Capitolo I-3

2100 Parole
Dopo un poco, egli udì su per le scale un passo, un fruscio di vesti, un respiro affaticato. Certo, una donna saliva. Tutto il sangue gli si mosse con tal veemenza, che, snervato dalla lunga aspettazione, egli credeva di smarrire le forze e di cadere. Ma pure udì il suono del piede femminile su gli ultimi gradini, un respiro più lungo, il passo sul pianerottolo, su la soglia. Elena entrò. - Oh, Elena! Finalmente. Era in quelle parole così profonda l'espressione dell'angoscia durata che alla donna apparve su le labbra un'indefinibile sorriso, misto di misericordia e di piacere. Egli le prese la destra, ch'era senza guanto, traendola verso la stanza. Ella ansava ancóra; ma aveva per tutto il volto diffusa una lieve fiamma, sotto il velo nero. - Perdonatemi, Andrea. Ma non ho potuto liberarmi prima d'ora. Tante visite... tanti biglietti da restituire... Sono giornate faticose. Non ne posso più. Come fa caldo qui! Che profumo! Ella stava ancóra in piedi, nel mezzo della stanza; un po' titubante e preoccupata, sebbene parlasse rapida e leggera. Un mantello di panno Carmélite, con maniche nello stile dell'Impero tagliate dall'alto in larghi sgonfi, spianate e abbottonate al polso, con un immenso bavero di volpe azzurra per unica guarnitura, le copriva tutta la persona senza toglierle la grazia della snellezza. Ella guardava Andrea, con gli occhi pieni di non so che sorriso tremulo che ne velava l'acuta indagine. Disse: - Voi siete un poco mutato. Non saprei dirvi in che. Avete ora nella bocca, per esempio, qualche cosa di amaro ch'io non conosceva. Disse queste parole con un tono di familiarità affettuosa. La voce di lei, risonando nella stanza, dava ad Andrea un diletto così vivo ch'egli esclamò: - Parlate, Elena; parlate ancóra! Ella rise. E domandò: - Perché? Egli rispose, prendendole la mano: - Voi lo sapete. Ella ritrasse la mano; e guardò il giovine fin dentro gli occhi. - Io non so più nulla. - Voi siete dunque mutata? - Molto mutata. Già il «sentimento» li traeva ambedue. La risposta di Elena chiariva d'un tratto il problema. Andrea comprese; e, rapidamente ma precisamente, per un fenomeno d'intuizione non raro in certi spiriti esercitati all'analisi dell'essere interiore, intravide l'attitudine morale della visitatrice e lo svolgimento della scena che doveva seguire. Egli però era già tutto invaso dalla malia di quella donna, come una volta. Inoltre, la curiosità lo pungeva forte. Disse: - Non sedete? - Sì, un momento. - Là, su la poltrona. - Ah, la mia poltrona! - ella stava per dire, con un moto spontaneo, poiché l'aveva riconosciuta; ma si trattenne. Era una seggiola ampia e profonda, ricoperta d'un cuoio antico, sparso di Chimere pallide a rilievo, in sul gusto di quello che ricopre le pareti d'una stanza del palazzo Chigi. Il cuoio aveva preso quella tinta calda e opulenta che ricorda certi fondi di ritratti veneziani, o un bel bronzo conservante appena una traccia di doratura o una scaglia di tartaruga fina da cui trasparisca una foglia d'oro. Un gran cuscino, tagliato in una dalmatica, d'un colore assai disfatto, di quel colore che i setaiuoli fiorentini chiamavano rosa di gruogo, rendeva molle la spalliera. Elena sedette. Posò su l'orlo della tavola da tè il guanto destro e il portabiglietti ch'era una sottile guaina d'argento liscio con sopra incise due giarrettiere allacciate, recanti un motto. Quindi si tolse il velo, sollevando le braccia per sciogliere il nodo dietro la testa; e l'atto elegante destò qualche onda lucida nel velluto: alle ascelle, lungo le maniche, lungo il busto. Poiché il calore del camino era soverchio, ella si fece schermo con la mano nuda che s'illuminò come un alabastro rosato: gli anelli nel gesto scintillarono. Ella disse: - Coprite il fuoco; vi prego. Brucia troppo. - Non vi piace più la fiamma? Ed eravate, un tempo, una salamandra! Questo camino è memore... - Non movete le memorie - ella interruppe. - Coprite dunque il fuoco, e accendete un lume. Io farò il tè. - Non volete togliervi il mantello? - No, perché debbo andar via presto. E' già tardi. - Ma soffocherete. Ella si levò, con un piccolo atto d'impazienza. - Aiutatemi, allora. Andrea sentì, nel toglierle il mantello, il profumo di lei. Non era più quello d'una volta; ma era d'una tal bontà che gli giunse fino ai precordii. - Avete un altro profumo - egli disse, con un accento singolare. Rispose ella, semplicemente: - Sì. Vi piace? Andrea, ancóra tenendo il mantello fra le mani, affondò il volto nella pelliccia che ornava il collo e che più quindi era profumata dal contatto della carne e de' capelli di lei. Poi chiese: - Come si chiama? - E' senza nome. Ella di nuovo sedette su la