IIQuel pomeriggio, saranno state le quindici, con il sole alto e vivo, io ero già da un pezzo a passeggio per la città avendo evitato di coricarmi dopo colazione. Tra l’altro la mia stanza al Làvariog non mi piaceva più come i primi giorni, tranne che per il fastoso palcoscenico della finestra. Ero preso da una sorta di sazietà dei troppi tappeti, vasi, ornamenti e mobili inutili. L’arredamento, a Làvar, è inteso come obbligo di riempire quanto è possibile la cubatura di una camera, dentro cui ci si muove con mille cautele e scomodità. Avevo percorso nei giorni precedenti, sia a piedi, sia nelle leggere carrozzelle — somiglianti ai risciò — trainate da piccoli cavalli eleganti e impetuosi, quasi tutti gli itinerari importanti e, per così dire, d’obbligo; il palazzo e il giardino del Principe, la piazza del Mercato maggiore, il grande Tempio di Abà, il quartiere degli Scuri. Per chiarimento del lettore avverto che la popolazione di Làvar è divisa in due caste o classi: i Chiari, cioè individui dal colorito appena abbronzato, e da cui sortono sacerdoti, governanti, ufficiali, e gli Scuri, pressoché negri, che esercitano i mestieri e le mansioni più modeste. Sarebbe un errore chiamarli bianchi e neri, perché i vocaboli che li distinguono, Nia e Boi, significano esattamente chiaro e scuro. Chiari e Scuri sono simili nella nervosa eccitazione che li fa alacri e solo apparentemente affaccendati. Le strade di Làvar, per lo più strette e frequentemente interrotte da brevi scalinate, contorte e buie, piegantisi ad angolo retto come certe callette veneziane, sono sempre animatissime. Di tanto in tanto la folla si indrappella in cortei o processioni improvvisate. Non si sa come nascano, sono sfilate che si originano spontaneamente. Basta un nulla, basta che un magro e spiritato ragazzo percorra una strada suonando una specie di flauto. Subito, come i topi della favola, escono dalle corti e dagli anditi altri ragazzi, e poi un uomo con un tamburo, un altro. Dopo un po’ una piccola folla percorre le strade e accompagna con la voce, con il battere delle mani e con strumenti improvvisati, la semplice melopea scandita dal flauto. Altri cortei, altre parate, di soli bambini, ho visto sfilare più di una volta nelle stradùcole di Làvar, cortei mascherati, o, in un certo senso, processioni rituali il cui significato mi sembrò, e non è, chiaro. Bambini dai sei ai dieci anni vi partecipavano, ornati tutti di abbondanti barbe: barbe posticce, vegetali, di colore biancastro, che essi stessi fabbricano pazientemente sfilacciando gli alti steli di una pianta detta «caref». Tali barbe imitano quelle dei vecchi; e il giuoco consiste infatti in una imitazione o parodia della vecchiaia. Di essa un altro attributo è il bastone, su cui i bambini si appoggiano, simulando l’andatura incerta, il curvarsi della persona e il trèmito delle mani. Alcuni si truccano il viso, disegnandovi in nero inverosimili rughe. L’effetto, più che umoristico è in certo senso macabro. I ragazzini orribilmente impegnati a fingersi vecchi cadenti sfilano tra due ali di popolo, e una specie di giuria decreta quali dei piccoli attori debbano essere premiati con dolci e balocchi; cioè indica i bambini che meglio sono riusciti a imitare il portamento, i gesti e la voce di un vegliardo. Del bambino più bravo si dice che sarà un uomo saggio e giusto, perché pare segno di saggezza comportarsi, giovanissimi, come se si fosse vecchi. Questo, almeno per me, è il significato della mascherata; ma il mio albergatore mi disse che essa è anche rievocazione di un fatto storico (decisivo intervento in una battaglia di vecchi e di bambini).
