Capitolo I-2

2058 Parole
Elena ascoltava, a testa bassa, affaticata contro il vento, senza rispondere. Dopo un poco, ella sollevò il braccio per far cenno al cocchiere di avanzarsi. I cavalli scalpitarono. - Fermatevi a Porta Pia - gridò la signora, salendo nella carrozza insieme all'amante. E con un movimento subitaneo si offerse al desiderio di lui che le baciò la bocca, la fronte, i capelli, gli occhi, la gola, avidamente, rapidamente, senza più respirare. - Elena! Elena! Un vivo bagliore rossastro entrò nella carrozza, riflesso dalle case color di mattone. Si avvicinava nella strada il trotto sonante di molti cavalli. Elena, piegandosi su la spalla dell'amante con una immensa dolcezza di sommessione, disse: - Addio, amore! Addio! Addio! Come ella si sollevò, a destra e a sinistra passarono a gran trotto dieci o dodici cavalieri scarlatti tornanti dalla caccia della volpe. Uno, il duca di Beffi, passando rasente, si curvò in arcione per guardare nello sportello. Andrea non parlò più. Egli sentiva ora tutto il suo essere mancare in un abbattimento infinito. La puerile debolezza della sua natura, sedata la prima sollevazione, gli dava ora un bisogno di lacrime. Egli avrebbe voluto piegarsi, umiliarsi, pregare, muovere la pietà della donna con le lacrime. Aveva la sensazione confusa e ottusa d'una vertigine; e un freddo sottile gli assaliva la nuca, gli penetrava la radice dei capelli. - Addio - ripeté Elena. Sotto l'arco della Porta Pia la carrozza si fermava, perché egli discendesse. Così dunque, aspettando, Andrea rivedeva nella memoria quel giorno lontano; rivedeva tutti i gesti, riudiva tutte le parole. Che aveva fatto egli, appena scomparsa la carrozza di Elena verso le Quattro Fontane? Nulla, in verità, di straordinario. Anche allora, come sempre, appena lontano l'oggetto immediato da cui il suo spirito traeva quella specie di esaltazione fatua, egli aveva riacquistato quasi d'un tratto la tranquillità, la coscienza della vita comune, l'equilibrio. Era salito su una vettura pubblica per tornare a casa; là s'era messo l'abito nero, come al solito, non dimenticando alcuna particolarità di eleganza; ed era andato a pranzo da sua cugina, come in ogni altro mercoledì, al palazzo Roccagiovine. Tutte le cose dell'esistenza esteriore avevano su lui un gran potere d'oblio, lo occupavano, lo eccitavano al godimento rapido dei piaceri mondani. Quella sera, infatti, il raccoglimento gli era venuto assai tardi, quando cioè rientrando nella sua casa aveva veduto brillare sopra un tavolo il piccolo pettine di tartaruga dimenticato da Elena due giorni innanzi. Allora, in compenso, tutta la notte, aveva sofferto, e con molti artifici del pensiero aveva acuito il suo dolore. Ma il momento si approssimava. L'orologio della Trinità de' Monti suonò le tre e tre quarti. Egli pensò, con una trepidazione profonda: «Fra pochi minuti Elena sarà qui. Quale atto io farò accogliendola? Quali parole io le dirò?» L'ansia in lui era verace e l'amore per quella donna era in lui rinato veracemente; ma la espressione verbale e plastica de' sentimenti in lui era sempre così artificiosa, così lontana dalla semplicità e dalla sincerità, che egli ricorreva per abitudine alla preparazione anche ne' più gravi commovimenti dell'animo. Cercò d'immaginare la scena; compose alcune frasi; scelse con gli occhi intorno il luogo più propizio al colloquio. Poi anche si levò per vedere in uno specchio se il suo volto era pallido, se rispondeva alla circostanza. E il suo sguardo, nello specchio, si fermò alle tempie, all'attaccatura dei capelli, dove Elena allora soleva mettere un bacio delicato. Aprì le labbra per mirare la perfetta lucentezza dei denti e la freschezza delle gengive, ricordando che un tempo ad Elena piaceva in lui sopra tutto la bocca. La sua vanità di giovine viziato ed effeminato non trascurava mai nell'amore alcun effetto di grazia o di forma. Egli sapeva, nell'esercizio dell'amore, trarre dalla sua bellezza il maggior possibile godimento. Questa felice attitudine del corpo e questa acuta ricerca del piacere appunto gli cattivavano l'animo delle donne. Egli aveva in sé qualche cosa di Don Giovanni e di Cherubino: sapeva essere l'uomo di una notte erculea e l'amante timido, candido, quasi verginale. La ragione del suo potere stava in questo: che, nell'arte d'amare, egli non aveva ripugnanza ad alcuna finzione, ad alcuna falsità, ad alcuna menzogna. Gran parte della sua forza era nella ipocrisia. «Quale atto io farò accogliendola? Quali parole io le dirò?» Egli si smarriva, mentre i minuti fuggivano. Egli non sapeva già con quali disposizioni Elena sarebbe venuta. L'aveva incontrata la mattina innanzi per la via de' Condotti, mentre ella