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Trafiletto

Il clima di festa del regno di Nerone sta per finire in tragedia.

Il senatore Caio Sulpicio Galba si sforza di ignorare la gravità della situazione, quando una vergine Vestale viene trovata morta in circostanze misteriose ed è costretto ad indagare.

Emergono scoperte sconcertanti. Che rapporti poteva avere una sacerdotessa di Vesta con l’ambiente della prostituzione romana? E perché sembra esserci un legame con la corte imperiale? Un danzatore, bellissimo e pericoloso, propone al senatore un baratto. E se Caio si creerà nuovi e potenti nemici, pure, tornerà a innamorarsi.

Ma l’assassino lo previene di un passo e i cadaveri si accumulano.

Sarà una lettera dal regno dei morti a svelare il responsabile della catena di delitti.

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Elenco dei personaggi
Elenco dei personaggi in ordine di comparizione nel testoLelia Drusa: vergine vestale. Caio Sulpicio Galba: Senatore e membro della corte di Nerone, investigatore suo malgrado. Antonia Minore: cugina di Caio Sulpicio Galba. Marco Sulpicio Galba Aspro: Fratello di Caio Sulpicio Galba e centurione dei Pretoriani (corpo militare scelto con compito di protezione dell’imperatore e dei membri della casa imperiale, di cui le vestali sono considerate parte). Lucio Anneo Seneca: filosofo stoico ex precettore dell’imperatore Nerone. Nerone (chiamato anche Cesare, in quanto sinonimo di Imperatore): Imperatore di Roma. Gaio Ofonio Tigellino: prefetto del pretorio. Poppea Sabina: amante di Nerone e poi sua seconda moglie. Agrippina Minore: madre di Nerone. Claudia Ottavia: figlia dell’imperatore Claudio e prima moglie di Nerone. Calvia Crispinilla: dama di corte, ex amante di Caio Sulpicio Galba. Caio Petronio: arbitro d’eleganza della corte di Nerone, amico intimo di Caio Sulpicio Galba. Quartilla: schiava della vestale Lelia Drusa. Dafne: prostituta. Aufidio: giovane ufficiale dei pretoriani, attendente di Marco Sulpicio Galba Aspro. Lucrezia Domiziana: vestale massima a capo del collegio delle vestali. Epicari: cortigiana d’alto bordo. Cecilia Metella: dama di corte. Silia: dama di corte, amante di Caio Petronio. Basilò: schiava di Caio Sulpicio Galba. Terzia Metella: vergine vestale, sorella minore di Cornelia Metella. Aulo Sabino: patrigno della vestale Lelia Drusa. Tigrane: ex schiavo divo della pantomima erotica, dedito alla prostituzione. Livia Statilia: plebea ammessa a corte grazie al suo considerevole patrimonio. Lucio Flavio Silano: cortigiano in rovina, fidanzato di Livia Statilia. Rubria: vergine vestale. Sporus: eunuco sosia dell’imperatrice Poppea, amante di Nerone. Caio Calpurnio Pisone: cortigiano a capo di un circolo culturale stoico con tendenze sediziose. Epafrodito: liberto e uomo di fiducia di Nerone. Antonia Maggiore: dama di stirpe reale (figlia di Tolomeo Filadelfo, ultimogenito di Marco Antonio e Cleopatra), nonna di Caio Sulpicio Galba, di Marco Sulpicio Galba Aspro e di Antonia Minore. Maura: proprietaria di una taverna nella Suburra e di alcune stanze da affittare. Fannia: ricca donna d’affari plebea, madre di Livia Statilia. Afrodia: attrice ex amante di Caio Sulpicio Galba. Loto: governante della casa di Caio Sulpicio Galba e precedentemente sua balia. Merit Amun: schiava di Caio Sulpicio Galba. Otone: schiavo di Livia Statilia. Proculo: schiavo di Nerone, occasionalmente a disposizione di Lucio Flavio Silano. Appiana: matrona plebea di fede cristiana. Matteo: gioielliere ebreo. Clodio: mercante cristiano. Nello stesso anno (62 d.C) morì la vergine vestale Lelia, e al suo posto venne scelta Cecilia, appartenente alla famiglia dei Cossi. TACITO, Annales, Liber XV(XXII) Anno 64 d.c. Durante il consolato di C. Lecanio e M. Licinio. Idi di febbraio. Villa La Limonaia, Capri. Il senatore Caio Sulpicio Galba alla cugina Antonia Minore al lago di Nemi. Mia carissima, perdona il ritardo nell’inviarti risposta. Da tre mesi sono lontano dall’Urbe. Una febbre lunga e spossante mi ha tolto ogni forza e soltanto ora, convalescente, riprendo i contatti col mondo. Un filosofo del circolo degli Scipioni, che per ragioni a me