Capitolo I-V-2

2075 Parole
- Te lo giuro, Fata, se il mio giuramento può renderti tranquilla. - Oh, grazie, grazie; la nostra Adriana vedi, morrebbe anche lei, in mezzo alle nebbie, al freddo di Londra, ed è tutto ciò che ti rimarrà di me. - No, perché le nostre anime saranno congiunte per l’eternità. - Oh, Ulrico mio, amor mio, - mormorò l’inferma, ebbra di una felicità, quasi celestiale, - sì… noi non ci separeremo mai; e quando parlerai a nostra figlia, io sarò invisibile fra voi, come lo sarò sempre in tutti gli atti della vostra vita. Ulrico, baciami… baciami ancora… e poi va’ a prendere la nostra Adriana… Egli obbedì col cuore spezzato. Il giorno seguente, allo spuntar del sole, Fata non era più. Il dolore di Ulrico fu silenzioso, ma atroce. Un mese dopo ripartiva per Londra, affidando sua figlia alla contessa Bellani, perché voleva ultimare i suoi due ultimi anni di servizio, come aveva desiderato la morta, per aver quindi il diritto di ritirarsi e stabilirsi a Firenze, come aveva giurato. Quando lasciò l’esercito inglese, aveva il grado di generale, e una rendita valutata a parecchi milioni. E mantenne il giuramento. La madre di Fata non sopravvisse molti anni alla figlia, e lasciò essa pure un ingente patrimonio ad Adriana, che era l’adorazione del padre e la mira di tutta la gioventù dorata e blasonata fiorentina. Ulrico aveva messo al fianco della figliuola una bravissima istitutrice, la signorina Jane, una zitella attempata, appartenente a famiglia nobile decaduta, molto istruita, di aspetto simpatico, di temperamento dolce e modesto. Ma il vero maestro della fanciulla, colui che aveva formata l’educazione del cuore e della mente di Adriana, fu il padre. Ed egli andava orgoglioso dell’opera sua. Perché Adriana univa, ad un’alterezza innata, un cuore aperto ai più delicati sentimenti, uno spirito elevato, superiore alla sua età, un’indole vivace, generosa, una coltura non comune. Quando il generale si ammalò per la prima volta dacché era al mondo, il suo unico spavento fu quello di dover abbandonare la fanciulla in un’età, nella quale aveva maggior bisogno del suo appoggio e dei suoi consigli. E chiese a Dio di risparmiarlo, fino a quando non avesse affidata la sua Adriana in mani oneste e sicure, non le avesse dato un compagno degno di lei, e che le asciugasse le lacrime che avrebbe versate alla sua morte. Dio aveva accolta la sua preghiera, l’aveva risparmiato! E la sua malattia gli fece apprezzare ancora di più il tesoro che possedeva. Perché Adriana era stata per lui l’infermiera più assidua, devota, delicata. Essa non aveva voluto affidare ad altri la cura di assistere suo padre, di vegliarlo. Si era fatta mettere un letto nella medesima stanza, per non staccarsene un solo istante. E qual gioia per lei nel vederlo riprendere ogni giorno forza, nel vederlo migliorare! Adriana, che aveva guidati i suoi primi passi di convalescente nel giardino, che lo faceva seder come i bambini sugli erbosi sedili, gli si metteva vicina, raccontandogli ciò che aveva letto nei suoi giornali favoriti, felice di vederlo ascoltare in estasi, e sorridere. Il giorno che il medico annunziò alla fanciulla la guarigione del padre e si licenziò, perché il generale poteva uscire e camminare liberamente per i viali, fu un giorno di grande letizia per tutti. Adriana aveva voluto farne subito la prova, ma la loro prima gita era stata fermata dalla tragica scena, che la fanciulla non avrebbe più dimenticata. II Per alcune settimane, il giovane era stato fra la vita e la morte. Fu un’alternativa di speranze e di timori da parte dei medici, che avevano preso molto interesse all’ammalato; del generale Cherinton e di sua figlia, che erano informati quotidianamente della lotta che si combatteva in quel fragile corpo d’uomo, che pur si attaccava disperatamente all’esistenza; dei fiorentini, che, saputo dai giornali, come il disgraziato fosse stato vittima di uno slancio generoso, si occupavano di lui; e all’ospedale era un andirivieni continuo di persone, per chiederne notizie. Intanto si era saputo che il giovane aveva nome Paolo Ardenti; egli era stato allevato da un povero curato di campagna, che avrebbe voluto avviarlo alla carriera ecclesiastica, essendo il ragazzo d’ingegno pronto, di carattere mite e sognatore; ma il povero sacerdote non poté veder effettuato il suo desiderio, perché era morto in conseguenza di un terribile morbo contratto