Capitolo 2

1894 Parole
2. Il fatto del giorno precedente era diventato di dominio pubblico. Tutti i video messi in rete erano diventati virali. Tante, troppe prospettive di una stessa tragica fine. Un esercizio di stile indegno, senza alcuna umanità di soccorso. Tutto è spettacolo e non c’è spettacolo più rilevante che immortalare la morte in diretta. Dalia era già in ufficio. Muta. Non l’avevo sentita emettere nemmeno un fiato. Seduta al suo posto, a far finta che fosse un giorno come un altro. Sforzandosi di crederci. Avevo comperato un giornale dopo tantissimo tempo. Per sapere di più su quello che era accaduto. Potevo cercare sulla rete, ma non era il mio forte. Mi smarrisco dentro quel pagliaio di informazioni per cercare un ago. Preferisco intossicarmi col piombo del quotidiano e farmi entrare in testa le cose con quell’unico carattere vecchio e riconoscibile della stampa su carta. Sono un dinosauro sopravvissuto alla glaciazione del progresso, in fondo. Da quanto avevo capito leggendo i vari commenti, l’uomo che si era dato fuoco era un imprenditore. Non di quelli più noti, ma comunque un dirigente della sua piccola azienda manifatturiera. Un qualcosa legato a una particolare produzione ittica, riportavano alcuni articoli. Roba con pochi margini. Sembrava un altro caso di disperazione per non riuscire più a tirare avanti con dignità. Lo spettro del fallimento in tempi difficili. Molti non lo accettano. Troppi, in questi ultimi anni. I soccorsi avevano fatto quello che avevano potuto. Ustioni di quarto grado, non solo gli strati di cute interessati ma lesioni anche più profonde di muscoli e ossa. Trasportato al reparto Centro grandi ustionati di Villa Scassi era morto in meno di mezz’ora per la gravità delle ferite. Lasciava moglie e una figlia e da quanto avevo letto, le cose non andavano bene per la sua ditta. Anzi, proprio male. Piegai il giornale e lo sistemai accanto al telefono fisso. Un’associazione di comunicazioni dentro una sola occhiata. “Il tuo tango?” Speravo che quella mia domanda improvvisa potesse scuotere Dalia in qualche modo. A volte, sono un inguaribile ottimista. Non ebbi risposta. Ero solo in ufficio, anche se vedevo una cascata di capelli biondi cadere su un vestito scuro. I fantasmi a volte possono essere davvero affascinanti. Mi voltai a guardare il cinese. Tutto era tornato normale. La sua finestra era di nuovo accessibile. Una mia personale serratura da cui scrutare e gratificare la mia ossessione. Cristo Santo! Ma non c’era nessuno davanti ai tre computer! Dov’era il mio cinese? Incollai quasi il viso al vetro, come un bambino goloso di fronte alla vetrina di una pasticceria. Mi schermai anche con le mani, per annullare un riverbero fastidioso del sole. “Dove sei?” Continuai a guardare, a scrutare a entrare in quella stanza non solo con gli occhi, ma con i piedi, con anima e corpo. Il cinese piegato, curvo e indefesso sui computer era un mio punto di riferimento. Ora, mi veniva a mancare. Mi accesi una sigaretta spostandomi però sull’altro davanzale. Volevo dare un’opportunità al cinese di riportare tutto alla normalità. La finestra accanto era anonima. Aveva dei vetri scuri, non potevo vedere nulla. Mi sforzai di restarci incollato. Il cinese doveva avere la sua chance. Fumai nervosamente, una boccata dopo l’altra. Espiravo sul vetro piccole nuvole di indifferenza su quanto mi accadeva intorno. Il mio unico pensiero, che il cinese tornasse al suo posto. Era trascorsa forse una manciata di minuti quando tornai di scatto sopra la mia finestra preferita. Non avrei dovuto farlo. Troppi dettagli cambiavano in quei giorni... Non potevo crederci. No, non era possibile. Il cinese era alla finestra, con una tazza in mano. No. Non così. Aveva rovinato tutto. Ebbi da subito un pensiero cattivo per quel piccolo uomo in tuta da lavoro, ma immediatamente dopo, ebbi una sola idea. “Dalia? Devo uscire.” Non mi rispose e mi mancava quel suo tono di voce sereno, addirittura allegro. Senza le sue parole tutto l’ufficio sembrava più spoglio. E il suo sorriso rendeva meno brutto il mondo. Non vederlo, era come privare l’anima del cuore. Chiusi la porta dell’ufficio dietro