In sostanza si tratta di uno spettacolo che alla lunga infastidisce uno straniero, quando addirittura non lo rattrista profondamente.
Estri improvvisi e, per il forestiero, insensati; così quelli da cui sono prese le donne che nell’ombra dei cortili lavano panni o fanno altre faccende. D’improvviso una di loro getta un urlo e immediatamente, di cortile in cortile, altre grida isteriche le rispondono. Per cinque minuti la contrada risuona, in modo quasi sinistro, o se si vuole da manicomio, di strilli che sembrano gareggiare nel raggiungere mas- sima durata e intensità. Si spengono di colpo, quelle voci forsennate, così come sono sorte, senza alcuna ragione.
Andavo dunque un po’ a caso, quel giorno, indugiandomi nelle strade popolari che conducono alla Porta Occidentale: c’è sempre da godere, in tali strade, lo spettacolo dei capannelli che si formano qua e là attorno a un improvvisato oratore; il quale è spesso un venditore di frutta, di sale, o di modesta oreficeria. L’amore per i discorsi complicati è tale che spesso venditore e acquirente sembrano dimenticare il vero scopo del loro incontrarsi; o pare che vogliano dilazionarlo, o camuffarlo sotto aspetto di scommessa. Mi fermai a osservare, per l’appunto, la scena di una scommessa: il venditore offriva in regalo un intero sacco di mele, a occhio un mezzo quintale, ad un giovane scuro se egli fosse stato capace di divorarle sul posto. Scommessa assurda cui tuttavia lo scuro non si sottraeva, cercando soltanto di ingarbugliare i termini e di complicare le norme, il tempo, le garanzie.
Alla fine si misero d’accordo sulla cessione delle mele per un modestissimo prezzo. Erano entrambi soddisfatti, notai, essendo riusciti nel comune intentò di sfoggiare eloquenza e perdere tempo. Difatti avevano impiegato circa mezz’ora nell’amichevole contrattazione.
Ripresi a camminare, rifiutando la carrozzella che mi veniva offerta, di quando in quando, con la formula tradizionale: «Il mio cavallo mi incarica di dirle che porterebbe volentieri un signore come lei». Finché, stanco, giunsi davanti al Tempio dedicato alla Medin (la Madre), che avevo già visitato. Sapevo che vi avrei goduto una piacevole frescura e inoltre non mi dispiaceva guardare ancora una volta le belle sculture di marmo colorato. Vi entrai. Il tempio era deserto; ma non me ne stupii. Mi fermai poco oltre la soglia a guardare i grandi agili archi rialzati rincorrentisi lungo la navata, sorretti da colonne, tutte disuguali e minuziosamente scolpite; osservai la decorazione musiva del pavimento, esasperante groviglio di motivi decorativi, le strette alte finestre e infine la grande lampada in oro e argento massicci, pènduta al centro del Tempio, essa costituisce un importante cimelio, provenendo da una Moschea, abbattuta nel XVIII secolo, quando, a conclusione di lotte sanguinose, gli ultimi maomettani — già da tempo isolati in un quartiere — erano stati scacciati da Làvar.
Ho detto che il Tempio era deserto e difatti, dopo qualche minuto che vi ero entrato, fui colpito dal prolungarsi di un silenzio insolito, troppo teso e quasi minaccioso che mi circondava. Di solito nei Templi si odono preghiere e certe curiose forme di solenni conversazioni che i fedeli tengono con le immagini marmoree della Divina Famiglia.
Nelle undici Chiese di Làvar non vi sono sedie, sgabelli o inginocchiatoi: si prega stando accoccolati o sdraiati sul pavimento, ad eccezione del Principe, per il quale in ogni Tempio vi è un grande cuscino di velluto nero ricamato in oro che nessuno, fuorché lui, può usare. Mi avvicinai alla enorme statua della Medin con il Bambino gravemente seduto sulle sue ginocchia, osservando come lo scultore avesse concentrato tutta la sua perizia nel volto del pargolo, con il capo ricoperto di riccioli simili a conchiglie: la madre, si sentiva, era stata per l’artista, poco più che un pretesto plastico, una base, un sostegno.
