«Parmi sconvenga...» obiettò don Cono.
«E v'accerto io che sono tutti disperati per bene che si vogliono in casa. Poh! Non possono stare un giorno senza abbracciarsi e baciarsi...»
«Parmi sconvenga...»
«Prudenza, signori miei... siamo in chiesa!»
Giusto, la ripresa del Dies irae assordava tutti; i frati erano scesi verso il catafalco, benedicendo; la musica intonava il Libera me, riprendeva le frasi del principio, implorava il Requiem. «È finito?... Se Dio vuole!» E un rimescolamento generale: chi era rimasto lontano dal catafalco e dalle iscrizioni vi si dirigeva; molti che non reggevansi più in piedi dalla stanchezza, s'avvicinavano alle porte; ma lì la confusione e la ressa ricominciavano più grandi; perché tutta la gente rimasta fuori, credendo che, finita la messa, fosse agevole entrare, s'affollava tumultuosamente, cozzando contro quelli che volevano uscire, travolgendo gli storpi, i ciechi e i mutilati che arrischiavano nuovamente di tender la mano ai passanti. «Adagio!... I piedi!... Che maniera!» e dominando quel vocìo veniva dalla piazza un incessante scalpitar di cavalli: le carrozze del corteo funebre che sfilavano una dopo l'altra andandosene.
Il principe di Roccasciano, affacciato dalla terrazza, le veniva numerando:
«Sette tiri a quattro, sessantatré carrozze padronali, dodici di rimessa» disse, quando passò l'ultima. E fece il conto: «A dodici tarì l'una, tolte quelle di famiglia, sono trentaquattr'onze!...»
Allora l'onda degli spettatori cominciò a disperdersi. I poveri rimasti accoccolati lungo i muri poterono finalmente trascinarsi ai loro posti; ma oramai non passava più nessuno.
2.
Verso sera, mentre la servitù raccolta nel cortile commentava ancora la magnificenza del funerale, arrivò dalla via di Messina il conte Raimondo con la contessa Matilde. Baldassarre, udendo il tintinnìo delle sonagliere, si precipitò giù per lo scalone e arrivò allo sportello della corriera giusto nel momento che questa arrestavasi e che il padrone saltava giù.
«Chi c'è?» domandò il contino, troncando con voce breve le cerimonie di Baldassarre e mostrando le carrozze allineate nella corte.
«Visite pel signor principe, Eccellenza...» e subito il maestro di casa prese l'aspetto grave e triste conveniente alla circostanza luttuosa.
Il conte s'avviò per lo scalone senza curarsi della moglie né del bagaglio. Baldassarre, a capo chino, offerse il gomito alla signora contessa, ma ella smontò senza appoggiarsi. «Più bella che mai!» giudicavan le donne che le si appressavano rispettosamente, «quantunque un po' dimagrata, in verità...» La moglie del portinaio osservò anche: «Pare più afflitta lei del contino... E con che dolce voce pregava che portassero su le valige e i sacchi da notte, e rispondeva al: "Benvenuta, Eccellenza!" dei servi, informandosi della loro salute, domandando a Giuseppe se il suo bambino stava bene e a donna Mena se la sua figliuola s'era maritata!...»
Su, nelle anticamere, il principe e Lucrezia vennero incontro al fratello ed alla cognata. Raimondo si lasciò baciare dalla sorella, e, stretta la mano che Giacomo gli tendeva, entrò nella Sala Gialla, zeppa di gente al pari della Rossa, poiché, tolto il divieto di lasciar salire i soli prossimi parenti, ora i cugini in quarto e in quinto grado, gli affini, gli amici venivano in processione a condolersi della gran disgrazia. Tutti, all'apparire della contessa Matilde, si levarono, ad eccezione di don Blasco e di donna Ferdinanda. Quest'ultima, quando la nipote le baciò la mano, borbottò un: «Ti saluto» freddo freddo; quanto a don Blasco, non le rispose neppure. Egli vociava, gesticolando:
«Vogliono il resto? Ah, vogliono il resto? Se vogliono il resto, non hanno da far altro che chiederlo!...»
L'incontro del Priore con Raimondo fu osservato da tutti: il Priore che stava seduto accanto a Monsignor Vescovo col Vicario e parecchi canonici, appena scorto il fratello s'alzò e gli aperse le braccia: Raimondo si lasciò abbracciare un'altra volta, ma quelle dimostrazioni d'affetto lo seccavano visibilmente. Poi il principe lo condusse via, e tutti ripresero i loro posti e i discorsi interrotti.
In un gruppo di pezzi grossi dove c'erano, fra gli altri, il presidente della Gran Corte, il generale e alcuni senatori municipali, don Blasco continuava a fiottare contro i rivoluzionari e i quarantottisti che minacciavano d'alzar la coda. Non era bastata loro la famosa lezione spiegata da Satriano? Volevano il resto? Sarebbero stati immediatamente serviti!
«Ma la colpa più grande credete forse che sia dei sanculotti o di quel ladro di Cavour? È di quei ruffiani che per la loro posizione dovrebbero sostenere il governo e invece si mettono coi morti di fame!»