del tutto incomprensibili si ostina a essermi amico, mi ha scritto che a volte, grandi malattie della carne sono diretta conseguenza di mali dello spirito e che le guarigioni coincidono con rinascite. Mentiva. Non so vedere il mondo con occhi nuovi. Non sono saggio; non lo sono diventato in anni di studi e forse lo sarò soltanto quando la vecchiaia avrà fiaccato la mia inquietudine. Sarò saggio per stanchezza; poiché a volte, mia cara, mi capita di pensare che la giovinezza, in quanto tale, viva di eccessi e che si sia dato il nome di saggezza all’esaurito entusiasmo di un uomo al tramonto. Tuttavia, per quanto riesca a tollerare la compagnia di me stesso meglio di quanto credessi, la solitudine non mi piace. La corte dissoluta e gaia di Tiberio affollava, un tempo, questi luoghi, quando egli aveva voluto fuggire Roma, facendo di quest’isola disagevole e stupenda il centro del mondo. Ora i colonnati e le logge solitarie di Villa Iovis mi guardano dalla scogliera, mute. Qua non siamo rimasti che gli isolani ed io, cortigiano fuori epoca e fuori luogo. Lo so, sembra affascinante, ma il tempo per pensare è troppo. E senza preavviso, a un tratto, lo sento… Questo senso di tragedia incombente che mi aggredisce di colpo e che non è nella mia mente soltanto e non è propriamente qui, ma è in Roma tutta. Tu lo senti, Antonia? Non ti giungono lettere dagli amici che non dicono e dicono. Non sai cosa si va preparando? Quali potrebbero essere le conseguenze, quali sciagure vi saranno? Quanto da vicino ci coinvolge questa congiura? Non ti sveglia di notte l’angoscia per la vita di coloro che ami? Per te stessa, per me, per Aspro? Qui, in quest’orizzonte immoto tutto si amplifica. Questo pomeriggio, mentre oziavo nel parco, pensavo a quel tremendo guaio che fece tremare la corte oltre un anno fa e di cui mi hai chiesto di narrarti nel dettaglio. Mia cara, quanto sto per rivelarti è segreto imperiale; molti vi furono implicati e tra questi, personaggi di cui sarebbe saggio non fare il nome, ma ho imparato a fidarmi di te come di me stesso e racconto senza timore… Era un periodo di grandi cambiamenti a Roma. Gli scandali si succedevano a un ritmo talmente serrato che neppure i pettegoli più allenati riuscivano a seguirne lo sviluppo. Il nostro Aspro aveva ottenuto da poco la carica di centurione dei pretoriani. Naturalmente, considerando il suo nome e gli appoggi che non gli sarebbero mancati, se si fosse degnato d’accettarli, avrebbe potuto aspirare a ben altro, ma, come sai è, incomprensibilmente, riuscito a rimanere un idealista. Mio fratello è sempre stato così, fin da quando, diciassettenne, piantò gli studi di retorica in Grecia per imbarcarsi come soldato semplice in una guerra ai confini del mondo. Ricordo che mi era arrivata una lettera dove spiegava che quel che aveva imparato era più che sufficiente, per un soldato, che non aveva alcun interesse per la carriera politica e che le cariche che avrebbe ottenuto, le avrebbe ottenute con il suo coraggio. C’era poco da dire; ci sono uomini con cui non si può discutere. Non ho mai capito se sono il fratello di un pazzo o di un eroe omerico. Forse l’ho sempre invidiato quest’uomo dal carattere inflessibile; pure, quando entrò a far parte dei pretoriani, mi resi conto che era indifeso tra gli intrighi di quell’ambiente tanto vicino al Palazzo. E fu proprio allora che Seneca decise di lasciare la corte. C’era chi diceva, forse non a torto, che il tempismo di Seneca nel curare i suoi interessi era pari solo alle ricchezze che aveva saputo accumulare alle spalle del principe. Tu che gli sei così vicina, mia Antonia, non ignori certo come vi siano molti il cui giudizio su Seneca è estremamente severo. Ma è pur vero che, al punto in cui si era giunti, Nerone non era più controllabile, e il ruolo di Seneca, come precettore e guida, veniva a essere sempre più inutile e rischioso. In inverno la paura si fece palpabile, ed è legge di natura che, quando la preda è ferita, gli sciacalli si facciano avanti. Quando Tigellino riuscì a prendere per sé la carica di prefetto del Pretorio, allora, per Aspro, ebbe inizio una serie impressionante di incarichi spinosi con i