I
Ritmi lenti e mulattiere impercorribili. Si somigliano tutti gli agri rurali di Sicilia.
L’autocarro dei rifiuti si inerpicava fiacco e impestato. Alla sua guida Tanino Rizzo si sbracciava lungo l’accidentata carrozzabile che da Villabosco conduceva a borgo Raffello. L’autista fischiettava un vecchio ritornello. Sempre le stesse note.
“E basta con questo scassamento di marranzano!” sbottò Cola.
“Tanino la notte fa festa con l’amica di Bonanotti e la mattina dobbiamo sopportarci i suoi sfoghi canterini” lo appoggiò Ciccio.
“Secondo me di sfogarsi proprio non se ne parla: quando l’uccello canta vuol dire che non bagna becco e perciò...” replicò Cola.
La scoppola gli piovve tra scapola e collo. Tanino non ammetteva che si beffeggiasse la sua mascolinità.
Cola fece l’offeso e lo squadrò torvo. Ciccio gli tenne spalla nella sceneggiata. C’erano riusciti. Tanino smise di fischiare e attaccò bottone declamando le doti nascoste del fringuello acquattato nei pantaloni. Sempre meglio dell’insopportabile fischiettio.
Era un’arieggiata mattinata di maggio. Il vento soffiava da tramontana e scuoteva i mandorli carichi di frutti e titillava le spighe di frumento in una corsa senza tempo, immota come quei luoghi antichi. La Montanvalle era in fiore. Le rondini volteggiavano nell’azzurro, puntini neri a ricamare di vita i fianchi smeraldini delle colline.
La discarica si annunciò con zaffate pungenti che prendevano al gargarozzo. L’avevano realizzata a due passi dall’area archeologica di Raffello. Popoli antichi, risalendo quello che era stato un corso d’acqua, si erano insediati millenni prima sul vicino promontorio, fondando un villaggio di cui rimanevano vestigia e tombe saccheggiate. A sapere quali riguardi i discendenti avrebbero loro riservato, i primitivi visitatori avrebbero portato le ossa a biancheggiare altrove. Lontano dai tombaroli e dall’aria corrotta dalla putrefazione dei rifiuti.
Tanino, continuando ad esaltare il turgore dell’amichetto ciondolante, infaticabile compagno di intime ricognizioni negli anfratti femminili, si arrampicò col camion su per la stradina di accesso e raggiunse la fossa della discarica. Cola e Ciccio saltarono giù dalla cabina e si piazzarono ai due lati dell’autocarro, per assisterlo nella manovra. Tanino doveva procedere in retromarcia nell’accidentato perimetro. La manovra esigeva movimenti misurati, pochi centimetri di differenza e le ruote, invece che la strada sterrata, avrebbero abbracciato il vuoto, finendo nella sottostante scarpata.
“Forza, Tanino, ancora un paio di metri, così, piano, vai avanti, ecco ci sei quasi, forza, fai finta di stare con Cettina, avanti facci vedere quanto mascolo sei, e dai spingi, così ecco... ohhh buttana della miseria buttana.”
Cola sbiancò. Le gambe si piegarono e si ritrovò sprofondato sullo strato nauseabondo.
“Che successe?” domandò Ciccio.
Tanino arrestò l’autocarro e con un balzo raggiunse i colleghi.
Cola era stravolto. Con la mano indicò un punto nella discarica: “Là, là.”
Poi si accasciò tra le braccia nerborute dei due.
“Avvisiamo i carabinieri” suggerì Tanino.
Il maresciallo della Benemerita Arma dei carabinieri, Saverio Bonanno, stava sorbendo il terzo caffè della mattinata. Scottante e scuro come piaceva a lui. Appena assaggiato, sacramentò. Da quando aveva deciso di mettersi a dieta per smaltire i chili superflui che debordavano sui fianchi, godere il caffè non costituiva più quel momento magico che precedeva un altro rito: accendersi una sigaretta ed aspirare a pieni polmoni. Niente da fare: il caffè amarognolo non gli andava giù.
“Steppani” ruggì.
“Comandi, maresciallo” rispose il brigadiere capo del Nucleo Operativo.
“Di chi fu la bella pensata di rifilarmi questa porcheria?”
“Quando uno si mette a stecchetto, il caffè si prende senza zucchero.”
“Da questo preciso momento nuovi ordini: questa brodaglia sa di veleno.”
“Come comanda, provvedo subito. Un cucchiaino le basta?”
“Pure uno e mezzo. Per il futuro però ci riforniamo di dolcificante, intesi?”
“Agli ordini, maresciallo.”
Bonanno gustò il caffè zuccherato con espressione beata. I pensieri vagavano liberi per i pendii e le valli della Montanvalle. Anche in caserma ogni tanto si respirava un po’ di pace. Il ritorno precipitoso di Steppani gli mandò l’espresso per traverso. Non era cosa. L’oroscopo glielo aveva pure anticipato: Giornata tesa. Rogne nel lavoro. Mantenete la calma e attenti alla linea.
Cola riprese colore. Il verde stinto dell’incarnato cedeva al purpureo del sangue che gli montava alla craniata. Non intendeva ragioni. Bonanno lo fissò torvo. Cola resistette.
“Io là sotto non ci vado, manco sparato. Accomodatevi voialtri: si distingue pure da qua. Non potete sgarrare, ché quelle due scarpe stanno ancora attaccate ai pantaloni. E a tutto il resto. Pare un cristiano. Madre mia che impressione.”
Bonanno ci mise poco a lasciare scantonare la scarsa pazienza che ancora conservava dopo la corsa in auto. Dieci chilometri di curve e tornanti abbordati a rotta di collo. Quando guidava Steppani, le viscere svolazzavano in gola e non c’era verso di farle atterrare tanto presto. Al maresciallo rimaneva addosso per ore la voglia di smadonnare. E di fucilare alle spalle il subalterno.