Non per mancanza di riguardo, ma per stanchezza appoggiai le braccia alla cancellata che circonda, in cerchio, la statua e, per qualche istante, chiusi gli occhi. Non dormii, ché la posizione scomoda non me lo consentiva, tuttavia fui preda di uno di quei mancamenti di coscienza da cui si esce, dopo pochi secondi, come ci si destasse da un lungo sonno.
Aperti gli occhi e volgendoli qua e là, stordito, mi avvidi che da un portello aperto sulla parete verso cui ero rivolto, una gialla faccia, un viso umano, infine, ma brutto, mi fissava con una espressione di intenso sgomento e quasi di terrore. Subito disparve, sicché anche il mio sbigottimento cessò, dando luogo a una imprecisata impressione che sarebbe stato poco prudente restare ancora nel Tempio. Ma non feci in tempo a uscirne.
Otto o dieci persone entrarono cautamente, in fila indiana, dalla porta principale e, dopo essersi sdraiati per una breve preghiera, però tenendo sempre me sotto il tiro degli sguardi, mi si avvicinarono e mi circondarono. Erano — li contai — nove volti, diciotto occhi neri e ardenti che mi fissavano ostilmente; peraltro dalle bocche non usciva la minima esclamazione. Fui io, stupito e sgomento, a tirar fuori faticosamente un filo di voce per chiedere che cosa volessero da me. Subito una scura mano mi tappò la bocca, mentre il dito indice di altre mani si portava perpendicolarmente in direzione del naso nell’universale gesto che significa silenzio. Stringendo il cerchio attorno a me, con piccole spinte e gesti mi si fece intendere die dovevo muovermi verso l’uscita: il che feci peritosamente, cercando di mostrare che non avevo nessuna intenzione di voler resistere, ma che tuttavia ero offeso e sdegnato.
Come uscimmo nella luce piena della piazza, mentre io, abbagliato, sbattevo le palpebre e stupidamente guardavo d’attorno con aria interrogativa, gli uomini che mi avevano per così dire catturato, cui subito se ne erano aggiunti altri, uscirono dal silenzio che si erano imposti nel Tempio e presero a parlare fittamente, gridando ogni tanto come in coro parole di minaccia, di cui nella mia confusione intendevo più l’intenzione che le sospingeva che non il senso. In quel momento non riuscivo a capire, né a pronunciare, una sola parola della lingua che avevo imparato. Qualcuno agitava i pugni davanti al mio viso, qualche altro si afferrava le orecchie portandone in fuori i lobi; che è, presso i Làvari, il segno della massima ostilità e del disprezzo. Esasperato afferrai per l’orlo della tunica, scuotendolo, colui che mi stava di fronte, ma egli scoprendo i denti in un orribile sorriso mi puntò contro il ventre un piccolo pugnale. In quel momento irruppero in mezzo alla piccola folla che mi teneva prigioniero due « ubellah », cioè due soldati del Principe.
