Parte prima-7

2000 Parole
Il signor Marco, al passaggio che lo riguardava, aveva chinato rispettosamente il capo. Don Blasco, sempre in piedi, mutò posto: lasciata la finestra si mise dietro al giudice, in modo non solamente da udir meglio ma da verificare con l'occhio la fedeltà della lettura. Il principe teneva le braccia incrociate sul petto e il capo un po' chino; Raimondo batteva un piede, guardando per aria, seccato. «Di tutta questa sostanza io sono l'unica e sola donna e padrona, sì per la parte che rappresenta la mia dote in essa investita, sì perché il rimanente è frutto dei miei capitali parafernali e dell'opera mia, come ne fa ampia e piena fede il testamento del benamato mio sposo Consalvo vii, il quale dice così...» Il giudice sostò un momento per osservare: «Credo che possiamo saltare questo passo...» «Infatti... È inutile,» risposero parecchie voci. Il principe invece, sciolte le braccia, protestò, guardando in giro: «No, no, io desidero che le cose si facciano in piena regola... Leggete tutto, di grazia.» «...il quale dice così: "Sul punto di rendere a Dio l'anima mia, non avendo nulla da lasciare ai miei figli, perché, come essi un giorno sapranno, il nostro patrimonio avito fu distrutto in seguito a disgrazie di famiglia, lascio ad essi un prezioso consiglio: di obbedir sempre alla loro madre e mia diletta sposa, Teresa Uzeda, principessa di Francalanza, la quale, come si è finora sempre ispirata al bene della nostra casa, così continuerà per l'avvenire a non avere altra mira fuorché quella di assicurare, col lustro della famiglia, l'avvenire dei nostri figli benamati. Faccia il Signore che ella sia ad essi conservata per mille anni ancora, e il giorno che all'Onnipotente piacerà ridarmela compagna nella vita migliore, seguano i miei figli fedelmente le sue volontà come quelle che non potranno esser dirette se non al loro bene ed alla loro fortuna." «I miei cari figli, adunque,» continuava la testatrice «non potranno dare miglior prova della loro affezione e rispetto verso la memoria del padre loro e mia, se non scrupolosamente rispettando le disposizioni che io sono per dettare e i desideri che esprimerò. Io nomino pertanto...» tutti gli occhi si fermarono sul lettore, don Blasco chinossi ancora un poco per meglio vedere lo scritto, «eredi universali...» e le labbra del principe ebbero a un tratto un'impercettibile contrazione «di tutti i miei beni, esclusi quelli che intendo siano distribuiti nel modo qui appresso indicato, i miei due figli Giacomo xiv principe di Francalanza e Raimondo conte di Lumera...» Il giudice fece una breve pausa, durante la quale il Vescovo e il presidente scrollarono il capo, guardandosi, in atto di stupore approvativo. Il principe, incrociate di nuovo le braccia, aveva ripreso l'atteggiamento da sfinge; soltanto era un poco pallido; Raimondo pareva non accorgersi dei sorrisi di congratulazione che gli rivolgevano; donna Ferdinanda, con le labbra cucite, passava a rassegna i progenitori pendenti dalle pareti. «Intendo però,» riprese il lettore, «che nella divisione tra i due fratelli suddetti restino assegnati al principe Giacomo i feudi della famiglia Uzeda da me riscattati, e spettino a Raimondo conte di Lumera le proprietà di casa Risà e quelle che in progresso di tempo furono da me acquistate. Il palazzo avito toccherà al primogenito; ma mio figlio Raimondo avrà l'uso, vita natural durante, del quartiere di mezzogiorno e annesso servizio di stalla e scuderia.» Con ripetuti cenni del capo, il presidente e Monsignore continuavano ad esprimere la loro approvazione; si udì anche il marchese mormorare: «Giustissimo.» La cugina, ammutolita pel quarto d'ora, girava rapidamente gli sguardi dall'uno all'altro, come non sapendo che pesci pigliare. La lettura continuava: «Usando successivamente del mio diritto di fare la divisione agli altri miei figli legittimari, e volendo dare a ciascuno di essi una prova della mia particolare affezione, assegno a ciascuno di essi, in compenso dei diritti di legittima, altrettanti legati superiori alla quota che loro spetterebbe per legge, nel modo qui appresso descritto. Eccettuo innanzi tutto quelli entrati in religione, pei quali richiamo confermo e completo le disposizioni da me prese al tempo della loro professione, e cioè: Primo: in favore del mio diletto figlio Lodovico, in religione Padre Benedetto della Congregazione Cassinese, decano nel convento di San Nicola dell'Arena in Catania, la dotazione di onze 36 (dico