poltrona, entrando nel chiaror della fiamma. Aveva un abito nero, tutto composto di merletti in mezzo a cui brillavano perline innumerevoli, nere e d'acciaio. Il crepuscolo moriva contro i vetri. Andrea accese su i candelabri di ferro certe candele attorte, di colore aranciato molto intenso. Poi trasse d'innanzi al caminetto il parafuoco. Ambedue, in quell'intervallo di silenzio, erano nell'animo perplessi. Elena non aveva la coscienza esatta del momento, né la sicurezza di sé; pur tentando uno sforzo, non riusciva a riafferrare il suo proposito, a raccogliere le sue intenzioni, a riprendere la sua volontà. D'innanzi a quell'uomo a cui un tempo l'aveva stretta una così alta passione, in quel luogo dove ella aveva vissuto la sua più ardente vita, sentiva a poco a poco tutti i pensieri vacillare, dissolversi, dileguarsi. Ormai il suo spirito stava per entrare in quello stato delizioso, direi quasi di fluidità sentimentale, in cui riceve ogni movimento, ogni attitudine, ogni forma dalle vicende esterne, come un vapore aereo dalle mutazioni dell'atmosfera. Esitava, prima di abbandonarvisi. Andrea disse, piano, quasi umile: - Va bene, così? Ella gli sorrise, senza rispondere, poiché quelle parole le avevano dato un diletto indefinibile, quasi un tremolio di dolcezza a sommo del petto. Incominciò la sua opera delicata. Accese la lampada sotto il vaso dell'acqua; aprì la scatola di lacca, dov'era conservato il tè, e mise nella porcellana una quantità misurata d'aroma; poi preparò due tazze. I suoi gesti erano lenti e un poco irresoluti, come di chi operando abbia l'animo rivolto ad altro oggetto; le sue mani bianche e purissime avevano nel muoversi una leggerezza quasi di farfalle, non parendo toccare le cose ma appena sfiorarle; dai suoi gesti, dalle sue mani, da ogni lieve ondulamento del suo corpo usciva non so che tenue emanazion di piacere e andava a blandire il senso dell'amante. Andrea, seduto da presso, la guardava con gli occhi un poco socchiusi, bevendo per le pupille il fascino voluttuoso che nasceva da lei. Era come se ogni moto divenisse per lui tangibile idealmente. Quale amante non ha provato questo inesprimibile gaudio, in cui par quasi che la potenza sensitiva del tatto si affini così da avere la sensazione senza la immediata materialità del contatto? Ambedue tacevano. Elena s'era abbandonata sul cuscino: aspettava che l'acqua bollisse. Guardando la fiamma azzurra della lampada, toglieva dalle dita gli anelli, e se li rimetteva di continuo, smarrita in un'apparenza di sogno. Non era un sogno, ma come una rimembranza vaga, ondeggiante, confusa, fuggevole. Tutte le memorie dell'amor passato le risorgevano nello spirito, ma senza chiarezza: e le davano una espressione incerta ch'ella non sapeva se fosse un piacere o un dolore. Pareva come quando da molti fiori estinti, de' quali ciascuno ha perduto ogni singolarità di colori e di effluvi, nasce una comune esalazione in cui è possibile riconoscere i diversi elementi. Pareva ch'ella portasse in sé l'ultimo alito dei ricordi già spirati, l'ultima traccia delle gioie già scomparse, l'ultimo risentimento della felicità già morta, qualche cosa di simile a un vapor dubbio da cui emergessero immagini senza nome, senza contorno, interrotte. Ella non sapeva se fosse un piacere o un dolore; ma a poco a poco quell'agitazione misteriosa, quella inquietudine indefinibile aumentavano e le gonfiavano il cuore di dolcezza e di amarezza. I presentimenti oscuri, i segreti rimpianti, i timori superstiziosi, le aspirazioni combattute, i dolori soffocati, i sogni travagliati, i desiderii non appagati, tutti quei torbidi elementi che componevano l'interior vita di lei ora si rimescolavano e tempestavano. Ella taceva, tutta raccolta in sé. Mentre il suo cuore quasi traboccava, ella godeva accumularvi ancóra col silenzio la commozione. Parlando, ella l'avrebbe dispersa. Il vaso dell'acqua incominciò a levare il bollore pianamente. Andrea su la sedia bassa, tenendo il gomito poggiato al ginocchio e il mento nella palma, guardava ora la bella creatura con tale intensità ch'ella, pur non volgendosi, sentiva su la sua persona quella persistenza e ne aveva quasi un vago malessere fisico. Andrea, guardandola, pensava: «Io ho posseduto questa donna, un giorno.» Egli ripeteva a sé stesso l'affermazione, per convincersi; e faceva, per convincersi, uno sforzo mentale, richiamava alla memoria una qualche attitudine di lei nel piacere, cercava di rivederla fra le sue braccia. La certezza del possesso gli sfuggiva. Elena gli pareva una donna nuova, non mai goduta, non mai stretta. Ella era, in verità, ancor più desiderabile che una volta. L'enigma quasi direi plastico della sua bellezza era ancor