Fu così che, nel 1452, Ser Piero di Antonio da Vinci convolò a nozze con Albiera di Giovanni Amadori, la quale gli diede solo una figlia, Antonia, che purtroppo morì troppo presto.
Al battesimo di Leonardo, nella chiesa parrocchiale di Santa Croce a Vinci, erano assenti sia il padre, sia la madre, che, non essendo sposati, non potevano partecipare alla cerimonia religiosa.
A breve anche Caterina, per salvare l’onore, fu costretta a maritarsi con Antonio di Piero Buti del Vacca, un contadino di Campo Zeppi chiamato da tutti l’Accattabriga. L’uomo, sotto una discreta ricompensa, accettò il matrimonio. In realtà non fu un grande sacrificio, Caterina era di una bellezza sconcertante e questo faceva dimenticare le sue umili origini.
La bella serva abbandonò la sua misera casa, ma continuò ad allattare il figlioletto per un breve periodo. In quei momenti di sconfinato amore Leonardo la fissava con i piccoli occhi da uccellino, respirava il suo odore, si cibava di lei e Caterina lo custodiva ancora nel suo grembo, lo proteggeva, lo accarezzava, si addormentava con lui, cantava per lui con voce melodiosa. Distaccarsi dal figlio fu quanto di più atroce per la giovane mamma, quel cordone ombelicale, però, sarebbe sempre stato la fonte di vita di Leonardo.
Per sistemarsi la coscienza, Ser Antonio cedette all’Accattabriga il mulino con la vecchia fornace di ceramica da cui l’uomo ricavò un forno per sfornare pane e dolci e sbarcare il lunario.
Piero da Vinci non abbandonò mai completamente Leonardo, almeno fisicamente. Quando non era a Firenze, andava con la moglie Albiera nella casa dei genitori a trovare quel figliolo amato e odiato, ogni volta si sorprendeva nel vederlo così cresciuto e sempre più bello.
Leonardo aveva già sei anni e una mente sorprendentemente attenta e ingorda, ma non gli fu concesso andare a scuola o familiarizzare con gli altri bambini. Imparò a leggere e a scrivere grazie allo zio Francesco che, pur non essendo in grado di insegnare al nipote il latino o la filosofia dei classici, si rivelò un bravo maestro. Leonardo apprendeva con grande facilità e riportava tutto senza filtri con la scrittura sgraziata dalla sua mano sinistra, la mano del diavolo.
Quello zio, dedito più all’ozio che al lavoro, aveva una mente curiosa, si intendeva di molte cose sul mondo della natura e della scienza, sapeva scrivere senza troppi errori, conosceva la grammatica e la matematica e se la cavava bene nella conversazione.
Mai avrebbe immaginato, Leonardo, quanto l’esempio di Ser Francesco da Vinci lo avrebbe ispirato per sempre, di lui imitò la maniera smodata e sconclusionata di vivere e, come lui, scelse di rigirare le regole mantenendo sempre una sicura indifferenza verso l’opinione pubblica.
Vinci, oggi
Ascanio se ne stava seduto immobile e teneva tra le mani, dure come la pietra, le pagine logorate dal tempo di quello che doveva essere stato il diario segreto di Leonardo da Vinci. I fogli ridotti a un velo pesavano come una zavorra. Uno sguardo disorientato gli segnava il volto.
Non era solito perdere la calma, sapeva governare le tempeste interne, mostrava sempre una certa sicurezza nei gesti e nel tono di voce ogni volta che doveva affrontare le difficoltà, ma questa volta la paura dell’ignoto lo risucchiava.
Quando gli ordinarono di trasferire l’attività a Firenze iniziò il calvario tipico di ogni trasloco: macchinari da smontare, mobili da svuotare, libri da archiviare, muri da ripulire. Per carattere, ogni volta che gli si dava un ordine lo eseguiva come un soldato, con disciplina e rigore, mascherando la stanchezza.
“Abbiamo preparato una bella torta,” dissero le sorelle Bastogi. Antonia e Marisa Bastogi, nonostante l’età, avevano una voce giovane e cristallina. Entrarono reggendo una torta cosparsa di petali di fiori e una bottiglia di spumante per festeggiare.
Sembrava la scena di un film: in mezzo al disordine, alla polvere e al rumore del trapano, appaiono due creature profumate di mughetto e vestite con abiti e cappelli colorati. A Ascanio scappò un sorriso.
Come lo videro, bianco in faccia e con lo sguardo stralunato, si occuparono di lui.
