termini. «Be’, uh, vuol dire… già. Sono, uh, scappati fuori.» «So cosa significa scappare, non dicevo in senso letterale.» Mi infilo le dita tra i capelli e li sento drizzarsi quando le ritiro. «Cazzo.» La ragazza sobbalza. «Mi hanno davvero mollato?» chiarisco. «Sei sicura che se ne siano andati?» Mi rifiuto di credere che mi abbiano lasciato qui. Dovremmo essere una cazzo di squadra. Ci contavo. Quel coglione di Brandon Ryder mi ha portato qui con la sua merda di macchina disastrata, e scommetterei cinquanta dollari che non è più posteggiata fuori ad aspettarmi per riaccompagnarmi alla casa che divido con Gunderson ed Eric. La minuta cameriera mi batte nervosamente un dito sulla spalla. «Uh, odio dover peggiorare la situazione, ma, uh… presumo che, dato che è ancora qui, sia lei quello che paga.» «Scusa, cosa?» «Pagare. Per tutto il cibo.» Ha appena detto pagare per tutto il cibo? Scuoto la testa involontariamente. «Che significa tutto il cibo?» «Non hanno pagato. Per, uh, niente di quello che avete preso.» «Scusa, cosa?» «Sta bene, signore?» chiede la cameriera, facendo un passo indietro. «Continua a ripetere le stesse cose. Sta avendo un ictus? O forse un attacco epilettico?» «Non hanno pagato?» Stringo i pugni. «Quei cazzo di…» Stronzi. Quei cazzo di stronzi mi hanno mollato col conto da pagare. «Quant’è?» Cerco di prepararmi a sentire il totale, calcolando che sarà attorno ai cento, magari duecento, massimo due e cinquanta. «Quattrocentot…» «Cosa!» urlo. So che è troppo forte e che il ristorante è pieno di gente, ma non me ne frega un cazzo al momento. Offeso e incazzato non si avvicinano nemmeno a descrivere le sensazioni che mi scorrono nelle vene al momento. Vorrei prendere qualcosa a pugni. «Perché cazzo hai lasciato che si alzassero e se ne andassero da qui?» So che sto facendo scaricabarile, ma non mi interessa. Non mi importa che non sia colpa sua. Mi serve qualcuno da incolpare, e lei è proprio davanti a me, a torcersi le mani con aria colpevole. «Signore, sono scappati, io…» «Shh, smetti di parlare. Lasciami pensare per un minuto.» «Sono così nervosa, mi dispiace: nessuno se ne è mai andato lasciando un conto così alto prima. Di solito è, insomma, molto meno di così. A volte la gente si porta perfino saliera e pepiera.» Il suo guardo saetta sulla porta d’acciaio che presumo sia della cucina, poi va alla cassa vicino alla porta dove abbiamo atteso per il tavolo quando siamo entrati. «Potrei andare a parlare con la direttrice e spiegarle la situazione, ma ho paura che chiamerebbe la polizia.» La polizia? Merda. Scuoto la testa, passandomi di nuovo la mano tra i capelli spettinati. «Lascia perdere, qualcuno deve pagare o ti licenzieranno.» Perché hai lasciato che si alzassero e se ne andassero senza pagare quel cazzo di conto. «Mi dispiace davvero.» «Anche a me.» «Allora…» Strascica i piedi, mi passa la cartellina nera che contiene il conto e una penna a sfera. «È tutto scritto in dettaglio.» Che pratico, ovvio che è tutto in dettaglio. «Per comodità?» Furente, le strappo il conto dalle mani, lo apro e lo esamino. Shake – 5 Soda – 10 Hamburger – 4 Cheeseburger – 2 Sandwich al pollo – 1 Gamberi Alfredo con gamberi extra – 1 Insalata di contorno – 4 Zuppa – 3 Spaghetti – 1 Ali di pollo – 5 Anelli di cipolla – 1 Bastoncini di Mozzarella – 1 Cetriolini fritti – 1 Cestino di pane – 1 Gelato – 1 Crostata – 9 Bistecca – 6 Chi cazzo ordina bistecche in una Pancake House? Piego il conto in due, resistendo alla tentazione di strapparlo in un milione di pezzettini del cazzo. «Quei ragazzi erano suoi amici?» mi interrompe la piccola cameriera. «Magari non si sono resi conto che era ancora qui?» Le lancio un’occhiata: ma è couyon? Pazza? Non è possibile che creda che sia stato un incidente, e dico a voce alta quello che stiamo pensando entrambi: «È nonnismo.» Merda. Davvero è nonnismo. Non solo viola la politica del dipartimento di wrestling e atletica, ma anche il codice di condotta dell’università. In effetti infrange anche parecchie regole della scuola, e ci sono talmente tante cose sbagliate in tutto questo scenario che mi ci vorrebbe l’intera notte per elencarle. Se i nostri coach lo scoprissero, probabilmente la squadra verrebbe sospesa. La cameriera, Stacy stando alla targhetta col nome, si morde un labbro e mi guarda dal basso coi suoi ingenui occhioni da cerbiatta. «Mi è sembrato strano quando sono corsi