Capitolo I-V-1

2028 Parole
Capitolo I-V I Una tepida brezza primaverile sospingeva lentamente per l’azzurro del cielo delle leggere nuvole bianche, che non bastavano a velare il bel sereno; un profumo di lillà e di rose era nell’aria; i primi germogli delle piante, il verde dei parti, davano un’impronta di gaiezza tenera e dolce a tutta la natura. Sul largo viale soleggiato, che conduce al cimitero degli Inglesi, a Firenze, passava, appoggiato alla spalla di una giovinetta, bella come un amore, un vecchio alto e magro, che indossava un lungo palamidone color polvere, e aveva in capo un berretto di ugual colore, da cui usciva una ciocca di capelli candidi come la neve. Era un grazioso quadro, che avrebbe tentato il pennello d’un artista. Il vecchio, dal sembiante venerabile, ma pallido, sofferente, come se uscisse da una lunga malattia, formava un singolare contrasto con la fanciulla, piena di vita, dal volto bianco e vermiglio, dalle lunghe trecce di un biondo dorato, dagli occhi di un azzurro profondo, vivi, intelligenti. Però, a guardar bene, si capiva che erano padre e figlia, perché avevano gli stessi lineamenti, lo stesso colore degli occhi, dallo sguardo risoluto, un po’ distratto. A pochi passi dietro di loro, quasi seguendo ogni movimento della fanciulla, il cui corpo flessibile si smarriva nella specie di tunica che indossava, seguiva un giovane assai modestamente vestito, bruno, d’aspetto timido, dal volto regolare, distinto, illuminato da due grand’occhi neri, appassionati, da una bocca espressiva, ma che doveva raramente sorridere. Il vecchio s’era fermato dinanzi la cancellata che recinge il cimitero, sulle cui tombe fioriscono le rose, s’inalzano svelti i cipressi e si piegano i salici piangenti, che, mossi dal vento, hanno un mormorio come di preghiera. - Non sai Adriana, - disse – che ogni qualvolta mi fermo qui, mi viene la nostalgia della morte. Si deve riposar bene sotto i fiori, in un angolo così ridente… - Babbo, non pensare a melanconie, ora che stai bene ed il medico assicura che sei perfettamente guarito, - rispose la fanciulla. – E così bella la vita! Il vecchio sorrise, e riprese a camminare. - Hai ragione, - soggiunse – alla tua età non si ha bisogno di pensare a cose tristi: attraversiamo il vile, Adriana. Il giovane, che si era egli pure soffermato, continuò a seguirli, ma né il vecchio né la fanciulla badavano a lui, e forse non l’avevano neppure visto. Padre e figlia erano giunti in mezzo al viale, e non s’accorsero d’una grossa pietra, che sbarrava loro il passo. Il vecchio v’inciampò, piegando le ginocchia, e la fanciulla dovette sostare per sorreggerlo. In quel momento, un calesse, a cui era attaccato un focoso cavallo, che aveva preso la mano al cocchiere, giunse come una freccia verso di loro: Adriana intuì il pericolo, gettò un grido, tirando indietro con violenza suo padre. Ma già il giovane, che li seguiva, si era slanciato dinanzi all’infuriato animale, dando tempo anche alla fanciulla di scansarsi. Però il generoso non riuscì a fermarlo, ed a sua volta travolto, gettato a terra, calpestato, rimase in mezzo al viale privo di sensi, mentre il cavallo riprendeva furioso la corsa. Adriana non poté a meno di pensare che quel giovane, a lei sconosciuto, aveva esposta la propria vita per salvare la sua e quella del padre. Ma né il vecchio, né gli altri accorsi, che si affollavano attorno al caduto, intuirono la verità. Per essi il misero giovane era un coraggioso, che, con uno slancio forse temerario, data la sua gracilità, aveva creduto di poter trattenere il cavallo che fuggiva, e non vi era riuscito. Nessuno dei presenti lo conosceva. Venne sollevato con ogni riguardo, e portato a braccia in una farmacia poco distante. Adriana e suo padre seguirono il triste convoglio. Dal farmacista vi era un medico, che riscontrò diverse ferite, fra cui una gravissima al capo, dovuta alla zampa ferrata dell’inferocito animale, per la qual cosa, dopo una sommaria medicazione, consigliò il trasporto dell’infelice all’ospedale. Ma prima venne frugato negli abiti, per saper chi egli fosse, e non trovarono, che alcuni versi, scritti a matita, su un mezzo foglio di carta da lettera e senza firma, un piccolo portafogli logoro, con pochi denari. - Papà. – disse in inglese la fanciulla al vecchio – sarebbe nostro obbligo accompagnarlo