“Sono fiori commestibili, senti che leggero sapore di liquirizia ha l’angelica su questa torta al latte e il pizzico di piccante che dà la calendula? Lo senti?” disse Marisa muovendo i suoi piccoli e vispi occhi azzurri. “Chissà… magari questa ricetta è tra i fogli rilegati che hai trovato,” aggiunse irrigidendo appena i lineamenti.
“Quali fogli rilegati?” La voce uscì a fatica. Non aveva più provato a parlare dopo lo shock.
“Quelli che prima, con aria sconvolta, cercavi di leggere. Sai Ascanio, su quelle pagine girano strane voci, ma nessuno ha mai veramente creduto nella loro esistenza. La leggenda di un diario segreto di Leonardo custodito a Vinci, però, è proliferata e a quanto pare è tutto vero,” disse Antonia con gli occhiali calati e un sorriso a metà.
“Puoi capire il nostro sconcerto quando lo hai trovato.” Marisa parlava con grande pacatezza anche di fronte alle emozioni più devastanti.
“Quindi avete visto?”
“Quando siamo entrate per parlarti questa mattina, non ci hai neppure considerate, eravamo invisibili ai tuoi occhi, tenevi tra le mani un libricino antico che cadeva a pezzi e lo sfioravi con le lacrime agli occhi, da brave streghe abbiamo ipotizzato subito cosa potesse essere,” disse Antonia.
“Adesso che faccio? Che cazzo faccio! Se penso a cosa ho trovato vorrei urlarlo al mondo oppure urlarmi dentro!”
“Intanto mangiamo il dolce e poi riprendiamo in mano il diario, può essere un grande inganno come qualcosa che ti cambia la vita. Antonia e io lo studieremo con attenzione usando le nostre conoscenze e i metodi di analisi a nostra disposizione.”
L’aria serafica di Marisa un po’ infastidiva Ascanio che avvertiva il bisogno di agire subito.
“Potrebbe essere la vostra fortuna.”
“No Ascanio, lo hai trovato tu, noi non saremmo in grado di gestire una scoperta così sconvolgente, se fosse vera. Non siamo più giovani e ci sta bene rimanere le streghe che tutti pensano che siamo. Dopo anni di studi, ricerche, congressi in giro per il mondo e tesi sul Rinascimento siamo stanche, questo mondo non ci piace più, preferiamo cucinare dolci con i fiori, leggere i tarocchi e scoprire codici antichi, è più divertente che impelagarci in qualche guaio. Ce l’abbiamo messa tutta per non adattarci ai cambiamenti! Tu, invece, hai un grande senso degli affari e sorprendenti capacità, non potrai che fare cose giuste,” disse Antonia prendendogli una mano con fare materno.
“Forza, tagliamo questa torta,” concluse Ascanio ancora scosso. Avvertì una leggera forza filtrare, una timida energia che presto sarebbe diventata un uragano. Mentre rifletteva su questo, l’uragano arrivò.
Sara Paddington scese con un paio di occhiali da sole più grandi del suo viso, le labbra rosse brillavano da lontano, dal cappello stile borsalino scendevano boccoli rossi. Era impossibile non notarla!
La donna posò i suoi grandi occhi castani prima su Ascanio, che versava lo spumante, poi sulle due sorelle, che mangiavano pan di spagna e petali di rosa e mise su una delle sue espressioni ironiche.
“Quando si dice tombeur de femmes,” osservò con la sua voce calda e graffiata, poi prese un bicchiere e si unì al brindisi di cui ignorava il motivo, ma lei adorava festeggiare le sciocchezze.
Dal momento in cui Sara era entrata nella sua vita, Ascanio aveva perso la testa, quella creatura sapeva sorprenderlo e coinvolgerlo come nessun’altra. La donna era una ricercatrice universitaria in storia del Rinascimento ed era anche l’insegnante di storia dell’arte di sua figlia Penelope. Si erano incontrati la prima volta a uno dei colloqui tra professori e genitori da cui Ascanio cercava sempre di scappare, era sua moglie l’esempio di genitore perfetto in famiglia. Come la vide si innamorò di quella bellezza inquieta e ancora adesso, ogni volta che gli occhi di brace e il sorriso intrigante di Sara si trovavano a pochi centimetri da lui, provava una vertigine infinita.
“Qui ci starebbe bene il mio whisky, lo sto sperimentando da mesi!”
“Distilli liquori?”
“Mi chiamo Paddington, tesoro, il mio bisnonno nel 1929, in pieno proibizionismo, finì in galera distillando whisky a Brooklyn. Porto solo avanti l’arte di famiglia!”
