1.
Stavo camminando per San Matteo, un profumo costoso sulla pelle che stava invecchiando, una camicia e un vestito che facevano a pugni con quell’essenza ricercata.
Ero un “non volevo, ma posso”, per definirmi con una parafrasi di luogo comune.
Arcangelo Argentero1 non mi faceva mancare ormai da tempo una boccetta di profumo a ogni fine del mese. Avanti di questo passo, avrei potuto aprire un negozio tutto mio. Già, perché il vecchio cambiava intruglio ogni volta. Non avevo nemmeno il tempo di abituarmi a un odore che ne arrivava un altro.
Quasi a destinazione, l’ingresso al mio ufficio nel Palazzo dei Rolli, girai la testa a sinistra.
Alzai lo sguardo come un barbagianni sull’edificio di fronte, fino alla finestra del cinese.
Scoprii una cosa. C’erano tende tirate. Era la prima volta che accadeva, impedendo alla mia curiosità, trasformata in ossessione, di sbirciare dentro.
La mia giornata era cominciata con qualcosa di diverso.
Mi accontento sempre di piccole cose, di minuscole differenze. Non sono uno che vuole cambiare tutto per non cambiare niente. Sono un attendista e le appena percettibili variazioni mi appagano.
Quella tenda chiusa mi stava già facendo fluire il sangue in modo diverso.
Mi accesi una sigaretta, sguardo basso sui gradini. Tirai qualche boccata in modo frenetico, quanto bastava per poter insudiciare quel bianco delle scale con un po’ di cenere.
Uno stupido capriccio da bambino. Un modo per attirarmi le ire di qualche vicino. Per non perdere l’abitudine di considerare il mondo in cui vivo, bastardo e ingrato.
Una sorta di allenamento all’indifferenza. Per non aspettarsi nulla dagli altri, con la certezza quasi matematica di ricevere solo irriconoscenza.
Una volta salite le scale, con ancora il fiatone, davanti alla porta dell’ufficio, capii che la mia prima parte di giornata non aveva finito di regalarmi novità.
Una versione di Libertango di Astor Piazzolla stava trapassando il legno della porta con un ensemble di organo Hammond, chitarra elettrica, batteria e archi. Me lo sarei ritrovato da lì a poco schiacciato sul petto come un cane festoso.
A meno di topi di appartamento argentini, doveva essere Dalia.
Entrai.
Lei mi apparve come un fascio di luce che accecava. Un vestito da far impallidire la brillantezza dei diamanti in Topkapi. Era di spalle, donandomi il fondoschiena.
Cercai di non distrarmi per tentare di parlare. “Si può sapere che succede?” urlai, sovrastando la musica.
Quando Dalia si voltò seguendo l’incedere degli strumenti, vidi una rosa stretta tra i suoi denti.
Ci guardammo.
Si tolse la rosa, la mise nella scollatura del vestito e me la ritrovai a pochi centimetri mentre la sua mano prendeva la mia.
“Balliamo!”
Non risposi e la seguii dopo aver gettato il mozzicone ancora acceso a terra.
Era tanto che non ballavo. Troppo…
Da quando lei...
La salida di otto passi, la caminata, un passo avanti sul piede destro per lei, un passo indietro sul piede destro per me. La musica, altri passi sopra gli strumenti, calpestando il sole sparato sul pavimento.
Dalia era dentro i miei occhi con uno sguardo che non le avevo mai visto prima.
O che fino ad ora ero riuscito a ignorare.
No. Non il suo sguardo.
Gli archi imperversavano, come le chitarre.
Il nostro gioco incerto di gambe, di intrighi, di frasi non dette, pure.
Mi accorsi che non stavo ballando con lei.
Mi staccai di colpo e mi guardai in giro, cercando la sorgente della musica.
Proveniva dal mio piccolo stereo incassato in un mobiletto basso che nemmeno ricordavo di possedere.
Bloccai Astor Piazzolla, rasi al suolo le pampas argentine e mortificai quel ballo così suadente che mi fece più male di una coltellata rigirata in una ferita aperta.
Silenzio nell’ufficio, rotto soltanto dalla sirena vicina di un’ambulanza.
Provai a ritrovarmi.
“Cos’è questa pagliacciata, Dalia?”
“Sai che non te la cavi male? Sei anche meglio di me, specie con quel borsalino in testa. Ma dove hai imparato?”
“Rispondimi.”
Dalia mi fissava come se avesse capito tutto quanto o come non avesse capito nulla. Odiavo quel tipo di sguardo ambiguo. Non mi piace trovarmi in una situazione senza poter abbozzare una benché minima difesa.
“Mi sono iscritta a una gara di ballo. Così provavo. Qui tanto non si lavora da settimane.”
“Siamo in un ufficio, non in una sala da ballo. E togliti quel vestito” dissi, posando il borsalino sul mobile.
“Allora, resterò nuda. Non ho un cambio e sono senza intimo.”
Non parlai subito. Cercai la sigaretta tra le dita e soltanto in quel momento mi accorsi che l’avevo gettata sul pavimento. La vidi, feci qualche passo e la schiacciai sotto la suola, poi la calciai facendola finire sotto il mobiletto dello stereo.
“Allora è inutile che ti dica di tenerlo.”
Era splendida.
Un’altra sirena ruppe il mio disagio. Così forte che ebbi l’impressione che i muri tremassero. Erano i vigili del fuoco.
“Non abbiamo niente oggi?” feci rivolto a lei.
“Zero.”
“Non so se riuscirò a pagarti lo stipendio questo mese.”
“Non sarebbe la prima volta, Michele.”
“Già.”