trentasei) annue, assegnategli con atto del 12 novembre 1844. Secondo: in favore di mia figlia primogenita Angiolina, in religione Suor Maria Crocifissa, monaca nella badìa di San Placido in Catania, come segno di particolare soddisfazione e gradimento per l'obbedienza osservata nel contentare il mio desiderio di vederla abbracciare lo stato monastico, completo la mia disposizione del 7 marzo 1852, ordinando che si prelevi dalla massa dei beni la somma di onze 2000 (due mila), valore del fondo denominato la Timpa, posto nel Bosco etneo, contrada Belvedere, ordinando che coi frutti di esso immobile siano celebrate tre messe quotidiane dentro la chiesa della predetta badìa di San Placido, e precisamente nell'altare del Crocifisso, dovendo tale celebrazione aver principio in seguito alla morte della predetta mia figlia Suor Maria Crocifissa, e intendendo che durante vita della stessa i frutti si debbano da lei percepire, a titolo di livello, vitaliziamente. Cessando di vivere essa mia figlia, ordino che l'amministrazione resti affidata alla Madre Badessa, pro tempore, della prefata badìa, alla quale superiora intendo che resti conferita la facoltà di eleggere i sacerdoti celebranti, e non ad altri. Venendo poi agli altri miei figli per eseguire la divisione legittimaria, lascio al mio benamato Ferdinando...» e Ferdinando, che era stato a seguire il volo delle mosche, si voltò finalmente verso il lettore, «la piena ed assoluta proprietà del latifondo denominato le Ghiande, situato in contrada Pietra dell'Ovo, territorio di Catania, perché conosco l'affezione particolare che egli porta a questa terra da me concessagli in affitto con atto del 2 marzo 1847. E perché detto mio figlio abbia una prova speciale del mio affetto materno, intendo che gli siano condonati, come infatti gli condono, tutti gli arretrati della rendita da lui dovutami su detto latifondo in virtù dell'atto sopracitato, a qualunque somma essi arretrati siano per ascendere al momento dell'aperta successione.» Testimoni e lavapiatti, con gesti e sguardi e sommesse parole, esprimevano una sempre crescente ammirazione. «Restano così le mie due care figlie Chiara, marchesa di Villardita, e Lucrezia; a ciascuna delle quali, affinché esse lascino la proprietà immobiliare ai loro fratelli e miei eredi, voglio che sia pagata, sempre a titolo di legittima, la somma di 10.000 (dico diecimila) onze...» quasi tutti adesso si voltarono verso le donne con espressione di compiacimento, «tre anni dopo l'aperta successione e con gli interessi, dal giorno dell'apertura, del cinque per cento; restando naturalmente inteso che mia figlia Chiara debba conferire la sua dotazione di duecento onze annuali di cui ai suoi capitoli matrimoniali. Inoltre come prova di gradimento per le nozze da lei contratte con mio genero il marchese Federico Riolo di Villardita, le lascio tutte le gioie da me portate in casa Uzeda, che si troveranno a parte inventariate e descritte; intendo che quelle avite di casa Francalanza, da me riscattate dalle mani dei creditori, restino, durante vita della mia diletta figlia Lucrezia, a quest'ultima; ma poiché essa ben conosce che lo stato maritale non è confacente né alla salute né al carattere di lei, voglio che ella ne goda a titolo di semplice depositaria, e che alla sua morte vengano divise in eguali porzioni tra il principe Giacomo e il conte Raimondo miei eredi universali come sopra. Provvisto in tal modo all'avvenire dei miei figli amatissimi, passo all'assegnazione delle seguenti elemosine e legati pii da pagarsi dai miei eredi summentovati, e cioè: A Monsignor Reverendissimo il Vescovo Patti, onze cinquecento, una volta tanto, perché le distribuisca ai poveri della città o perché ne faccia celebrare altrettante messe a sacerdoti bisognosi della diocesi, secondo stimerà conveniente nella sua alta prudenza...» Monsignore si mise a scrollare il capo, a dimostrazione di gratitudine, di ammirazione, di rimpianto, di modestia ad un tempo; ma soprattutto d'ammirazione secondo che il giudice leggeva le pietose disposizioni dei paragrafi seguenti: «Alla cappella della Beata Ximena Uzeda, nella chiesa dei Cappuccini in Catania, onze cinquanta annuali, per una lampada perpetua ed una messa ebdomadaria da celebrarsi pel riposo dell'anima mia. Alla chiesa dei Padri Domenicani in Catania, onze venti annue per elemosina e celebrazione di altra messa ebdomadaria come sopra. Alla chiesa di Santa Maria delle Grazie in Paternò onze venti come sopra. Ed alla chiesa del