Lui si allontanò qualche minuto per rispondere alla telefonata del suo capo che gli confermava l’arrivo della squadra addetta al trasloco. Quando tornò vide Sara ridere con le eleganti signore, buttava indietro la testa scoprendo il collo bianco e delicato, teneva il calice con due dita, diede un ultimo sorso stringendo le labbra carnose e chiese dell’altro spumante, poi, schiarendo la voce, brindò alle cose più assurde.
“Vuoi dire a Sara cosa stiamo realmente festeggiando?” suggerì Antonia, anche la voce era zuccherosa.
Quelle parole lo colsero alla sprovvista. Sgranò gli occhi, non era pronto a confidare un simile segreto, neppure a Sara. Cosa era venuto in mente alle Bastogi? Come si erano permesse di prendere per lui una decisione così importante?
“Rimani a Vinci? È a questo che brindiamo?” Gli buttò le braccia al collo.
“Non lo so ancora, Paddington,” disse prendendole il viso tra le mani. Si arrese: “Devo raccontarti una storia che ti sembrerà folle”. Era agitato, sapeva che una volta detta la parola non torna indietro.
“Mi piaci quando mi racconti delle storie folli.”
“Questa, però, è proprio folle, Paddington.”
“Sono pronta,” disse lei sfiorandogli le labbra.
Vinci, 1462
Leonardo era incuriosito da tutto quello che non conosceva e dall’odore che arrivava dal forno del suo patrigno. Nel magazzino, tra vasi, recipienti e ampolle, scorse grosse pignatte in ebollizione, dentro un liquido scuro galleggiavano delle scorie dall’odore pungente.
Su un foglio erano annotati i nomi degli ingredienti, si concentrò per tradurre la scrittura dell’Accattabriga e lesse:
Pietra di Menfi per alterare e intorpidire i sensi;
foglie e radici di Mandragora per dare vigore e infondere effetti afrodisiaci;
Celidonia o erba di Santa Chiara per portare fortuna ma anche per esercitare il male;
Capelvenere per alimentare discrezione e modestia;
Manna, ottenuta dalla linfa della corteccia di Frassino, sostanza divina per allontanare le negatività;
Vischio per fare innamorare e ancora polvere di argento e oro, radici di fiori di loto.
Smise di leggere ma la lista era lunghissima.
Se non sono pozioni magiche queste... pensò.
Gli piaceva guardare il patrigno mentre impastava, mescolava, sfornava. L’estratto delle piante e la polpa dei frutti scivolavano nelle uova, venivano inghiottiti dalla farina, ricoperti dalla cannella e dagli agrumi canditi, amalgamati nel composto di mandorle tritate e zenzero.
L’astuto Accattabriga vendeva le sue magiche leccornie a caro prezzo a mariti gelosi e sospiranti fanciulle perse dietro amori impossibili, cavalieri senza coraggio, mercanti che volevano raddoppiare i loro denari.
“Otterrete il vostro scopo solo mangiando queste delizie, madonna. Ogni giorno dovrete servire al vostro amante i miei dolci pasticci e non dimenticate la crema rossa fatta con l’ingrediente segreto. In poco tempo dimenticherà quell’appassita e grigia ereditiera e sceglierà il vostro sole, non potrà fare a meno della primavera che avete in corpo.”
Leonardo sorrideva per l’arte dell’adulazione del patrigno, ma dopo la poesia, Accattabriga presentava il conto con grande naturalezza.
Caterina aveva troppi figli a cui accudire, dopo Leonardo era arrivata Piera e un altro maschio da allattare sarebbe nato a breve. La bella serva ora aiutava il marito solo quando il lavoro diventava insostenibile o quando l’uomo si inventava un nuovo dolce.
Nei periodi di grande operosità il pasticcere chiedeva l’aiuto del figlioccio e riuniva la famiglia.
Di quei giorni Leonardo avrebbe ricordato le urla e i modi burberi del patrigno e il canto melodioso della madre mentre impastava, gli odori della legna che ardeva nel forno e la frutta con il malto che si scioglievano lenti nel miele, le nuvole di farina che lo impolveravano di bianco e, soprattutto, avrebbe ricordato le albe viste sorgere sfornando pan dolce e torte.
Il ragazzo aveva il senso del gusto e dell’odorato molto sensibili, percepiva subito i sapori agri, il retrogusto dolciastro, gli arrivavano al naso e alla gola sfumature piccanti e amare che gli provocavano piccoli brividi e affondava nel piacere riempiendosi la bocca di paste gocciolanti di aromi.