Perché non parli?
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A: Alessandro Almarai
Oggetto: PERCHÉ NON PARLI?
Ciao Tesoro,
come stai, oggi? Ti trovi bene a casa di Christoph?
Alla fine, ieri sera in chat non mi hai scritto quando andrai a vedere il nuovo appartamento. Mi mandi qualche foto dopo che ci sei stato?
Mi sento un po’ sola, sai? La sera torno a casa e trovo i nostri gatti ad aspettarmi. Prima che tu partissi, sapevo che più o meno entro un’ora saresti tornato a casa anche tu; adesso so che nessun altro aprirà la porta e che non avrò altra compagnia che non sia la loro presenza morbida e pelosa. Credo che tu manchi anche ai gatti. Forse perché, da quando sei partito, ho stravolto le mie abitudini e quindi anche le loro. Come sempre, la prima cosa che faccio quando entro in casa è riempire le loro ciotole di croccantini e cambiare l’acqua. Ma adesso non rimango più in cucina a prepararti la cena insieme a loro, perché tu a cena non ci sarai… E allora vado in bagno, guardo nello specchio i segni della tua assenza sul mio volto e mi infilo nella doccia sperando di lavarne via almeno una parte. Anche Cirillo viene in bagno con me: mi segue ovunque, poverino. Si siede sul coperchio del water e con le zampine cerca di fermare le gocce che scendono sul vetro della cabina doccia.
Da quando sei partito, le mie docce sono diventate più lunghe. Mi sento in colpa a rimanere tutto quel tempo immobile sotto il getto d’acqua, cosciente che al mondo ci sono persone che non hanno neppure l’acqua potabile, ma è più forte di me: non riesco a trovare la forza di abbassare la leva del miscelatore. Faccio scorrere il nappo sull’asta fino quasi a sfiorare la mia spalla destra, e lascio che il getto, vicino e bollente, scorra sulla mia scapola, sul mio braccio, sul mio corpo alla ricerca di quel calore che non trovo più la notte nel nostro letto quando mi giro a cercarti. Mi manca il tuo abbraccio e l’odore e il tepore che lasciavi la mattina sulla federa del cuscino.
Da quando sei partito, non ho più consumato nessun pasto seduta al tavolo in cucina. a essere sincera non ho neppure tanta voglia di mangiare. Adesso non riprendermi per questo: lo sai che cibo e cucina hanno sempre destato in me scarso interesse. Non sono dimagrita e non sono anoressica. Mangio quando ho fame e mangio per nutrirmi: è una necessità, non un piacere. E mangio sul divano, davanti alla televisione, cercando di far coincidere l’orario della cena con quello della nostra soap italiana preferita.
Ti ricordi quando, durante la cena, mi chiedevi perché non parlo?
“Perché non parliamo mai di argomenti seri? Perché non ci raccontiamo i nostri pensieri profondi?” dicevi.
Ma quali sono gli argomenti seri e i pensieri profondi di cui parlano le coppie all’ora di cena? L’inizio dell’Universo? L’esistenza di Dio? Oppure parlano di argomenti leggeri e pensieri lievi, perché il quotidiano è in fondo un insieme di scelte semplici e gesti ordinari?
Sai, tesoro, le cose non stanno così. Le persone parlano e ci raccontano sempre qualcosa di loro che è intimo e profondo. Ma quel qualcosa non sta nelle parole che pronunciano né nei fatti che raccontano, che spesso non sono di alcun interesse; il qualcosa sta oltre, sta al di là…
Ti ricordi che cosa ti dicevo nelle ultime settimane prima della tua partenza, mentre mi sistemavo sotto le coperte, struccata e spettinata?
“Ho le rughe” ti dicevo, sospirando.
“Non è vero” mi rispondevi. “Sei solo stanca.”
