Introduzione
Introduzione
Ci sono libri che lasciano sconcertati per la loro attualità. Lo stupore del lettore aumenta quando scopre la data di pubblicazione dell’opera che ha tra le mani: 1893. Le vicende dei Viceré di Federico De Roberto si svolgono tra la caduta del Regno delle Due Sicilie e i primi anni dello Stato Unitario (1855 – 1882). È un tempo di cambiamenti e di grandi speranze dove si fronteggiano, anche aspramente, due concezioni dell’avvenire: i conservatori (borbonici) e i liberali (democratici). I primi vorrebbero che tutto rimanesse come sempre è stato perché l’ordine costituito permette loro la conservazione del potere e della ricchezza. I secondi sono eccitati dai moti rivoluzionari che stanno avvenendo nelle altri parti d’Italia e sognano di poter liberare la loro terra, la Sicilia, dalla monarchia borbonica. In questo contesto i contorni non sono molto ben definiti, ma sono i più scaltri a saper leggere la situazione e prendere parte al gioco per trarre vantaggi personali.
Le vicissitudini della famiglia Uzeda si intrecciano in maniera molto stretta con quello che accade nella Sicilia di quegli anni. Fieri borbonici e difensori del loro blasone, e della tradizione, sono costretti a scontrarsi con la realtà della conquista garibaldina e dell’annessione al Regno di Piemonte. Tutto ha inizio con la morte della principessa Teresa che con la sua autorità riusciva a tenere sotto controllo le ricchezze degli Uzeda grazie alla sua capacità di piegare al suo volere le volontà dei figli. Il motore del racconto è costituito dai tanti contrasti e più o meno sincere riconciliazioni tra i componenti della famiglia che avranno un ruolo di spicco anche nelle vicende politiche locali e nazionali.
Ma I Viceré non è solo il racconto delle vicissitudini familiari. È un romanzo storico che porta alla luce la disillusione nei confronti del cambiamento proclamato con l’Unità d’Italia. Il pessimismo di De Roberto, come quello di gran parte degli intellettuali siciliani dell’epoca, pervade tutta l’opera e trova il suo apice amaro nella frase "ora che l'Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri", parafrasi del motto attribuito a Massimo D’Azeglio "l’Italia è fatta, ora bisogna fare gli italiani". Il libro mette subito in luce il trasformismo di coloro che non vogliono perdere il potere ed i posti di comando e sono disposti a sostenere, in pubblico, idee verso le quali non nutrono alcuna convinzione.
"Vedi? Vedi quanto rispettano lo zio? Come tutto il paese è per lui? […] Quando c’erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!" Anche in quest’altro passaggio si trova lo sguardo disilluso di De Roberto su come l’Unità nazionale non abbia saputo spazzare via la “classe dirigente” vecchia consentendole di mantenere intatto il suo prestigio in altre forme: non più principi, baroni o duchi, ma onorevoli, deputati.
Non è difficile fare dei paragoni con l’idea poco lusinghiera che si ha nei confronti della classe politica a tutti i livelli. Forse, questo modo di pensare deriva proprio dalle origini della politica parlamentare che attraverso sotterfugi, favori e raccomandazioni mira a mantenere il consenso nel proprio collegio piuttosto che trovare soluzioni per il benessere generale. È emblematico il percorso politico del principino Consalvo che non si fa scrupoli a mandare quasi in bancarotta il comune pur di trionfare nel suo collegio. L’attualità del romanzo di De Roberto risiede nel confronto con la realtà quotidiana che, nel corso della lettura, viene naturale. I concetti di casta, spreco, raccomandazione, privilegi sembrano trovare nelle vicende dell’Italia post-unitaria le loro forti e, purtroppo durature, radici. Sarà per questo motivo che, a distanza di oltre 150 anni, l’unità del Paese non si è ancora compiuta in senso pieno: se l’obiettivo dei rappresentanti delle istituzioni e servirsi dei denari della collettività per esaudire richieste della propria cerchia ristretta, non si potrà mai aprire un dibattito serio sul futuro di qualsiasi comunità sia essa locale o nazionale. Siamo di fronte alla nascita della cosiddetta Casta.
L’Italia unita inizia la sua giovane vita senza svecchiarsi, senza liberarsi degli stemmi e dei blasoni ed è per questo che è destinata ad assumere sembianze sempre più brutte. Le vicende storiche e familiari si possono leggere anche attraverso l’aspetto dei personaggi che, con il passare del tempo, diventano decrepiti ed invecchiano in malo modo nel fisico e nell’animo. Le contese, gli inganni, i voltafaccia e l’avidità segnano il loro corpo ed il loro spirito rendendoli incapaci di provare qualunque sentimenti positivo.
La sconcertante attualità de I Viceré, infatti, non sta nell’intreccio dei rapporti tra padre e figlio, tra zii nipoti: si trova nel modo di fare politica, di intendere l’amministrazione della cosa pubblica che deve essere strumento di arricchimento personale anche (se non soprattutto) attraverso pratiche poco pulite. L’esempio lo dà il duca d’Oragua, il primo della famiglia Uzeda che “abbraccia” la causa liberale e riesce a farsi eleggere nonostante non sia in grado di spiccicare parola di fronte alla folla che lo acclama. È lui lo zio che Giacomo indica al figlio Consalvo come continuazione del loro comando sul popolo.
Un altro aspetto che colpisce della vita politica di quegli anni è la cosa di persone che si rivolgono all’onorevole duca d’Oragua per favori e raccomandazioni: lavoro, pratiche burocratiche, promesse di aiuto in denaro. Tutto ciò che dovrebbe essere un diritto viene barattato come un piacere che si deve ricambiare con il voto alla successiva tornata elettorale.
Tutti questi elementi trovano il loro culmine nel dialogo di Consalvo con la Zia Ferdinanda che chiude il libro e lo rendono amaro perché lascia vedere, senza alcun filtro, da dove nasce la sfiducia e la negatività nei confronti della politica. Non sono serviti più di 150 anni a modificare in meglio le cose, anzi si sono mantenute identiche nel metodo con qualche cambio di forma.