monastero di Santa Maria del Santo Lume al Belvedere, onze venti come sopra. Spetterà inoltre ai miei eredi osservare l'istituzione dei seguenti legati, in favore dei creati che mi hanno fedelmente servita ed assistita durante il corso delle mie infermità, e cioè: Eccettuo innanzi tutto il mio amministratore e procuratore generale signor Marco Roscitano, i cui eccellenti servigi non potendo essere paragonati a quelli d'un servo, non sono da compensare con moneta.» Il signor Marco era diventato rosso come un pomodoro: o per le lusinghiere parole, o perché non gli toccava altro che parole. «Lascio a lui pertanto gli oggetti d'oro, le tabacchiere, spille ed orologi pervenutimi dall'eredità di mio zio materno il cavaliere Risà, il cui elenco si troverà fra le mie carte; e faccio obbligo di coscienza ai miei eredi di continuare ad avvalersi dell'opera sua, non potendo essi trovare persona che meglio di lui conosca lo stato del patrimonio e delle liti pendenti, e che possa spendere maggior interesse per il loro meglio.» Il principe pareva sempre non udire, con le braccia conserte e lo sguardo cieco. «Tra i creati, lascio al mio cameriere Salvatore Cerra due tarì al giorno, vitaliziamente; altrettanti alla mia cameriera Anna Lauro. La somma di onze cento si paghi, una volta tanto, al mio maestro di casa Baldassarre Crimi, e di onze cinquanta al cocchiere maggiore Gaspare Gambino, e di onze trenta al cuoco Salvatore Briguccia. Come piccoli ricordi ai miei amici destino inoltre: L'orologio grande con miniature e brillanti del fu mio consorte, al principe Giuseppe di Roccasciano; la carabina del fu mio suocero a don Giacinto Costantino; il bastone col pomo d'oro cesellato a don Cono Canalà; i tre anelli di smeraldo a ciascuno dei tre testimoni del presente testamento solenne, escluso il principe di Roccasciano suddetto. Indistintamente poi a tutti i miei congiunti: cognati, nipoti, cugini, ecc., si paghino onze dieci ciascuno per le spese del corrotto. Fatto al Belvedere, scritto da persona di mia confidenza sotto la mia dettatura, da me letto, approvato e firmato. Teresa Uzeda di Francalanza» Già qualche minuto prima che il giudice abbassasse il foglio, don Blasco, lasciando la spalliera, aveva dato segno che la lettura stava per finire; e agli ultimi passi i gesti approvativi ed ammirativi, le scrollate di capo di ringraziamento erano stati generali; ma appena la voce del lettore si spense, il silenzio fu, per un istante, così profondo che si sarebbe sentito volare una mosca. A un tratto il principe, spinta indietro la sua seggiola: «Grazie a voi, signori ed amici; grazie di cuore...» cominciò, ma non finì; ché i testimoni, alzatisi anch'essi, lo circondarono, stringendogli le mani, stringendo le mani a Raimondo, rallegrandosi con tutti: «Non c'era veramente bisogno della lettura!... Si sapeva bene che la felice memoria non avrebbe... Un modello di testamento! Che saggezza! Che testa!...» Monsignore, specialmente, approvava: «Non ha dimenticato nessuno! Tutti possono essere contenti...» E Ferdinando, Chiara, Lucrezia, tutti e tutte ricevevano la loro parte di congratulazioni mentre il notaio e il giudice compivano le formalità del verbale. Ma don Blasco, che appena finita la lettura aveva ripreso a rodersi le unghie con più fame di prima, gironzolando intorno intorno come un calabrone, acchiappò Ferdinando mentre il presidente gli stringeva la mano e lo trasse nel vano di una finestra: «Spogliati! Spogliati! Siete stati spogliati! Spogliati come in un bosco!... Rifiutate il testamento, domandate quel che vi tocca!» «Perché?» disse il giovane, attonito. «Perché?» proruppe don Blasco guardandolo nel bianco degli occhi, quasi volesse mangiarselo vivo, quasi non potesse entrargli in mente l'idea di una sciocchezza come quella del nipote, d'una ingenuità tanto balorda. «Per questo!» e giù una mala parola da far arrossire gli antenati dipinti; poi, voltate le spalle a quel pezzo di babbeo, corse dietro al marchese: «Rovinati, spogliati, messi nel sacco!» gli spiattellava, ficcandogli quasi le dita negli occhi. «Divisione legittimaria? E come fa i conti?... Se accettate cotesto testamento, siete gli ultimi...» e giù un'altra mala parola. «I conti ve li faccio io, in quattro e quattr'otto! E per te la collazione dell'assegno che non avesti! E neppure una parola sul legato di Caltagirone! Dichiara che rifiuti, seduta stante!» Il marchese, sbalordito da quella furia, balbettò:
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