per assistere negli ultimi momenti un infermo, quando Paolo aveva poco più o poco meno di quattordici anni. Il ragazzo, solo al mondo, senza aver conosciuto i suoi genitori, senza parenti, senza amici, con pochi soldi in tasca, si recò a Firenze per trovare lavoro. Egli si era impiegato presso un tipografo, che preso da compassione per lui, avendogli Paolo raccontata ingenuamente la sua semplice storia, lo tenne in casa come un figliolo, gl’insegnò il mestiere del compositore, dandogli intanto modo di continuare ad istruirsi, a studiare, avendolo conosciuto abbastanza intelligente e con molta volontà di apprendere. Ma la sua fortuna non durò che pochi anni. Il principale morì improvvisamente, senza neppur avere avuto tempo di disporre del suo, di dettare le sue ultime volontà, nelle quali, forse, il povero Paolo non sarebbe stato dimenticato; ed il nipote successogli, l’unico erede, divenuto padrone della tipografia, trovò modo di licenziare il povero giovane, perché lo zio l’aveva spesso umiliato dinanzi a lui, additandoglielo ad esempio. Paolo provò un vero dolore, ma non ebbe nemmeno una parola di sdegno per chi lo scacciava; anzi lo difese contro coloro che si erano indignati per il malo procedere dell’ingrato erede, e lo biasimavano altamente; e Paolo serbò tuttavia in cuore un vivo senso di gratitudine per il suo defunto benefattore. Il giovane avrebbe trovato presto da occuparsi in un’altra tipografia, ma preferì invece entrare come aiuto nell’amministrazione di un giornale, con la speranza di poter passare più tardi nel numero dei redattori. La paga era meschina, egli viveva molto modestamente, in casa di una vedova, che gli dava alloggio e pensione, più per buon cuore che per guadagno. Tuttavia l’impiego lasciava al solerte Paolo alcune ore di libertà, che gli servivano per dedicarsi agli studi letterari, per i quali sentiva una speciale inclinazione. La vedova Cesira Gabbi, presso la quale Paolo abitava, non vedendo il giovane rincasare all’ora solita, ebbe quasi il presentimento di una disgrazia. Ed il suo presentimento divenne certezza, quando seppe la sera, dai vicini, che un giovane sconosciuto, nel viale poco distante, aveva coraggiosamente affrontato un cavallo che fuggiva trascinandosi dietro un calesse, e ne era stato travolto, calpestato, ferito, tanto che lo avevano trasportato moribondo all’ospedale di Santa Maria Nuova. La padrona di casa corse subito là, e dopo aver date le sue spiegazioni al custode di servizio, venne fatta passare nella camera del ferito. La signora Cesira riconobbe tosto il suo pensionante e dopo avere appreso come il generale Cherinton si fosse occupato di Paolo, alzò le mani al cielo: - È stata una carità fiorita, - disse con voce commossa – ma, pur troppo, il poveretto non godrà nemmeno questa volta di una fortuna; è nato sotto una cattiva stella. Povero Paolo! Egli è una vera pasta di zucchero; timido, rispettoso come una fanciulla bene educata, non ha vizi; io non l’ho mai sentito bestemmiare, non mi ha mai dato noia. Quando è a casa, se ne sta sempre nella sua stanza a scrivere o a leggere: è puntuale al suo impiego, come all’ora del desinare e della cena; mangia quanto un uccellino, parla poco, non l’ho mai veduto fumare, né credo che in vita sua sia mai entrato in un caffè, né in un teatro, o abbia avuto relazioni con donne. È una fenice, ve l’assicuro. E dite… dovrà morire?... Le risposero che il pericolo era gravissimo, e non potavano ancora pronunziarsi. In quel mentre era giunto l’incaricato del generale per chiederne notizie e domandare se si era saputo chi fosse: allora la vedova Gabbi si offerse di recarsi essa stessa da quel signore, per dargli tutti i ragguagli che desiderava. Era quasi trascorso un mese dal fatto successo, quando una mattina, dopo un sonno di dodici ore, Paolo riaprì gli occhi alla vita. Uno dei medici, che gli era in quell’istante vicino, scorse in quegli occhi i primi lampi di intelligenza… guardavano attorno con una specie di meraviglia, poi si fissavano sull’uomo, che era da un lato del letto e gli teneva il polso… - Dove sono? – mormorò. La sua voce era così fioca, che si sentì appena. Il medico si chinò con un sorriso verso l’ammalato: - Siete in luogo dove tutti vi curano con amore, - rispose – ma non vi è permesso ancora di discorrere, vi stanchereste troppo. Versò egli stesso una cucchiaiata di una medicina che era sul comodino, e