quali il nuovo comandante cercava in ogni modo di metterlo in cattiva luce. Non potevo fare a meno di sentirmi in colpa. L’unica cosa veramente imperdonabile che Tigellino può trovare in Aspro è il fatto di essere mio fratello; ma purtroppo non è cosa da poco. Provai a parlare a Nerone ma non ci fu nulla da fare: si fidava di Tigellino e non voleva sentire discorsi tediosi. Era felice e la sua massima preoccupazione era quella di trovare un pretesto plausibile per mandare il più lontano possibile il suo vecchio amico, Salvio Otone, in modo da potergli più comodamente rubare la moglie. Poppea Sabina condusse con autentico genio la sua campagna di seduzione. Sapeva centellinare tutto, persino la bellezza del suo volto, quasi sempre velato, e non compromettersi esasperando il desiderio di Cesare a limiti palesemente pericolosi. Camminava sul filo del rasoio con una sicurezza talmente calcolata e spavalda che, atterrita e sedotta, la corte tratteneva il fiato. Non si fece spaventare dall’opposizione dell’imperatrice madre Agrippina, prima occulta e poi aperta e feroce. E assurdamente, contro ogni previsione, fu Agrippina a perdere la sua guerra contro Poppea e con essa la vita. Nerone era stregato. Non vi era una spiegazione razionale per il delirio di passione che lo animava a quel tempo. La desiderava. La amava. La voleva. E la voleva per moglie. Lei sola era il ventre dal quale sarebbero nate generazioni di Cesari a imperare sul mondo. Lei sola era il seno che avrebbe nutrito una stirpe di eroi. L’umore di Nerone, da sempre instabile, pareva dipendere dall’increspatura delle labbra di Poppea e non pensava al problema immenso che ostacolava quel nuovo matrimonio: la presenza di sua moglie, la nostra povera cara Ottavia, che pure si teneva il più possibile in disparte… Preso quindi nelle trame d’amore tessute da un’astuta seduttrice, se non fosse stato il padrone del mondo, matricida, e non avesse già avuto una moglie, innocente, che bisognava per forza uccidere; Lucio Domizio Nerone Claudio Cesare, avrebbe potuto suscitare tenerezza. Così, mentre si andava creando il contesto perfetto per una tragedia, io, disgustato, nascondevo il capo passando da un’avventura all’altra per non vedere. Sciolta da poco la mia relazione con Calvia Crispinilla, le mie giornate mi apparivano troppo lunghe e gli eccessi non riuscivano a colmarmi le notti… Caio Sulpicio lasciò ricadere la mano in grembo urtando inavvertitamente la penna che rotolò sullo scrittoio e cadde. A occhi socchiusi, respirando con un po’ d’affanno, rimase a guardare la cannuccia d’avorio disegnare un paio di irregolari baffi all’imponente Plutone che rapiva Proserpina raffigurato a mosaici sul pavimento. L’odore di mare penetrava in quella veranda aperta più denso che mai e la lettera per Antonia gli stava davanti incompiuta. Il senatore Caio Sulpicio Galba era un uomo di celebrato fascino, alto e bruno, discendente da una gens che aveva dato a Roma un’interminabile teoria di consoli e condottieri, i busti marmorei dei quali figuravano in schieramento quasi militare a ornare le fauces1 del suo palazzo nell’Urbe. I suoi studi lo avevano portato a vivere per lungo tempo in Grecia, prima e a Pergamo poi, alla ricerca di un’arte dialettica che a Roma aveva perso di vista la vita pubblica per farsi sempre più pedante e sterile. Erano lontane nel tempo le orazioni che decidevano le sorti dello stato: non c’era più nulla da dibattere. Il Senato si limitava ormai ad ascoltare le decisioni dell’Imperatore e i senatori, ipocriti, gareggiavano per approvarle. Di questo, il giovane, non aveva tardato ad accorgersi. Morto dunque il padre, che credeva con fede fanatica in una repubblica mai conosciuta, Caio risolse di non voler diventare simile a quegli uomini che disprezzava e lasciò il foro. Una lunga campagna militare in Britannia gli aveva lasciato in dono una cicatrice sul petto e un corpo indurito di guerriero. La recente guerra in Armenia poi, aveva reso la sua pelle più scura del normale, mentre all’angolo degli occhi si sfilacciava impercettibilmente una sottilissima rete di rughe. Era durata poco, per lui, tuttavia, quella seconda guerra. Dopo