di me e cominciai a scendere le scale a rotta di collo. Per ben due volte ebbi l’impressione di capitombolare, di cadere, ma chissà come, non avvenne. Ero rapido, scattante. Sentivo quell’angoscia perenne che mi teneva vivo, ballare la giga. Gli ultimi gradini, un leggero fiatone, poi giù in strada, direzione il palazzo di fronte. Quando devi fare qualcosa di urgente finisci sempre per incontrare qualcuno che conosci e che si mette in mezzo per rovinare i tuoi piani. “Dove vai così di fretta?” Era lui, Giuseppe Bazzano. Non fermai la leggera corsa. “Ti devo parlare.” Non attesi nemmeno una risposta. Arrivai al portone del palazzo di fronte. Sul citofono c’erano un sacco di nomi. Feci due più due, contando i presumibili piani. Una targhetta senza nome, al piano che doveva essere quello giusto, secondo i miei calcoli approssimativi. Non ebbi nemmeno bisogno di attendere che il portone si aprisse. Uscì dal condominio un ragazzotto in felpa e cane al guinzaglio. Benedetto cane e benedetti i tuoi bisogni! Su per le scale, di corsa. Come se fossi ancora allenato, armeggiando sul mio cellulare. Il piano era giusto. L’ultimo. Mi mancava l’ossigeno al cervello. Le mie sensazioni farneticavano, scommettendo su chi sarebbe deceduta per prima. Attaccai l’indice al campanello dell’unica porta senza targa. Contai i secondi fino a quando la porta prima si schiuse e poi si spalancò. Il cinese mi stava di fronte, a meno di una lunghezza di braccio. Era lui, quel cinese. Come potrei descriverlo? Era un cinese. Proprio un cinese. Un fantino giallo con una tuta da metalmeccanico. Gli puntai il cellulare addosso, inquadrai il suo viso e scattai. Il mio click fu un passe-partout per un qualche anatema urlato in ideogrammi. Il cinese prese a sbraitarmi contro, sollevando anche la mano, gesticolando come un matto. Il timbro delle sue urla era come il rumore delle suole delle ciabattine sul pavimento bagnato del bagno. Incollate l’una all’altra, con delle punte di shlack, volendo rendere onomatopeici i suoi alti rimproveri da soprano. “Tutto a posto, cinese. Tutto a posto. Solo una foto ricordo.” Non mi capì. Continuava a sbraitare. Alzai la mano. “Ciao cinese, alla prossima!” Corsi giù di nuovo per le scale con la stessa frenesia di Al Pacino in Heat quando lascia l’ospedale. Avrò visto quel film non so quanto e ogni volta che ne ho la possibilità lo rivedo di nuovo. Conosco le battute a memoria, ma è sempre come vederlo per la prima volta. Quando ti piace tanto qualcosa, è sempre nuovo, anche se conosci già tutto quanto, perché la mente ci rovista dentro e trova sempre un particolare che tutte le altre volte ti era sfuggito. Un’occhiata sulle scale e di sghembo sulla foto del cinese. Non era venuta male. Avrei potuto anche dire che era fotogenico. Certo, più di me. Ero quasi uscito dal portone, ma mi fermai. Presi una sigaretta e la accesi. Respirai un bel po’ di frenetica avventura. Bazzano non se ne era andato. Gli feci un cenno, lui ricambiò con un’espressione di palese fastidio. Quando lo raggiunsi, scatenando il volo di alcuni piccioni, non attese nemmeno il mio saluto. “Non ho molto tempo, Michele.” “Io ne ho da vendere e ora ho anche la foto del cinese.” “Ma quale cinese? Stai lavorando a qualcosa? Su chi ha assassinato gli involtini primavera?” Rise di gusto. “Se sei così già alla mattina, non oso immaginare che cosa dirai la sera, Beppe.” “Evidentemente tu riesci a tirare fuori il meglio da me.” “Non sapevo che i perdenti ti facessero ridere.” “Cosa vuoi, Michele?” “Scommetto che hai per le mani la faccenda della torcia umana di Piazza De Ferrari.” “Hai indovinato.” “Dimmi qualcosa.” “Non ho molto da dirti, Michele. E poi, perché dovrei dirtelo?” “Per puro spirito di amicizia?” “Amici o meno, non c’è molto da dire. Fabrizio Faccio, come avrai visto sui giornali, era un imprenditorucolo, niente di straordinario. Le cose gli sono cominciati ad andare male, sempre di più. In verità non ci sapeva fare molto con gli affari, la ditta gliel’aveva lasciata il padre. Si è così impelagato con degli strozzini per dei prestiti con interessi da capogiro. Le cose, però, non hanno avuto una svolta positiva, anzi. Allora