È vero: sono stanca ed è vero che ho le rughe. Ma il punto non è quello. Il punto è questo: in quella frase c’era tutta la mia paura per il nostro imminente distacco; la paura che, cambiando vita, magari avresti avuto voglia di cambiare anche compagna e di trovarne una più giovane e più carina, per sostituire la sottoscritta che è tre anni più “vecchia” di te.
“Ho le rughe”. Tre parole per dirti: “Guardami adesso e dimmi che per te sono comunque bellissima, che mi vuoi bene e che non mi lascerai mai. Perché io ho paura; ho tanta paura di perderti ed ho bisogno che tu mi abbracci forte e mi tenga stretta a te”. Forse certe cose bisognerebbe dirle e non affidare questi pensieri a solo tre parole sperando che l’altro le intuisca… Forse è una mia presunzione pretendere che tu mi comprenda senza che io parli, oppure parlando poco.
Io non parlo, e questo è un dato di fatto. Non parlo con te e non parlo con gli altri. Le uniche persone con le quali ho degli scambi verbali più densi del consueto sono zia Lucia, Chiara e Fiamma; talvolta con mia sorella Matilde. Ma tu questo lo sai già.
Però sono brava ad ascoltare: e tu sai anche questo.
Non parlo perché non mi piace la mia voce. Ho scoperto di non apprezzare la mia voce durante le scuole elementari. La trovo sgraziata e troppo acuta. E poi c’è questa cadenza toscana che la rende decisamente poco femminile. Non saprei dirti l’anno esatto, ma ricordo esattamente il modo in cui ho acquisito tale consapevolezza…
Quel Natale i nostri genitori ci avevano regalato un registratore-riproduttore portatile, insieme a una cassetta di musica e a una cassetta vergine. La cassetta di musica l’aveva scelta mamma: una raccolta con le più belle canzoni degli anni ’60 (questo è il motivo per il quale conosco a memoria svariate hits di quel periodo). Con mia meraviglia, la cassetta vergine era invece vuota e aveva il potere di assorbire e poi riprodurre tutti i suoni (e rumori) che passavano attraverso il microfono. Lasciai passare i giorni di festa. Il primo giorno in cui i miei genitori sarebbero tornati al lavoro, io avrei provato “a fare la radio”. Il programma da emulare era Radio 2 3131, condotto da Corrado Guerzoni: 06/3131 era il numero di telefono che gli ascoltatori dovevano comporre per intervenire in trasmissione. Chiaramente quel programma non lo avevo scoperto da sola…
A casa con noi vivevano anche gli zii di mio padre: la sorella di sua madre (cioè mia nonna) e il marito. Non essendo i nostri nonni, gli zii erano “zii” anche per mia sorella e me. È stata zia Giuseppina a farmi scoprire la radio “parlata”: ogni mattina, non appena tornava a casa dopo aver fatto la spesa, accendeva “l’apparecchio” e si sintonizzava su Radio 2. L’amore per la radio parlata mi è rimasto anche oggi: molto più della musica, sono le parole a rendere più scorrevoli le mie giornate davanti al pc.
Dopo aver assicurato una morte certa a mia sorella nel caso di una sua intrusione, nel mio primo giorno di “libertà” mi chiusi nel ripostiglio delle scope: seduta sul pavimento di piastrelle a scacchi nero lavagna e rosso fegato, fredde e dure, e incastrata tra lo scaffale dei detersivi e la porta, cominciai a giocare alla radio. Come microfono usavo uno strano attrezzo che serviva a spolverare: una specie di scopa in miniatura con il manico in legno e della roba morbida e pelosa al posto della saggina.
Nella “mia” radio facevo tutto io: il conduttore, l’ospite e i radioascoltatori. Mi inventavo le domande e mi davo le risposte. Confinata nello sgabuzzino, portai avanti questo gioco autarchico fino all’esaurimento dei minuti di registrazione della cassetta. Adesso non mi restava che ascoltare la “mia trasmissione radio”. Sarebbe stato meglio se non lo avessi mai fatto: ogni mio entusiasmo, ogni mia aspettativa si sbriciolarono silenziosamente non appena iniziai a sentire la mia voce incisa sul nastro: era una voce sciatta, monotona, stridula e nervosa, che non ricordava affatto quelle calde, morbide e profonde dei conduttori radiofonici veri. Tolsi la cassetta dal registratore e uscii dal ripostiglio.