meno di un anno, una ferita alla coscia riportata in uno scontro a Tigranocerta, si era infettata lasciandolo tra la vita e la morte. Quando era parso fuori pericolo, una nave militare lo aveva riportato in terra d’Italia, magro ai limiti dell’emaciato e a malapena in grado di spostarsi con le stampelle. Il completo recupero della gamba gli richiese mesi. A quel punto ritenne d’essersi reso degno del nome che portava, d’avere prestato a Roma il suo servizio e di potere infine decidere che posizione assumere. Forse saggiamente scelse di prendere ciò che l’occasione gli offriva; non la gloria, dunque, ma il piacere. Gli era capitato spesso, nel tempo che seguì, di chiedersi se non avesse imboccato la strada sbagliata; se avendo invece un ideale a guidarlo, fosse pure la passione per la politica o la guerra, come per molti altri suoi pari, non sarebbe stato un uomo più felice. Si chiedeva se ugualmente avrebbe avuto quei momenti di vuoto che facevano intorno a lui il silenzio e lo lasciavano annoiato e seccato di ciò che aveva a chiedersi perché mai gli fosse stato dato l’imbarazzante incomodo d’esistere. A trentadue anni si sentiva irrimediabilmente stanco. Si dedicava con cura morbosa al suo aspetto, come se i pomeriggi trascorsi in palestra, alle terme, o a soddisfare capricci sempre più ricercati potessero divenire uno scopo della vita anziché un mezzo. Desiderava volere. Talvolta si chiedeva se non sarebbe stato meglio dedicarsi all’esercizio della professione d’avvocato, per poi stancarsi dell’idea stessa. Dunque, in uno di questi slanci, peraltro non frequenti d’attivismo, mentre si trovava in palestra con l’amico Caio Petronio e questi, lasciandolo ai suoi pensieri, era tornato al campo di gioco, Caio si convinse che, davvero, avrebbe dovuto trovare qualcosa da fare. Malauguratamente la trovò. AntefattoLa prostituta rovistò nella borsa dei trucchi posata sullo sgabello e ne tolse un barattolino contenente pomata rossa per labbra. «Ma non ti piacciono i ragazzi, Quartilla?». La fanciulla che era con lei arrossì. «Ti ho già spiegato perché non posso, Dafne, e poi credimi, non ne ho questo gran desiderio; se un giorno mi sposerò, allora, forse… ma adesso non voglio affatto un amante…». La prostituta sorrise, non era bella, con quel viso troppo tondo, ma era giovane e la vita non l’aveva ancora sciupata troppo. Un velo di trucco sapiente, poi, anche se di poco prezzo le aggiungeva freschezza. «So che con il mestiere che faccio dovrei avere perso ogni tipo di illusione, ma non riesco davvero a capire il perché tu sia tanto restia, dopo tutto il servo dell’amante della tua padrona è un bel ragazzo e certo, capisco che tu sogni il matrimonio… ma sono nata schiava anche io e le schiave sono a disposizione del padrone. Chi potrebbe biasimarti, quindi, per non essere più vergine? Certo non ti impedirebbe di sposarti, un giorno, se venissi liberata… E ora che puoi scegliere… avessi potuto scegliere io!». Mentre finiva di prepararsi, pensava alla bettola buia dove era stata stuprata dal suo primo lenone e davvero stentava a capire. Potere scegliere, almeno per la prima volta, un giovane amante cui darsi con gioia, invece che venire costretta da un brutto vecchio a pratiche disgustose, le sembrava una fortuna che era proprio un peccato non cogliere. «…Poi, guarda Quartilla, che il sesso con un bel giovane è uno dei piaceri più grandi che ti possa offrire la vita, e uno dei pochi che non ti possono essere tolti neanche se non sei padrona di te stessa! Che hai da perdere?». Quartilla gettò indietro i capelli sottili. «È inutile, non puoi davvero capire». In quel momento qualcuno bussò alla porta ed entrò senza attendere risposta. Era un uomo enorme con la tunica macchiata di vino e un muso cupo già scuro di barba. Guardò le due donne e fece cenno alla più giovane di uscire. La prostituta si dipinse sulla faccia un sorriso che alla luce fioca della stanza pareva quasi gioioso. Abituata a ubbidire, Quartilla uscì senza fare commenti. «Non sapevo che avessi una compagna», lo sentì dire appena chiusa la porta, la donna replicò che lavorava sola, e che la ragazza era solo un’amica. Piena di vergogna per