guardava nelle vetrine. Era tornata a Roma da pochissimi giorni, dopo una lunga assenza oscura. L'incontro improvviso aveva dato ad ambedue una commozione viva; ma la pubblicità della strada li aveva costretti ad un riserbo cortese, cerimonioso, quasi freddo. Egli le aveva detto, con un'aria grave, un po' triste, guardandola negli occhi: - Ho tante cose da raccontarvi, Elena. Venite da me, domani? Nulla è mutato nel buen retiro. - Ella aveva risposto, semplicemente: - Bene; verrò. Aspettatemi alle quattro, circa. Ho anch'io qualche cosa da dirvi. Ora lasciatemi. Ella aveva accettato sùbito l'invito, senza esitazione alcuna, senza metter patti, senza mostrar di dare importanza alla cosa. Una tal prontezza aveva da prima suscitato in Andrea non so qual preoccupazione vaga. Sarebbe ella venuta come un'amica o come un'amante? Sarebbe venuta a riallacciare l'amore o a rompere ogni speranza? In quei due anni che era mai accaduto nell'animo di lei? Andrea non sapeva; ma gli durava ancóra la sensazione avuta dallo sguardo di lei, nella strada, quando egli erasi inchinato a salutarla. Era pur sempre il medesimo sguardo, così dolce, così profondo, così lusinghevole, tra i lunghissimi cigli. Mancavano due o tre minuti all'ora. L'ansia dell'aspettante crebbe a tal punto ch'egli credeva di soffocare. Andò alla finestra, di nuovo, e guardò verso le scale della Trinità. Elena, un tempo, saliva per quelle scale ai convegni. Mettendo il piede sull'ultimo gradino, si soffermava un istante; poi traversava rapida quel tratto di piazza ch'è d'innanzi alla casa dei Casteldelfino. Si udiva il suo passo un poco ondeggiante risonare sul lastrico, se la piazza era silenziosa. L'orologio batté le quattro. Giungeva dalla piazza di Spagna e dal Pincio il romore delle vetture. Molta gente camminava sotto gli alberi, d'innanzi alla Villa Medici. Due donne stavano sul sedile di pietra, sotto la chiesa, a guardia di alcuni bimbi che correvano intorno l'obelisco. L'obelisco era tutto roseo, investito dal sole declinante; e segnava un'ombra lunga, obliqua, un po' turchina. L'aria diveniva rigida, come più s'appressava il tramonto. La città, in fondo, si tingeva d'oro, contro un cielo pallidissimo sul quale già i cipressi del Monte Mario si disegnavano neri. Andrea trasalì. Vide un'ombra apparire in cima alla piccola scala che costeggia la casa dei Casteldelfino e discende su la piazzetta Mignanelli. Non era Elena; ma una signora che voltò per la via Gregoriana, camminando adagio. «S'ella non venisse?» dubitò, ritraendosi dalla finestra. E nel ritrarsi dall'aria fredda, sentì più molle il tepore della stanza, più acuto il profumo del ginepro e delle rose, più misteriosa l'ombra delle tende e delle portiere. Pareva che in quel momento la stanza fosse tutta pronta ad accogliere la donna desiderata. Egli pensò alla sensazione che Elena avrebbe avuto entrando. Certo, ella sarebbe stata vinta da quella dolcezza così piena di memorie; avrebbe d'un tratto perduta ogni nozione della realtà, del tempo; avrebbe creduto di trovarsi ad uno de' convegni abituali, di non aver mai interrotta quella pratica di voluttà, d'esser pur sempre la Elena d'una volta. Se il teatro dell'amore era immutato, perché sarebbe mutato l'amore? Certo, ella avrebbe sentita la profonda seduzione delle cose una volta dilette. Allora cominciò nell'aspettante una nuova tortura. Gli spiriti acuiti dalla consuetudine della contemplazione fantastica e del sogno poetico danno alle cose un'anima sensibile e mutabile come l'anima umana; e leggono in ogni cosa, nelle forme, ne' colori, ne' suoni, ne' profumi, un simbolo trasparente, l'emblema d'un sentimento o d'un pensiero; ed in ogni fenomeno, in ogni combinazion di fenomeni credono indovinare uno stato psichico, una significazione morale. Talvolta la visione è così lucida che produce in quegli spiriti un'angoscia: si sentono essi come soffocare dalla pienezza della vita rivelata e si sbigottiscono de' loro stessi fantasmi. Andrea vide nell'aspetto delle cose intorno riflessa l'ansietà sua; e come il suo desiderio si sperdeva inutilmente nell'attesa e i suoi nervi s'indebolivano, così parve a lui che l'essenza direi quasi erotica delle cose anche vaporasse e si dissipasse inutilmente. Tutti quegli oggetti, in mezzo a' quali egli aveva tante volte amato e goduto e sofferto, avevano per lui acquistato qualche cosa della sua sensibilità. Non soltanto erano testimoni de' suoi amori, de' suoi piaceri, delle sue tristezze, ma eran partecipi. Nella sua memoria, ciascuna forma, ciascun colore armonizzava con una immagine muliebre, era una nota in un accordo di bellezza, era un elemento in una estasi di passione. Per la natura del suo gusto, egli ricercava