via così in fretta. Un ragazzo è inciampato nei suoi lacci ed è caduto lungo sul tappeto.» Mi chiedo chi possa essere stato, idioti. «Già, be’, mi sta bene per essere andato in quel cazzo di bagno, eh?» «Come intende pagare?» La cameriera sposta a disagio il peso sulla punta dei piedi prima di allisciarsi i capelli. «Mi sento così male, ma ho altri tavoli da servire. Se non paga, probabilmente verrò davvero licenziata…» Gesù. Non posso neanche prendere fiato. «Carta di credito, immagino.» Prendo il telefono e sblocco l’app della carta di credito per poi passarlo alla cameriera. Lei lo guarda, confusa. «Non ha una vera carta di credito? Devo strisciarla, non credo di poter scansionare questo. Siamo piuttosto arretrati qui.» Sospiro rumorosamente, estraggo il portafogli dalla tasca posteriore e le piazzo la carta nel palmo aperto in attesa, pronto a prenderla nel culo… metaforicamente parlando, s’intende. Stacy sorride gioiosa. «Grazie! Torno subito!» Già, nessun cazzo di problema! Aspetterò proprio qui perché non sono un coglione del cazzo! E come niente fosse, quattrocentotrenta dollari e cinquantasette centesimi che non ho se ne vanno nella tazza del cesso; e non dimentichiamoci dei miei genitori, che mi uccideranno, specie dopo che ho litigato così tanto con loro per trasferirmi in Iowa. Dopo che il mio pagamento passa e firmo per l’addebito, esco con una ricevuta lunga quasi trenta centimetri e cerco di infilarmela nella tasca posteriore. La mancia era inclusa, visto che era un gruppo così numeroso. Inspira. Espira. Scarico tutta la mia frustrazione nel parcheggio, con una sequela di imprecazioni a volume abbastanza alto da svegliare mia nonna morta e farla far sotto a un’anziana coppia che sta entrando. La donna si stringe la borsetta al petto mentre il marito la spinge a entrare in fretta, entrambi mi guardano come se avessi perso la testa. «Coglioni!» urlo, dando pugni all’aria. «Stronzi di merda!» Do un calcio al cordolo, poi lascio andare un’altra serie di imprecazioni quando mi schianto le dita contro il cemento. «Cazzo. Cazzo. Putain de merde. Fanculo la mia vita!» Le imprecazioni mi escono dalla bocca come un’onda di marea ma non fanno niente per placare la tempesta che mi infuria dentro. Elenco un errore dopo l’altro: alla fine della fiera, devo ai miei genitori quattrocento dollari, fatto. Subisco atti di nonnismo dai miei stessi compagni di squadra, fatto. Sono in un college nel bel mezzo del nulla, fatto. Non conosco anima viva a parte gli stronzi che mi hanno appena preso per il culo, fatto. E mi hanno anche lasciato a piedi. Tic. Tac. Afferro il telefono dalla tasca posteriore per sparare un messaggio a quegli idioti dei miei coinquilini. Io: Riporta qui il culo e vienimi a prendere. Gunderson: LOL ti sei già calmato? Io: Vieni qui e scoprilo. Gunderson: Non se hai intenzione di litigare. Io: Dimmi solo una cosa: di chi è stata l’idea? Gunderson: Non te lo dirò. Io: Allora posso solo presumere che sia stata tua. Gunderson: No, amico, fidati. Io: Com’è che non ti credo? Gunderson: Perché avrei dovuto farti una stronzata simile quando mi tocca VIVERE con te? Io: Be’, hai PERMESSO CHE MI LASCIASSERO QUI. Gunderson: Già, perché l’ultima cosa che voglio è che facciano la stessa cosa a ME. Io: Grazie mille, stronzo Gunderson: Quando vuoi, amico. Fammi rimettere i pantaloni. Sono lì tra dieci minuti. LAUREL «Ehi, hai visto quei ragazzi?» Sono seduta in una tavola calda a leggere il programma di Letteratura Inglese per assicurarmi di non essermi fatta sfuggire nessun elemento chiave per il compito che dovrei star scrivendo: non posso permettermi di perdere neanche un punto. Appoggiandomi allo schienale del divanetto in vinile, poso l’evidenziatore e alzo la testa, inarcando un sopracciglio verso il mio coinquilino, Donovan. «Che ragazzi?» «Se mi dici che non li hai notati ti dirò che sei una bugiarda.» Ride e si mette in bocca una cucchiaiata di waffle. La panna gli si appiccica al labbro inferiore e lui la lecca prima di prendere un altro boccone. «Dio sa che io l’ho fatto.» «Non sono qui a cercare appuntamenti.» «Giusto, ma a volte gli appuntamenti trovano te. I ragazzi non riescono a non caderti ai piedi.» Fa un occhiolino, cacciandosi altro waffle in bocca. «Quello è un bel gruppetto di muscolosi maschi eterosessuali, se ne ho mai visto uno.»
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