la porse a Paolo che la sorbì avidamente. Poi i suoi occhi si chiusero di nuovo, in un sonno riparatore, che annunziava la sua prossima guarigione. Il giovane era salvo. Quando incominciò a comprendere e parve più forte, gli raccontarono tutto quanto era avvenuto. Nel sentire che il generale Cherinton e sua figlia si erano presi cura di lui e doveva ad essi il benessere di cui si vedeva circondato all’ospedale e le premure di tutti, il giovane provò una tale commozione, che poco mancò non svenisse. Riavutosi, ripeteva macchinalmente: - Ma davvero?!... Non è un sogno questo? - No, no, è la realtà – risposero. – Ma voi come conoscete il generale? Gli avete parlato qualche volta? Il suo pallore si cambiò in un rosso ardente. - No, mai! – ripeté. – Lo conosco di vista, perché l’orto della mia padrona di casa confina con la cancellata, che è dietro la villa dell’inglese. E socchiuse gli occhi, perché gli era apparsa dinanzi la visione di una fanciulla bionda, vestita di bianco, con le trecce sciolte sulle spalle, un sorriso angelico sulle labbra rosee, gli occhi azzurri come il cielo, che aveva spiata più volte dietro il fitto inviluppo di fogli, che formava come una spessa cortina nell’interno del cancello. Paolo aveva, in un certo punto, diradata alquanto quella cortina, ed era rimasto dell’ore intere a contemplare l’angelica creatura, la quale si dondolava su di un’amaca appesa fra gli alberi, mentre il padre, sdraiato su di una poltrona di vimini a breve distanza, leggeva un giornale. Era possibile che la fanciulla l’avesse notato, e quel giorno avesse compreso come egli arrischiasse, senza esitare, la vita per salvare la sua e quella del generale? Mentre passava i giorni fantasticando, ormai quasi in piena convalescenza, un pomeriggio che sedeva presso un terrazzo aperto, che guardava nel giardino dell’ospedale, gli fu annunziata la visita di Ulrico Cherinton. Paolo si alzò, bianco come un panno lavato, ma fu incapace di fare un passo, e di pronunziare una parola… Il generale entrò col sorriso sulle labbra, e andandogli incontro colle mani tese: - Così mio giovane amico, - gli disse nel dolce idioma italiano – va molto meglio, a quanto vedo, e non potete immaginare come ne sono contento. Paolo aveva le lacrime agli occhi- - Oh! generale, come ringraziarvi di tanta bontà, di tanta generosità? Come dimostrarvi la mia riconoscenza? - Col riprendere fiducia nella vita, amarmi un poco, accettare quello che vi offrirò. Permettete intanto che chiuda la vetrata del terrazzo, perché c’è vento, e questo non può giovarvi, poi vi rimetterete a sedere, altrimenti costringerete anche me, a rimanere in piedi. Tutto ciò fu detto in tono così schietto ed amabile, mentre univa l’atto alle parole, che il giovane ne fu sempre più commosso, ed a stento poté porgere egli stesso una seggiola al gentiluomo. L’infermiere era uscito dalla stanza, chiudendo l’uscio, lasciando soli i due uomini. Vi fu un momento di silenzio. Paolo era un po’ confuso per la singolare attenzione con cui il generale lo guardava. - Voi sapete il primo motivo per cui mi sono interessato di voi – disse con voce commossa il generale. Paolo divenne rosso, come vergognoso. - Sì, generale, perché vi siete trovato presente quando io caddi sotto le zampe di quell’infuriato animale, - balbettò. - Ma senza il vostro slancio, la vostra abnegazione, quelle zampe sarebbero passate sul mio corpo e su quello della mia adorata Adriana, - soggiunse Ulrico con vivacità. – La vostra modestia v’impedisce di confessarlo. - Se voi fosse stato travolto, generale, - mormorò Paolo – vostra figlia si sarebbe disperata; se fosse stata ferita, voi sareste forse morto dal dolore; nessuno, invece, poteva piangere, disperarsi per me, perché la mia vita val tanto poco… - Non dite così, - interruppe Ulrico – nessuno deve disprezzare la vita, tanto più quando si è giovani ed onesti come voi. Io non vi conosco che per quello che ho saputo dalla vostra padrona Cesira Gabbi e dai vostri compagni di lavoro, che vi amano e vi stimano; ma ciò è bastato, perché prendessi a cuore la vostra sorte. Ascoltatemi, amico mio; io desidero farvi uscire dalla misera condizione in cui siete stato finora, ma bisogna che abbiate piena fiducia in me, che mi confidiate sinceramente tutto quanto vi riguarda, non mi nascondiate dove siete nato, chi furono i vostri genitori…
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