all’ospedale, venire in suo aiuto per quanto possa occorrergli, perché il povero giovane, arrischiando la vita, ha salvata la mostra, gettandosi dinanzi al cavallo, dandoci tempo si scostarci, altrimenti stati noi stessi investiti. - Hai fatto bene a dirmelo, - rispose il vecchio nella stessa lingua – ero così stordito per avere inciampato in quella pietra, che nel sentire il tuo grido, ho creduto provenisse dal timore di vedermi cadere; non mi son accorto del pericolo corso di rimanere schiacciato da quel calesse, neppure quando mi hai tirato indietro con violenza e ho visto quel giovane steso a terra. Poi, rivoltosi al medico, lo pregò in italiano che andasse a prendere una carrozza, perché si sarebbe egli stesso preso cura di quello sconosciuto rimasto vittima del suo coraggio, e l’avrebbe accompagnato con sua figlia all’ospedale. Venne subito esaudito; i presenti encomiarono il vecchio, e Adriana sentì che qualcuno sussurrava dietro a lei; - È il generale Cherinton, il proprietario della villa Fata, un milionario che vuol bene al popolo. Se quel giovane non muore, avrà di certo trovata la sua fortuna. La carrozza era giunta. Lo svenuto venne posto con ogni riguardo sui cuscini, sorretto dal medico, che sedette accanto a lui. Nella stessa carrozza salirono il generale e la figlia. Durante il tragitto, il medico diede alcune spiegazioni al vecchio, dicendogli che temeva una commozione cerebrale, a causa dell’orribile ferita al capo. Intanto la giovinetta esaminava, con pietà mista ad interessamento, il volto bello e regolare del ferito, di un pallore di morte, in cui spiccavano le ciglia nere vellutate, ed i baffetti nascenti, pur neri, che gli ombreggiavano il labbro superiore. Nelle sue passeggiate col padre, Adriana aveva incontrato più volte quel giovane pallido, bruno, negletto negli abiti, che l’aveva guardata con una ammirazione rispettosa, con un’eloquenza muta. Ma egli non aveva occupato a lungo il suo pensiero. Però, dopo il suo atto coraggioso, lo sconosciuto le appariva come un eroe da romanzo, ed ella provava una commozione acuta, all’idea che dovesse soccombere. E diceva in cuor suo: Povero giovane, forse a casa una madre lo aspetta… e sarà disperata, nell’apprendere la sventura toccata a suo figlio. Dio… Dio mio, fate che non muoia! Lagrime silenziose le rigavano le gote. La vettura era giunta dinanzi all’ospedale. Il giovane non aveva dato altro segno di vita, che dei lievi trasalimenti, i quali gli contraevano il volto, senza che aprisse gli occhi. Lo sconosciuto, a richiesta del generale, venne portato in una camera a pagamento. I medici corsero al suo letto e furono tutti unanimi nel dichiarare, che le ferite al capo erano gravissime, tali da metterlo in pericolo dio vita. Il generale era rattristato. - E non sapere chi sia! – mormorò. – Forse ha una famiglia che l’aspetta. Come avvertirla? - I giornali riporteranno stasera il fatto, - gli risposero – e può essere sicuro che qualcuno si presenterà per vederlo. - Se i regolamenti lo concedono, - soggiunse il generale – manderei qui a vegliare presso il ferito una persona fidata, con l’ordine di trasmettermi col telefono le condizioni del giovane, e di avvertirmi se si aggravasse. - Lo può benissimo, perché il malato è in una camera a pagamento, di prima classe, - gli fu risposto. - Badate che io assumo tutte le spese che possono abbisognare, e non si faccia risparmio né di professori, né di cure, purché si riesca a salvarlo. - Stia certo sapremo adempire al nostro dovere fino all’ultimo… Il generale passò con sua figlia all’amministrazione, per lasciare una somma in deposito, e mance generose a tutti. Voleva pure ricompensare il medico, che l’aveva accompagnato all’ospedale, ma questi nobilmente rifiutò. Il vecchio e sua figlia tornarono a casa nella stessa vettura che aveva trasportato il ferito. - Una passeggiata che era cominciata così bene, doveva finire tanto tragicamente! – disse il vecchio. La fanciulla alzò i suoi occhi cerulei, velate di lacrime sul volto di lui. - Oh! Papà, tu credi proprio che muoia? - Speriamo di no, mia cara, sarebbe doloroso che una giovane vita dovesse terminare così miseramente. E tu sei proprio persuasa, Adriana, che senza di lui, uno di noi sarebbe ora al suo posto? - Oh! Sì papà, - rispose con calore la fanciulla. – Il mio grido