Dopo il caso Argentero non mi era più capitato niente di eclatante. Mi basavo ancora su quella entrata e su piccoli lavoretti con i quali appena mi pagavo il necessario. Bollette, granite e lasagne.
Non era affatto un buon periodo.
Dalia tolse la rosa tra i seni e la mise sulla scrivania. Baciò il suo indice, poi lo posò sulla mia guancia.
“Torno al mio angolo, a fare niente. A pensare alla gara di ballo, in attesa di un cavaliere.”
“Come puoi fare una gara senza avere prima un partner?”
“Non ho trovato quello giusto. Per il tango ci vuole una certa affinità.”
“Lo troverai.”
“Ne sono certa. Altrimenti, addio gara... Quella rosa è per te.”
Guardai il fiore sulla scrivania.
Era rosso come la traccia di rossetto sulla mia guancia.
Non la vedevo, ma la sentivo. Una striscia di fuoco.
Dalia tornò a darmi le spalle. Il fuoco si allontanava, ma mi restava dentro lo stesso.
Rabbia, desiderio, impossibilità e dolore.
Presi la rosa, la fissai. La strinsi forte nella mano fino a sciuparla, poi la gettai in uno dei cassetti della scrivania per lasciarla sopire.
Ad appassire, come i miei sentimenti.
Un’altra sirena, della polizia questa volta. Vicina, vicinissima.
Fissai dove era Dalia.
Mi aveva visto trattare male quella rosa.
Era seduta davanti al suo computer, ma gli occhi erano su di me.
Qualcuno urlava giù in strada.
Mi voltai per controllare il cinese, ma trovai ancora quella maledetta tenda.
Troppi dettagli nuovi in un solo giorno.
Mi lasciai andare sulla poltrona, con il profumo che si era mischiato a piccole tracce di sudore creando una fragranza più intensa e strana.
Forse, quella della mia paura.
Vidi il fazzoletto di carta tra le sue mani, mentre le urla in strada erano diventate concitate. Avrei dovuto alzarmi e guardare fuori, per capire, ma non me ne importava un accidente. Dalia stava piangendo e si stava asciugando lacrime per colpa mia.
Non mi è mai piaciuto veder piangere una donna. È come spegnere il sole con un’eclisse violenta.
Mi alzai, andai verso di lei.
“Mi dispiace per la rosa, per come mi sono comportato. Sono un bastardo...”
Dalia tirò su col naso, senza guardarmi, il fazzoletto sempre stretto in mano.
“Non è possibile...” sussurrò.
“Mi dispiace davvero...”
Lei girò il suo portatile verso di me.
“È successo poco fa.”
C’era un video sullo schermo.
“Cos’è?”
Non mi rispose.
Un uomo in piazza De Ferrari. Sbraitava qualcosa, ma non si capiva bene. Intorno a lui c’era tanta gente che lo guardava. Alcuni riprendevano con i cellulari.
L’uomo aveva una camicia aperta con un taglio sul petto che stillava sangue. Nella sinistra, un coltello da cucina. Urlava e si tagliava. Dopo il petto, un braccio.
Tutti guardavano, immobili e con il telefonino in mano.
Ormai si assiste soltanto. È più comodo.
L’uomo scaraventò il coltello lontano e si voltò. Prese qualcosa da terra che non si vedeva nell’inquadratura, mentre la fontana seguitava il suo zampillare d’acqua festoso.
Era una tanica.
Prese a versarsi il contenuto addosso.
Continuava a urlare, una mano frettolosa nella tasca per afferrare qualcosa.
Un accendino. Lo vedevo bene, perché chi aveva ripreso, aveva voluto dare il tocco drammatico alla sua ripresa, cogliendo il dettaglio in una zoomata da professionista del nulla.
L’uomo era zuppo di benzina. Una pozzanghera larga sotto i piedi.
Guardai Dalia per un istante. Annuì e singhiozzò.
Quando tornai a guardare il video, l’uomo aveva cominciato a prendere fuoco.
I telefonini che immortalavano erano aumentati.
Nessuno faceva nulla, tranne essere spettatore e girare il suo dannato video da postare sui social.
L’indifferenza umana sta superando ogni limite. Ho davvero orrore di scoprire cosa ci sarà dall’altra parte.
Battei il pugno sulla scrivania di Dalia.
Le urla dell’uomo erano insopportabili. Dalia aveva visto tutto quanto senza volume.
Chiusi il filmato.
Guardai sul monitor. Erano stati postati altri video del fatto. Almeno dieci nel giro di un quarto d’ora.
Ora mi stavo dando una spiegazione riguardo tutte quelle sirene.
C’è chi sta tentando di ballare un tango e chi nello stesso tempo brucia la sua vita con una tanica di benzina.
La vita è ironica e si fa beffe di chi non la sa capire.
“Non posso credere che sia vero, Michele.”
Dalia era sconvolta. Forse aveva assistito al suo primo suicidio.
Per me, invece, era una riconferma amara di quanto orrore ci possa essere nella disperazione.
“Vado a casa.”
“Vai.”
Non ci parlammo più. Nemmeno un saluto. La guardai mentre spariva nel corridoio e sentii la porta chiudersi.
Le serviva del tempo. Le serviva abituarsi a quello che aveva visto. Le serviva, assuefarsi.
Come avevo fatto io tempo prima. Come continuo a fare ora, preparandomi quotidianamente ad aspettarmi qualcosa di peggio di quello che già mi immagino o provo ad immaginare basandomi sulle mie esperienze vissute.
A considerare i leopardi, i morti di morte violenta, come un qualcosa di abituale da cui distaccarsi senza lasciarsi coinvolgere da emozioni particolari.
Al contrario, mi dispiaceva davvero per quella rosa.
Era fragile.