“Deciditi, oppure ti tengo tutto il giorno a disposizione dell’autorità” ruggì, accanendosi sul malcapitato netturbino.
“Ce lo mostro io il morto, maresciallo” intervenne conciliante Tanino, l’autista.
Il maresciallo, tallonato da Steppani e dagli altri sottoposti del Nucleo Operativo e della Radiomobile, discese con difficoltà nella scarpata. I rifiuti si ficcavano negli stivaletti, schizzavano sulle ginocchia, impataccavano i pantaloni d’ordinanza. L’aria cascava a pezzi, ammorbata e putrida.
Il morto era semicoperto dai rifiuti. Si trattava di un uomo di 55-60 anni. Alto e corpulento.
“Avvertiste il Comando?” domandò Bonanno.
“Già fatto, il capitano è stato informato” rispose Steppani.
“Forza allora, diamoci una mossa, avvisiamo il magistrato e rintracciatemi il medico legale. Lacomare, finisti con le fotografie?”
“Ancora un paio, maresciallo, giusto per avere tutte le angolazioni.”
“Lo metto in posa, Lacomà?” celiò il brigadiere capo.
Steppani non si smentiva. I cadaveri lo intrigavano, movimentavano la routine. Bonanno represse una smorfia. E si vendicò della furibonda corsa in auto.
“Steppà, a te l’onore di perquisirlo. Controlla se ha i documenti.”
“Perquisire il morto? Io?”
“No, tuo nonno.”
“Capperi, a buon rendere maresciallo!”
Bonanno martoriava il cellulare. Non era mai a suo agio a parlare al telefono, men che meno quando doveva informare il magistrato che coordinava l’inchiesta.
“Niente, dottor Panzavecchia, nessun documento. Zero totale. Lo ripulirono. No, non lo abbiamo ancora identificato, ma non è del posto. I tre operai della nettezza urbana non lo conoscevano. E pure a me la sua faccia risulta forestiera. Sì, il medico legale arrivò, ma non vuole scendere nella discarica. Se lei ci autorizza a spostare il cadavere, tutto diventa più semplice. Pure i Vigili del fuoco arrivarono. Portarlo su non sarà una scampagnata, ma almeno ci leveremo di qua. Il fetore ci impesta. Sì, anche il capitano sta arrivando. Era fuori sede... ebbe un problema con... la macchina. Come dice? No, a parte la testa spaccata a melone, non vedo altre ferite. D’accordo dottor Panzavecchia, ci aggiorniamo. Certo, le faccio sapere.”
Chiuse la comunicazione.
“Forza voialtri, imbracatelo e tiratemelo fuori da questa fogna.”
Pompieri e carabinieri si scambiarono un’occhiata stomacata. Bonanno girò loro le spalle e fece finta di non sentire i mugugni.
Più tardi Bonanno aggiornò il magistrato.
“Ci avevo azzeccato, dottor Panzavecchia, nessuna ferita d’arma da foco né da taglio. Il medico legale, il dottore Paternò, sostiene che a causare il decesso fu la botta in testa. L’assassino deve averlo colpito con qualcosa di pesante. La botta gli arrivò con tanta forza che gli spaccò il cranio in due. Il dottore Paternò però non si vuole sbilanciare prima dell’autopsia. Il morto lo saccheggiarono: niente soldi né documenti. Forse transitava da queste parti, magari dette un passaggio a qualcheduno e poi vai a sapere che capitò... Sì certo, predisposi già dei controlli a Villabosco e in tutto il territorio e pure dei posti di blocco, ma secondo me perdiamo tempo. D’accordo, le saprò dire meglio non appena avrò novità.”
Chiuse la comunicazione e lasciò che i profili delle colline rilucenti in lontananza e dei rigagnoli turchini, gli colmassero gli occhi appesantiti da tanta sozzura.
“Diamoci una mossa” si disse tirando fumo e sentendo il tossico incenerirgli i polmoni.
* * *
“Ricominciamo tutto da capo” si impuntò Steppani.
Tanino, Cola e Ciccio non ne potevano più. I carabinieri li avevano portati in Centrale e da due ore i netturbini ripetevano la stessa storia, ma gli sbirri non si decidevano a farli tornare a casa.
“Insomma basta, e poi vi lamentate che i cittadini non collaborano. La prossima volta giriamo i tacchi e pure noialtri facciamo finta di non vedere niente, ci trattate manco fossimo delinquenti” protestò Cola.
“Stia calmo, continui a collaborare e tutto si risolverà presto. Appena arriva il maresciallo, potrete andare a casa” lo rimbeccò il brigadiere.
“Voglio il mio avvocato.”
“E finiscila, Cola” lo ammonì Ciccio.
“Minchia che mala giornata” ribatté Cola.
“E che fetore. Sono tutto un puzzo, devo farmi una doccia” aggiunse Tanino.
“Chissà chi era quel disgraziato” si domandò Ciccio.
“Vai a saperlo. E che mala morte. Non solo ammazzato, ma pure scatafasciato in mezzo alla munnizza. Che spavento mi pigliai” si lamentò Cola.
“Brigadiere, che dobbiamo combinare?” si stufò Tanino.
Steppani mostrò l’occhio feroce. Il maresciallo gli aveva ordinato di raccogliere le testimonianze, allegarle agli atti ed attendere il suo ritorno. E lui, per evitare di fare infuriare Bonanno, che già di suo era fumantino, nel dubbio, aveva pensato bene di allegare agli atti non solo le testimonianze, ma anche i tre malcapitati testimoni.