Egli l'aveva principalmente col fratello duca che s'era fitto in capo di fare il liberalone, lui, il secondogenito del principe di Francalanza! Il marchese di Villardita approvava, chinando la testa, giudicando però che i rivoluzionari, con o senza l'aiuto dei signori, sarebbero rimasti cheti almeno per un altro mezzo secolo: la città portava ancora i segni della terribile repressione dell'aprile Quarantanove: non erano del tutto scomparse le tracce del fuoco e del saccheggio, e mezza popolazione piangeva i morti, i condannati all'ergastolo, gli esiliati.
Il Priore, tornato a sedere accanto a Monsignore, nel gruppo delle tonache nere, deplorava anch'egli, a bassa voce, l'iniquità dei tempi per via della legge piemontese contro le corporazioni religiose; e don Blasco, nel crocchio opposto:
«Adesso fanno la guerra senza denari! Rubando la Chiesa di Cristo! E quel celebre d'Azeglio? Avete letto il suo sproloquio?...»
Dalla parte delle donne la principessa se ne stava in un angolo, un po' alla larga, per evitar contatti. Donna Ferdinanda, seduta vicino al principe di Roccasciano, parlava con lui d'affari, del raccolto, del prezzo delle derrate, mentre la principessa di Roccasciano raccontava alla baronessa Cùrcuma un suo sogno, la madre che le era apparsa con tre numeri in mano: 6, 39 e 70, sui quali avea giocato dodici tarì di nascosto del marito. Le ragazze Mortara e Costante, amiche di Lucrezia, parlavano d'abiti a quest'ultima, per divagarla, quantunque ella non desse loro ascolto e rispondesse a sproposito, com'era sua abitudine; ma la cugina Graziella teneva da sola animata la conversazione, rivolgendosi a tutti ed a ciascuno, passando da una sala all'altra chiacchierando d'abiti, di sarte, della Crimea, del Piemonte, della guerra, del colera. Stanca del viaggio, la contessa Matilde parlava poco, aspettando di ritirarsi nelle sue camere; don Cono, venuto a mettersele vicino, le recitava tutte le epigrafi da lui composte pel funerale: «M'è sovvenuto d'una variante; bramo il giudizio della contessa...» E il cavaliere don Eugenio giudicava povertà il lusso dei moderni funerali a paragone di quello di un tempo: «Nel 1692 fu perfino emanato un bando, in via di prammatica, per impedire l'eccedente sfarzo delle cerimonie mortuarie!»
Tutti s'alzarono al sopravvenire di donna Isabella Fersa con suo marito don Mario e con Padre Gerbini: il Benedettino reggeva galantemente sul braccio un velo della dama. Questa baciò tutte le Uzeda, fuorché la principessa, la quale, schivandosi, presentò: «Mia cognata Matilde...»
Donna Isabella strinse forte la mano alla contessa e le si mise a sedere a fianco, sospirando:
«Che grande disgrazia! Ma bisogna fare la volontà di Dio!... Siete stati a Firenze?... Anche noi ci fummo l'anno scorso; ma voialtri allora eravate a Milazzo... Una sola bambina finora?... Il conte aspetta un maschietto, naturalmente. Felice voi che avete una figlia: v'invidio, contessa, sapete...»
Padre Gerbini faceva intanto il giro delle signore, discorrendo a lungo con le più giovani e belle, dicendo loro cose galanti e proibite. Egli prendeva le morbide e bianche mani femminili, le teneva un poco fra le sue egualmente bianche e inanellate, poi le baciava. Vedendo rientrare il principe col fratello, lasciò le dame per condurre Raimondo dinanzi alla Fersa.
«Il conte di Lumera... donn'Isabella Fersa, la più bella dama del regno...»
«Non gli creda, dice a tutte così...» esclamò ella sorridendo. «Sono dolente di conoscerla,» riprese, con altro tono di voce e stringendogli la mano, «in questa triste circostanza...» Sospirò un poco, poi ricominciò: «Giusto, la contessa mi diceva che arrivate da Firenze...»
«Direttamente. Ci siamo fermati appena a Messina.»
«Per lasciar la bambina a vostro suocero. Avete fatto bene! Com'è questa Milazzo?»
«Non me ne parli.»
Per fortuna, egli ci stava il meno che poteva, sempre attirato a Firenze, dove aveva tante amicizie. Come egli citava i grandi nomi di Toscana, donna Isabella chinava ripetutamente il capo in atto affermativo: «I Morsini, sicuro... i Realmonte...»
La contessa volgeva supplici sguardi al marito, quasi per dirgli: «Portami via...» ma Raimondo non cessava di parlare del suo tema favorito. Fersa gli s'avvicinò un momento per stringergli la mano ed esprimergli il proprio rammarico.
«Tuo zio il duca arriva domani?»
«Così m'ha detto Giacomo.»
«E del testamento?»
«Non si sa nulla.»