l’ha fatto lanciare di fronte al cavallo, e ci ha dato il tempo di salvarci. Chiuse gli occhi come in uno spasimo, quasi avesse ancora dinanzi a sé l’orribile visione. Il generale si strinse al petto la fanciulla con un brivido. - Se penso che poteva toccare a te, mi par di impazzire, mentre si accresce la mia riconoscenza verso colui: ah! sta’ pure certa, che se egli guarisce ed è povero, io gli farò uno stato; se muore, non abbandonerò la sua famiglia. Adriana non rispose: tenne la testa appoggiata al petto del padre, e rimase silenziosa. La villa Fata sorgeva nello stesso viale, dov’era avvenuta la disgrazia. Era una villa principesca, che portava il nome della madre di Adriana, una fiorentina, morta assai giovane, che il generale aveva teneramente amata. La contessina Fata Bellani, orfana di padre, era stata una delle più belle e ammirate fanciulle della aristocrazia fiorentina. Molti avevano aspirato alla sua mano, ma la giovinetta era giunta ai vent’anni, senza aver incoraggiato alcuno e senza che il suo cuore conoscesse l’amore, ed ignorava tutte le bassezze e le corruzioni del mondo, come quella che aveva al fianco una madre oltre ogni dire virtuosa. Ad un ricevimento dato al Casino Borghesi, verso la fine di un carnevale, in onore di alcuni ufficiali inglesi, venne presentato alla contessina Bellani il colonnello Ulrico Cherinton, un giovane ufficiale superiore, ricco, che tutte le belle signore si disputavano e che dicevano, al pari di lei, inaccessibile all’amore. Invece bastò ai due giovani vedersi, ballare una sola volta una quadriglia insieme, per scambiarsi il cuore, per sentire che sarebbero legati l’uno all’altra per la vita. Pochi anni dopo, Ulrico Cherinton conduceva a Londra la sua leggiadra sposina italiana, che divenne presto l’ornamento dei saloni aristocratici. Ma la sua delicata natura, che ritraeva quella del padre, non poté resistere a lungo al clima umido dell’Inghilterra. La nascita di una bambina indebolì ancora più il suo gracile petto… e un brutto giorno, quando sentì mancarsi, desiderò il bel cielo d’Italia, la sua soleggiata Firenze. - Io vorrei morire nella mia patria, vicino a mia madre, esser seppellita nella tomba dei miei… - disse al marito. Ulrico, che l’adorava, non seppe negarle questo suo desiderio. L’accompagnò egli stesso a Firenze colla bambina, che venne affidata alla suocera, e sperò che l’aria nativa producesse un miracolo, e gli serbasse in vita la donna che amava. - Io darò le mie dimissioni, - le diceva – e ci stabiliremo in questa città che ti ha veduta nascere non vorrà toglierti la vita. Il palazzo della tua famiglia è triste, non fatto per te, che hai bisogno di luce, gaiezza, sorrisi. Farò fabbricare appositamente una palazzina per te, un vero nido di Fata, degno del tuo nome. Un sorriso ineffabile di felicità, un sorriso d’angelo errava sulle labbra scolorite dell’inferma. - Come sei buono, Ulrico mio! Come vorrei vivere per te, per la nostra Adriana! La palazzina era sorta come per incanto nel viale che Fata aveva sempre prediletto, ed il giorno che vi fu condotta con sua madre e la sua figlioletta, e poté ammirare tutti gli splendori e le comodità, fu per lei un giorno di paradiso. Piangeva come una bambina; e attaccata al collo del marito, non sapeva trovar parole per ringraziarlo; lo copriva di baci appassionati. - Come ti senti? – le chiedeva dolcemente Ulrico. - Benissimo, tienimi fra le tue braccia così, sempre così! Era molto pallida, ansava. - Ti trovi stanca, Fata mia? - No, no… sono felice. Ma quella felicità non doveva durare a lungo; il miglioramento fu passeggero, ed una sera, quando si trovava distesa sull’amaca in giardino, ella attirò la testa del marito al suo gracile petto, e gli mormorò pian piano: - Ulrico, fammi una promessa. - Parla, amore mio. - Io ti ho amato molto, non ho amato altri che te nella vita, e non vorrei che ti allontanassi da me, dopo la mia morte. - Ma tu vivrai, mia cara, - rispose Ulrico, che sentiva spezzarsi il cuore – i medici non disperano. - Essi s’ingannano; sento purtroppo che tutto sta per finire, e vorrei che tu mi giurassi che, quando avrai compiuto il termine del tuo servizio, ti stabilirai a Firenze colla nostra bambina e mia madre, e non lascerai più la mia patria: giuralo, Ulrico.
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