ha chiesto altri prestiti, fino a non essere più in grado di restituirli. Lo hanno minacciato, poi hanno picchiato anche la moglie. Non ha più retto e alla fine...” “Si è dato fuoco.” “Questo è quanto. Perché ti interessa?” “A puro titolo informativo, non si può mai sapere... E questi strozzini?” “Stiamo indagando.” “In poliziottese significa: non voglio dirtelo, non rompere.” “Bravo, Michele. Vedo che ricordi ancora il gergo.” “Come dimenticarlo. Mi si sono arrotate le balle a forza di doverlo dire, ai tempi. Una specie di allergia con effetto collaterale.” “Fatti vedere.” “Ora è tutto a posto, posso fare come mi pare e dire quello che mi pare.” “Hai sempre fatto così, anche rappresentando la legge. Dimentichi come ti chiamavano i colleghi? La carogna.” “Come l’ispettore Callaghan. Un onore.” “Contento tu. Comunque della legge te ne sei sempre infischiato. Facevi sempre a modo tuo.” “Non sempre. Purtroppo, non sempre.” “In fondo, ti capisco...” “Lo so bene. Be’ ti ringrazio, stammi bene, Beppe.” “Ehi, pensi di cavartela così?” “Riguardo?” “Al cinese.” “Cose private. Sentimentali.” “Sicuro... Questo in astenghese che significa?” Non ebbi tempo di rispondere. Il cinese non si era dimenticato di me, della mia invadenza dentro il suo mondo informatico e stacanovista. Stava urlando dalla finestra e tutto il suo linguaggio incomprensibile era pioggia sopra la mia testa. Bazzano guardò in alto, seguendo quello stillicidio a ritroso. “Quel cinese?” domandò, indicando con il dito. “Quello.” “Che gli hai fatto?” “Ho invaso la sua privacy.” “Uno più uno meno... Poca differenza, per te. Mi stavi dicendo, riguardo alle cose sentimentali?” “A differenza tua, l’astenghese è molto più di classe. Quindi la metto sull’intimità. Se non vuoi vedermi piangere, vattene.” “Credo di non averti mai visto piangere, Michele.” “E mai mi vedrai, non siamo una coppia.” “Meno male... ti saluto, investigatore privato.” “Ricambio, poliziotto.” Il cinese stava appeso con lo scotch da pacchi sopra il quadro di un mio vecchio parente deceduto in guerra che rappresentava un tramonto di una qualche parte del mondo. Una tela di tristezza infinita, che avevo messo soltanto per coprire una serie di buchi fatti male in ragione di una mia vecchia idea di installare una mensola per impilarci qualche libro. Se un cliente vede qualche libro, ha subito una buona impressione. Poi vede me... per quello avevo deciso di lasciar perdere dopo i buchi fatti con un trapano a manovella. Avevo ingrandito la foto del fantino giallo, maledicendo la tecnologia per circa un’ora. Il risultato? Una sgranatura d’eccezione. Quindi, approfittando che Dalia era in bagno, contando sui tempi lunghi delle donne, avevo preso dalla mia mail il jpeg che mi ero spedito dopo l’eccezionale ingrandimento e l’avevo stampato. Se l’avessi fatto con il mio vecchissimo PC, soltanto per aprire la mia casella di posta ci avrei messo un’eternità. Non mi intendo di ram, gigabyte e altri termini strani, ma di certo il mio computer andava ad acetilene confrontato agli ultimi modelli di oggi. Adesso, stravaccato sulla poltrona, me lo guardavo, il cinese. Forse in futuro gli avrei trovato anche una bella cornice, con qualche drago fiammeggiante intarsiato qua e là. Era proprio quella faccia paciosa da risciò per turisti a starsene curva su tre computer e a lavorare senza interruzione. Be’, la pausa caffè o thè o qualche erba, se la conce-deva. L’avevo colto sul fatto. Chissà come era la sua famiglia. Dove viveva prima il cinese? Come era arrivato in Italia? Che cosa ci era venuto a fare in Italia, visti i tempi. Avevo un sacco di domande in testa, tutte suggerite da quella sua faccia un po’ così, da cinese vero. Il taglio degli occhi mi trasmetteva un qualcosa di misterioso, di ancestrale. Quel cinese ne doveva sapere tante. Per ora mi accontentavo della stampa sopra un quadro bruttissimo. Un cinese e un tramonto rosso. Un omaggio al comunismo d’antan. Magari quell’orrendo dipinto era stato fatto proprio di fronte a un paesaggio cinese. Inspirai fumo nei polmoni ed espirai sollevando la mano a pugno. Lunga vita a Mao.
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