Si fece un breve silenzio, in mezzo al quale dopo un po’ si levò a parlare uno dei miei catturatori: un uomo magro e barbuto, che la fascia nera senza ornamenti, intorno alla vita, rivelava come appartenente all’ultimo grado della casta sacerdotale; non prete, ma custode del Tempio: qualche cosa come da noi un sacrestano. Egli tenne un lungo discorso, la cui prolissità era da me sofferta in anticipo, pieno di perifrasi, di pause eloquenti, di gesti di indignazione e di pietà. Avrei dovuto sforzarmi di capire quanto l’uomo andava enfaticamente dicendo, ma, a parte che il discorso era farcito di parole non dell’uso e che io ignoravo, l’interna agitazione mi impediva di concentrarmi o, meglio, mi impediva di uscire dalla concentrazione dei pensieri che mi attraversavano la mente. In essa, del lungo discorso, penetravano soltanto alcune parole quali delitto, sacrilegio e offesa il cui significato non era dubbio e che mi fecero intendere di essere colpevole, senza volerlo, di una qualche trasgressione al modo di comportarsi nel tempio. Forse, pensai velocemente mentre l’uomo concludeva la sua lunga accusa o testimonianza che fosse, forse han creduto che io mi sia addormentato nel Tempio, il che dev’essere considerato mancanza di riguardo. Quando il sacrestano si tacque, i due ubellah mi si posero uno per fianco; subito la folla fece ala silenziosamente, salvo qualche imprecazione soffocata che sentivo lanciarmi da qualcuno. Rimasto solo con i due militi, giacché i curiosi si tenevano ormai a rispettosa distanza, tentai di rivolgere qualche domanda come: «dove andiamo» e «di che cosa mi incolpate». Ma ebbi in risposta due energici inviti al silenzio pronunciati contemporaneamente e con tono minaccioso.
Mi rassegnai a seguirli senza protestare; attraversammo il quartiere dei mercanti, poi quello dei sapienti, e di lì a poco ci trovammo nella via dove sorge l’albergo Làvariog. Con stupore misto a speranza vidi che ci dirigevamo proprio verso l’albergo. Varcandone la soglia fui preso da una sorta di allegria; la mia disavventura sarebbe finita lì, conclusa, pensai, da una elaborata ramanzina. Non poteva essere che così; la mia ignoranza di forestiero escludeva ogni intenzionalità nel fallo che mi si attribuiva.
Spinto da questa certezza apostrofai briosamente il mio amico albergatore: « Eccomi nei pasticci, amico mio. Non so quale mancanza io abbia commesso, senza volere, ma vi prego di esprimere ai signori ubellah il mio rammarico e, se del caso, le mie scuse. Voi potete testimoniare che... ».
Nel terminare il discorsetto la voce mi si fiaccava, la speranza mi abbandonava via via che osservavo il contegno e il volto dell’albergatore. Quel volto cordiale e amichevolmente protettivo, quel grasso pallore che dava apparenza mite e malinconica alla naturale apatia si mutava in una maschera la cui espressione fissa diceva un solo sentimento nei miei riguardi: il disprezzo. Senza degnarmi di una sola parola e sempre più mimando l’orrore che la mia persona gli ispirava, l’albergatore tolse dal quadro la chiave della mia camera e la porse cerimoniosamente a uno dei miei sgherri. « Andiamo » ordinò costui. Salimmo le scale seguiti dal maitre.
L’albergo in quell’ora era deserto. Sul corridoio due giovani serventi scuri fuggirono appena noi comparimmo, non senza aver prima compiuto il gesto oltraggioso di tirarsi le orecchie. Aperta la porta da uno dei soldati entrammo nella mia stanza. Supposi che volessero perquisirla. Invece era me, erano i miei abiti e la mia persona che intendevano perquisire. Mi fecero spogliare completamente; mentre i soldati frugavano minuziosamente il vestito, rovesciando il contenuto d’ogni tasca, esaminando le cuciture, voltando e rivoltando calzini, mutande e camicia, esaminando le scarpe, l’albergatore mi si avvicinò e prese a palpare il mio corpo, in ogni sua parte, con mani dure e indifferenti, mentre sul viso gli si leggeva non so che maligna e malsana soddisfazione.