essere stata scambiata per una puttana, Quartilla se ne tornò al piano di sotto ad aspettare. La porta della stanza della sua padrona era chiusa. Lui doveva essere già arrivato. Sentiva un dolore al basso ventre, quell’atmosfera di dissolutezza la stava contagiando. Qualcosa le formicolava nella pancia già prima, mentre Dafne le parlava di pratiche indecenti come fornicare col maschio. Era male fare quelle cose al di fuori del matrimonio. Non lo dicevano forse tutti nella comunità? Eppure, come altre volte, finì con il fare qualcosa che, assolutamente non avrebbe dovuto. Si avvicinò alla porta proibita, esitò, poi sbirciò da una fessura e vide qualcosa di assolutamente straordinario. L’emozione fu così forte che la testa prese a girarle e si nascose nel sottoscala. C’erano ragni ma non li guardava. Però in fondo alla sua testa, in basso, a sinistra era come se li sentisse camminare su e giù per la tela. Facevano un rumore come graffiante. Assurdo. Che rumore possono mai fare dei ragni? Voleva schiacciarli con la pianella, ma non poteva alzare la mano. Era buio, sentiva un sudore freddo imperlarle la fronte, cosa le stava succedendo? Era forse una punizione per avere spiato uno spettacolo che non era per lei? Era così certamente! I suoi occhi erano impuri, aveva spiato e ora stava morendo. Le orecchie le ronzavano, niente del suo corpo le rispondeva. Una sensazione di autentico panico la prese, poi la testa divenne troppo pesante per poterla sostenere e scivolò senza rumore sul pavimento. Per un tempo lunghissimo navigò in un freddo, umido buio. Strane voci si mischiavano al ronzio assordante nell’interno del suo cranio. Moriva… o no, peggio! Quando rinvenne sentì qualcosa di umido tra le gambe, sollevò con cautela la gonna e vide che era sangue: per un istante si fece prendere dal terrore di avere una ferita interna, ma poi rammentò che sapeva che le sarebbe successo. Era successo alla sua padrona, succedeva a tutte… era diventata donna, ormai non ci credeva più, aveva quasi quattordici anni… poteva avere figli… ma era così brutta… senza seno, con quelle braccia scheletriche che parevano sempre fuori posto, non come la sua padrona, che era adorabile. Quale uomo avrebbe mai voluto riscattarla dalla schiavitù per sposarla e darle dei bambini? Si asciugò alla meglio, si alzò con un certo sforzo e sentì dei rumori strani provenire dalla stanza: qualcosa che veniva sollevato, trascinato… uscì con cautela dal suo nascondiglio e non seppe mai come fece a trattenersi dal gridare. Due uomini trascinavano via un corpo di donna, la testa di lei ciondolava all’indietro e i capelli strisciavano sul pavimento. “Oh Dio! Dio dei Profeti!”. Era terribile! Come era potuta succedere una cosa simile? E poi… Non potevano non sapere che c’era anche lei, l’avrebbero cercata, l’avrebbero presa e avrebbero stretto il suo collo fino a far venire la faccia blu anche a lei. Uno dei due aveva un’espressione strana, allucinata, come era possibile che la follia si nascondesse così in uomini che parevano tanto normali! Com’era possibile che nessuno si fosse mai accorto che era pazzo? “Oh Dio, oh Dio proteggimi ti prego!”. Fuggì dall’ingresso principale senza curarsi di chi la guardava correre. Fuori l’aria era gelida ma le schiarì le idee, un posto dove andare c’era, bisognava trovare la direzione al buio e bisognava trovarla in fretta. Gli odori della notte della suburra l’assalirono. Quando arrivò al crocicchio dietro la taverna si fermò un istante per pensare a quale strada prendere; un braccio la afferrò bruscamente alla vita. Urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Si voltò e scorse un ghigno d’ubriaco. Con la forza raddoppiata dalla disperazione tirò una gomitata nel ventre dell’uomo e fuggì nel vicolo. Era quasi l’alba, nella casa della dea, le sacerdotesse si davano il cambio nella custodia del sacro fuoco e cantavano le preghiere del mattino. Due porte erano sprangate. Nel tempio, il Palladio, fine e principio di Roma, guardava fisso nel vuoto, con i suoi occhi crudeli di divinità arcaica dipinti da un artista troiano, morto duemila anni prima.

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