Non ho mai più giocato alla radio.
Utilizzai quella cassetta e il registratore soltanto in un’altra occasione: la maestra elementare ci aveva assegnato come compito quello di intervistare i nostri nonni per conoscere come vivevano loro alla nostra età: come e quali erano le loro case, le loro scuole, i loro giochi. Io intervistai mia nonna materna, in una conversazione di circa quindici minuti. Un paio di anni dopo quella cassetta fu duplicata in cinque copie: una per ogni figlio di mia nonna, morta da pochi giorni a seguito dei traumi riportati in un incidente stradale…
Durante una delle nostre passeggiate domenicali mattutine, ricordo di averti accennato qualcosa riguardo al disagio che provo nei confronti della mia voce. Tu avevi da poco terminato i corsi di PNL e coaching1 e al tempo tutte le tue letture vertevano su tale argomento.
“Sai che esistono i Vocal Coach?” mi hai detto.
“Davvero? Figo!”
“Non te ne importa nulla, vero?”
“Non è che non mi importa. È che non mi serve: faccio l’architetto, non l’attrice o la cantante. Meno che mai ho ambizioni politiche. Perché dovrei impiegare soldi e tempo per qualcosa che non mi serve?”
“Per migliorare la tua autostima.”
“Se volessi migliorare la mia autostima, non comincerei certo dalla modulazione della voce. E poi riguardo a questo problema, sono anni che utilizzo una strategia molto efficace.”
“Sarebbe?”
“Non parlo.”
“Me ne sono accorto…”
Non parlo perché, in fondo, non ho niente di interessante da dire: mi annoio io per prima a sentirmi raccontare le solite banalità di vita quotidiana. Con i nostri rispettivi lavori e relativi orari che ci consentono di vederci, in pratica, soltanto all’ora di cena, quello che posso raccontarti al termine dell’ennesima giornata di lavoro è estremamente noioso e, cena dopo cena, i miei racconti risulterebbero monotoni. E poi tu lo sai, a me il lavoro piace lasciarlo fuori della porta di casa. Tu, invece, il lavoro lo porti a casa, e poi lo porti in cucina, in bagno e anche a letto, e durante la cena parli un sacco e mi racconti tutto quello che hai fatto nelle ore antecedenti. Ancora non ho capito se parli per dare un suono ai miei silenzi o se perché, da insegnante, ti piace sentire la tua voce. Sono consapevole che questi tuoi monologhi siano forzati e non spontanei e che sia spiacevole per te avere di fronte un interlocutore così poco reattivo: i nostri tre gatti sono altrettanto inutili in questo frangente. Forse avremmo dovuto fare dei figli…
Non parlo perché ho paura: ho paura che tutti i pensieri, tutti i sogni che ho in testa si perdano nell’etere una volta usciti dalla mie labbra e che io non possa più trattenerli. Ed ho paura di raccontarli perché, le poche volte che l’ho fatto, mi sono sentita nuda e indifesa. I miei sogni sono ambiziosi e irrealizzabili, anche incomprensibili, ma io ho bisogno di loro perché mi fanno stare bene: mi immergo in loro come ci si immerge in una piscina di tiepida acqua termale e lì abbandono il mio corpo e la mia mente, sospesa al di sopra della superficie della vita.
Adesso sai perché sono così restia a parlare… Però ho scritto molto..
Stai sereno, Tesoro: mi sento un po’ sola ma so anche che è una situazione momentanea e che presto staremo di nuovo di insieme.
Ti voglio bene.
Buonanotte.