Poi mi aiutò a rivestirmi, e ciò avvenne dopo una lunga discussione con gli ubellah, i quali sembravano scontenti o delusi di non aver trovato indosso a me qualche cosa che evidentemente speravano di trovare. Uno dei due soldati mi invitò infine a raccogliere dentro una valigia quanto mi era necessario. Poiché avevo l’aria di non capire, e difatti furore, vergogna e confusione mi agitavano rendendomi ottuso, l’albergatore finalmente mi rivolse la parola in francese. Il suo discorso all’incirca fu questo:
— Voi dovete prendere tutto ciò che può occorrervi di biancheria e oggetti personali per un soggiorno in un altro luogo che potrebbe anche essere lungo. Vi consiglio, anzi, di riempire la più grande delle vostre valigie. Il rimanente di quanto vi appartiene sarà custodito dalla direzione dell’albergo fino alla conclusione della faccenda....
— Che cosa intendete per conclusione? Pensate che mi mettano in prigione per molto tempo? E perché poi? Qui non usa neppure notificare le accuse? — Con tali domande lo interruppi vivacemente, sfogando in esse anche la rabbia per l’umiliante perquisizione cui ero stato costretto e proprio da lui, dalle sue sporche mani. Ma calmo, solo torcendo e allontanando da me il viso, non so se per rafforzare l’espressione di disgusto o per il timore che io lo schiaffeggiassi, l’albergatore mi rispose che non era compito suo prevedere se sarei stato condannato al carcere o ad altro.
— Le nostre leggi — aggiunse — sono giuste e mai è accaduto che un delitto rimanesse impunito o che un innocente patisse una pena. Del resto avrete un difensore. Scusatemi: io non posso dirvi altro. Un solo consiglio: calma.
Calma, calma, continuò a dire mentre lentamente indietreggiava, con uno strano ghigno o sorriso, ora.
I soldati si mostravano già impazienti e insospettiti dal nostro discorrere in una lingua straniera, e dissero che si doveva andare e che affrettassi i miei preparativi. Cosa che feci, stivando febbrilmente nella valigia biancheria e oggetti di toletta. Le mani mi tremavano e spesso lasciavano cadere qualche cosa, che subito un soldato raccoglieva e osservava con curiosità. Chiusa la valigia, dato uno sguardo disperato alle pareti ai tappeti ai mobili della camera, quasi che essa mi fosse cara e temessi di non rivederla più, mi aspettavo che l’albergatore, sempre stato, fino a quel giorno, premurosissimo e quasi servile, prendesse lui la valigia. Frattanto si era affacciato all’uscio un altro ubellah: un graduato; e fece cenno di andare. Presi dunque la valigia e così scortato — i due soldati ai fianchi, il graduato innanzi e il maitre dietro — scesi la scala ammorbidita da uno spesso tappeto e mi trovai nella hall. Non più deserta, ora, ma piena di gente che sembrava essersi raccolta per assistere alla mia partenza forzata (la valigia in mano, e i tre armati alle costole) e che mi osservava con una curiosità non priva di avversione.
Uscimmo fuori mentre l’albergatore, che io non cessavo di osservare sempre più stupito del suo contegno, riprendeva il suo posto dietro il banco: quell’assurda cattedra sopra cui, quasi a scanso d’equivoci, era posto un cartellino che recava scritto « Bureau » e, in caratteri làvari, una parola che può significare tanto « direzione » in senso burocratico, quanto «comando» in senso militare.
Fuori c’era una decrepita ma ancor dignitosa Ford, dove salimmo, i tre militari ed io. In meno di trenta minuti, usciti per la porta della Luna, fummo ai piedi delle mura di cinta della fortezza di Basil-Uà, bianca lunga, incombente sulla città. Lassù mi ero spinto nelle settimane precedenti per osservare da vicino l’ermetica architettura: si pensi, tre cubi uno sull’altro, di grandezza digradante, bianchi, con piccole feritoie in luogo di finestre; e anche per ammirare lo spettacolo di Làvar arrampicata e sparpagliata sulla collina opposta come una mandria.
Ora varcavo l’arco ogivo, cui nella mia escursione turistica non avevo osato avvicinarmi troppo, con un batticuore che a momenti diventava paura.