negli amori un gaudio molteplice: il complicato diletto di tutti i sensi, l'alta commozione intellettuale, gli abbandoni del sentimento, gli impeti della brutalità. E poiché egli ricercava con arte, come un estetico, traeva naturalmente dal mondo delle cose molta parte della sua ebrezza. Questo delicato istrione non comprendeva la commedia dell'amore senza gli scenarii. Perciò la sua casa era un perfettissimo teatro; ed egli era un abilissimo apparecchiatore. Ma nell'artificio quasi sempre egli metteva tutto sé; vi spendeva la ricchezza del suo spirito largamente; vi si obliava così che non di rado rimaneva ingannato dal suo stesso inganno, insidiato dalla sua stessa insidia, ferito dalle sue stesse armi, a somiglianza d'un incantatore il quale fosse preso nel cerchio stesso del suo incantesimo. Tutto, intorno, aveva assunto per lui quella inesprimibile apparenza di vita che acquistano, ad esempio, gli arnesi sacri, le insegne d'una religione, gli strumenti d'un culto, ogni figura su cui si accumuli la meditazione umana o da cui l'immaginazione umana poggi a una qualche ideale altezza. Come una fiala rende dopo lunghi anni il profumo dell'essenza che vi fu un giorno contenuta, così certi oggetti conservavano pur qualche vaga parte dell'amore onde li aveva illuminati e penetrati quel fantastico amante. E a lui veniva da loro una incitazione tanto forte ch'egli n'era turbato talvolta come dalla presenza d'un potere soprannaturale. Pareva, in vero, ch'egli conoscesse direi quasi la virtualità afrodisiaca latente in ciascuno di quegli oggetti e la sentisse in certi momenti sprigionarsi e svolgersi e palpitare intorno a lui. Allora, s'egli era nelle braccia dell'amata, dava a sé stesso ed al corpo ed all'anima di lei una di quelle supreme feste il cui solo ricordo basta a rischiarare una intiera vita. Ma s'egli era solo, un'angoscia grave lo stringeva, un rammarico inesprimibile, al pensiero che quel grande e raro apparato d'amore si perdeva inutilmente. Inutilmente! Nelle alte coppe fiorentine le rose, anch'esse aspettanti, esalavano tutta la intima lor dolcezza. Sul divano, alla parete, i versi argentei in gloria della donna e del vino, frammisti così armoniosamente agli indefinibili colori serici nel tappeto persiano del XVI secolo, scintillavano percossi dal tramonto, in un angolo schietto disegnato dalla finestra, e rendevan più diafana l'ombra vicina, propagavano un bagliore ai cuscini sottostanti. L'ombra, ovunque, era diafana e ricca, quasi direi animata dalla vaga palpitazion luminosa che hanno i santuarii oscuri ov'è un tesoro occulto. Il fuoco nel camino crepitava; e ciascuna delle sue fiamme era, secondo l’immagine di Percy Shelley, come una gemma disciolta in una luce sempre mobile. Pareva all'amante che ogni forma, che ogni colore, che ogni profumo rendesse il più delicato fiore della sua essenza, in quell'attimo. Ed ella non veniva! Ed ella non veniva! Sorse allora nella mente di lui, per la prima volta, il pensiero del marito. Elena non era più libera. Aveva rinunziato alla bella libertà della vedovanza, passando in seconde nozze con un gentiluomo d'Inghilterra, con un Lord Humphrey Heathfield, alcuni mesi dopo l'improvvisa partenza da Roma. Andrea infatti si ricordava di aver visto l'annunzio del matrimonio in una cronaca mondana, nell'ottobre del mille ottocento ottanta cinque; e d'aver sentito fare su la nuova Lady Helen Heathfield una infinità di commenti per tutte le villeggiature di quell'autunno romano. Anche si ricordava di avere incontrato una decina di volte, nel precedente inverno, quel Lord Humphrey ai sabati della principessa Giustiniani-Bandini e nelle vendite pubbliche. Era un uomo di quarant'anni, d'una biondezza cinerea, calvo su le tempie, quasi esangue, con due occhi chiari ed acuti, con una grande fronte sporgente solcata di vene. Il suo nome, Heatfield, era ben quello del luogotenente generale che fu l'eroe della celebre difesa di Gibilterra (1779-83), reso immortale anche dal pennello di Joshua Reynolds. Qual parte aveva quell'uomo nella vita di Elena? Da quali legami, oltre che dalle nozze, era Elena legata a colui? Quali trasformazioni aveva operato in lei il contatto materiale e spirituale del marito? Gli enigmi sorsero d'un tratto nell'animo di Andrea, tumultuariamente. In mezzo al tumulto, gli apparve netta e precisa l’immagine del connubio fisico di que' due; e il dolore fu così insopportabile ch'egli si levò col balzo istintivo d'un uomo il quale si senta d'improvviso ferire in un membro vitale. Attraversò la stanza, uscì nell'anticamera, origliò alla porta ch'egli aveva lasciata socchiusa. Eran quasi le cinque meno un quarto.
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