più oscuro e attirante. La sua testa dalla fronte breve, dal naso dritto, dal sopracciglio arcuato, d'un disegno così puro, così fermo, così antico, che pareva essere uscita dal cerchio d'una medaglia siracusana, aveva negli occhi e nella bocca un singolar contrasto di espressione: quell'espressione passionata, intensa, ambigua, sopraumana, che solo qualche moderno spirito, impregnato di tutta la profonda corruzione dell'arte, ha saputo infondere in tipi di donna immortali come Monna Lisa e Nelly O' Brien. «Altri ora la possiede» pensava Andrea, guardandola. «Altre mani la toccano, altre labbra la baciano.» E, mentre egli non giungeva a formar nella fantasia l’immagine dell'unione di sé con lei, vedeva nuovamente invece, con implacabile precisione, l'altra immagine. E una smania l'invadeva, di sapere, di scoprire, d'interrogare, acutissima. Elena s'era chinata al tavolo, poiché il vapore fuggiva, per la commessura del coperchio, dal vaso bollente. Versò appena un poco d'acqua sul tè; poi mise due pezzi di zucchero in una sola tazza; poi versò sul tè altra acqua; poi spense la fiamma azzurra. Ella fece tutto questo con una cura quasi tenera, ma senza mai volgersi ad Andrea. L'interno tumulto risolvevasi ora in un intenerimento così molle ch'ella si sentiva chiudere la gola e inumidire gli occhi; e non poteva resistere. Tanti pensieri contrarii, tante contrarie agitazioni e alterazioni dell'animo si raccoglievano ora in una lacrima. Ella, per un gesto, urtò il portabiglietti d'argento, che cadde sul tappeto. Andrea lo raccolse, e guardò le due giarrettiere incise. Portava ciascuna un motto sentimentale: From Dreamland - A stranger hither; Dal Paese del Sogno - Straniera qui. Com'egli levava gli occhi, Elena gli offerì la tazza fumante, con un sorriso un poco velato dalla lacrima. Vide egli quel velo; e innanzi a quell'inaspettato segno di tenerezza fu invaso da un tale impeto d'amore e di riconoscenza che posò la tazza, s'inginocchiò, prese la mano d'Elena, sopra vi mise la bocca. - Elena! Elena! Le parlava a voce bassa, in ginocchio, così da vicino che pareva volesse beverne l'alito. L'ardore era sincero, mentre le parole talvolta mentivano. «Egli l'amava, l'aveva sempre amata, non aveva mai mai mai potuto dimenticarla! aveva sentito, rincontrandola, tutta la sua passione insorgere con tal violenza che n'aveva avuto quasi terrore: una specie di terrore ansioso, come s'egli avesse intravisto, in un lampo, lo sconvolgimento di tutta la sua vita.» - Tacete! Tacete! - disse Elena, con il volto atteggiato di dolore, pallidissima. Andrea seguitava, sempre in ginocchio, accendendosi nell'immaginazione del sentimento. «Egli aveva sentito trascinar via da lei, in quella fuga improvvisa, la maggior e miglior parte di sé. Dopo, egli non sapeva dirle tutta la miseria dei suoi giorni, l'angoscia de' suoi rimpianti, l'assidua implacabile divorante sofferenza interiore. La tristezza era per lui in fondo a tutte le cose. La fuga del tempo gli era un supplizio insopportabile. Non tanto egli rimpiangeva i giorni felici quanto si doleva de' giorni che ora passavano inutilmente per la felicità. Quelli almeno gli avevan lasciato un ricordo: questi gli lasciavano un rammarico profondo, quasi un rimorso... La sua vita si consumava in sé stessa, portando in sé la fiamma inestinguibile d'un sol desiderio, l'incurabile disgusto d'ogni altro godimento. Talvolta lo assalivano impeti di cupidigia quasi rabbiosi, disperati ardori verso il piacere; ed era come una ribellion violenta del cuore non saziato, come un sussulto della speranza che non si rassegnava a morire. Talvolta anche gli pareva d'esser ridotto a nulla; e rabbrividiva innanzi ai grandi abissi vacui del suo essere: di tutto l'incendio della sua giovinezza non gli restava che un pugno di cenere. Talvolta anche, a simiglianza d'uno di que' sogni che si dileguano su l'alba, tutto il suo passato, tutto il suo presente si dissolvevano; si distaccavano dalla sua coscienza e cadevano, come una spoglia fragile, come una veste vana. Egli non si ricordava più di nulla, come un uomo escito da una lunga infermità, come un convalescente stupefatto. Egli alfine obliava; sentiva l'anima sua entrar dolcemente nella morte... Ma, d'improvviso, su da quella specie di tranquillità obliosa scaturiva un nuovo dolore e l'idolo abbattuto risorgeva più alto come un germe indistruttibile. Ella, ella era l'idolo che seduceva in lui tutte le volontà del cuore, rompeva in lui tutte le forze dell'intelletto, teneva in lui tutte le più segrete vie dell'anima chiuse ad ogni altro amore, ad ogni altro dolore, ad ogni altro sogno, per sempre, per sempre...»
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