Tra i discorsi di politica, di moda, di viaggi, quella domanda curiosa era sussurrata qua e là, e otteneva sempre la stessa risposta. Il presidente della Gran Corte, testimonio della consegna del testamento segreto fatta dalla principessa al notaio l'anno innanzi, non sapeva nulla intorno al contenuto della carta di cui aveva firmato la busta, e i figli della morta erano al buio peggio degli estranei. Forse, se Raimondo fosse venuto a tempo, quando sua madre lo aveva insistentemente chiamato, egli avrebbe saputo qualcosa; ma il conte, divertendosi a Firenze, aveva fatto orecchio da mercante, quasi non si trattasse dei suoi stessi interessi. Possibile, allora, che la principessa non si fosse confidata proprio a nessuno? a qualcuno dei cognati? a un uomo d'affari, almeno? Di botto don Blasco, lasciando in pace Cavour e la Russia:
«E allora, che sugo ci sarebbe stato?» esclamò. «Così fanno tutti coloro che ragionano, eh?... Ma in questa casa la logica era un'altra!... Nessuno doveva saper niente! tutto si doveva fare a loro capriccio; sempre chiusi, sempre misteriosi, come se fabbricassero moneta falsa!»
Il presidente scrollava il capo con bonomia, per acquietare il monaco focoso; ma questi proseguiva:
«Volete sapere che dirà il testamento? Domandatelo al confessore! Sissignori: al confessore!... Voi al confessore di che parlate? Dei peccati, eh? delle cose di coscienza?... Degli affari, naturalmente, incaricate gli avvocati, i notai, i parenti, sì o no?... Qui invece il confessore scriveva il testamento: forse il notaio impartiva l'assoluzione!»
Alcuni sorridevano a quelle sparate, e le supposizioni avevano libero corso. Il presidente era sicuro, checché si dicesse in contrario, che l'erede sarebbe stato il principe, con un forte legato al conte; e il generale confermava: «Sicuramente, l'erede del nome!» ma il barone Grazzeri scrollava il capo: «Se non andarono mai d'accordo?» Don Mario Fersa, infatti, piano al cavaliere Carvano, manifestava la sua opinione, secondo la quale l'erede sarebbe stato Raimondo. Forse il contegno di lui durante la malattia della madre, il costante rifiuto di venire a vederla, potevano avergli un poco nociuto; ma la predilezione dimostrata dalla principessa a quel figliuolo era stata troppo grande perché in un momento ne andassero dispersi gli effetti. «Non dimentichiamo,» rammentava il cavaliere Pezzino, «che la felice memoria non volle mai chiedere l'istituzione del maiorasco appunto per esser libera di fare a modo suo.» Dunque si sarebbe proprio visto questa enormità? Il capo della casa diseredato? erede Raimondo che non aveva figli maschi? diseredato il principe che aveva già nel piccolo Consalvo il successore?... I lavapiatti, come familiari della defunta, erano richiesti della loro opinione, ma essi che ne sapevano meno di tutti rispondevano evasivamente, per non far torto a nessuno. «E gli altri figli? Ferdinando? Le donne?...» La curiosità, benché contenuta ed espressa sotto voce, era vivissima. Il confessore, questo famoso Padre Camillo, non aveva parlato? «Non c'è, è a Roma da parecchi mesi; e anche ci fosse, non parlerebbe: è volpe fina...» E tutti gli sguardi si volgevano naturalmente a Giacomo ed a Raimondo. Questi chiacchierava ancora con donna Isabella, e pareva che il testamento materno fosse l'ultimo dei suoi pensieri, anzi che egli ignorasse perfino la morte della madre; il principe invece aveva un aspetto più grave del consueto, quale conveniva alla tristezza di quei giorni; egli riceveva con espressioni di gratitudine le reiterate condoglianze delle persone che si congedavano. Alcune di queste però non riuscivano a trovarlo, andavano via senza poterlo salutare; e i familiari si guardavano con la coda dell'occhio, comprendendo. Egli aveva una folle paura della iettatura, attribuiva a una gran quantità d'individui il funesto potere; stava sulle spine in loro presenza, evitava di salutarli, con le mani in tasca. Ma il presidente della Gran Corte, appena alzatosi, se lo vide vicino:
«Se lo zio arriverà domani, presidente, fisseremo per posdomani la lettura?»
«Quando credete, principe mio! Sono agli ordini vostri!...»
«Veramente...» aggiunse, abbassando la voce, «io non avrei tanta fretta... anzi mi parrebbe una sconvenienza verso la memoria di nostra madre... Ma sapete come succede quando si è in molti... quando bisogna dar conto a tanti...» E poiché suo fratello il Priore se ne andava anche lui, insieme col Vescovo, li avvertì entrambi, essendo Monsignore un altro dei testimoni.
«Fate, fate voialtri...» disse il Priore, disinteressato. «Che bisogno avete di me?»
Ma Giacomo protestò:
«No, no; che vuol dire! Bisogna fare le cose in regola, per soddisfazione di tutti...»
Siccome annottava, molti andavano via. Padre Gerbini, quantunque il Priore avesse dato l'esempio, restò ancora un poco a cicalare con le signore; poi se n'andò anche lui. Restò, sbraitando contro i rivoluzionari e la cognata morta, don Blasco, che rientrava sempre l'ultimo al convento.