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“Guarda, ho cercato di farmelo piacere, ma il suo uccello sapeva di fallimento e delusione”.
Violet
Non riesco a calmare il mio cuore che galoppa.
Non appena ho superato la soglia della biblioteca per iniziare il mio turno, ha preso a battere all’impazzata. So che c’è la possibilità di vedere Ezekiel Daniels stasera. Ultimamente viene qui spesso e, ora che so che ha bisogno d’aiuto per un corso di biologia, sembra che la mia fortuna nell’evitarlo stia per esaurirsi.
Con un sospiro, fingo di essere occupata con il raccoglitore dei Servizi agli Studenti, spuntando chi è entrato e uscito e inserendo le ore di tutoraggio del personale nel computer.
Attaccato al monitor di quello nella stanza sul retro c’è un biglietto scritto frettolosamente che urla:
VIOLET!!!!! ZEKE DANIELS TORNERÀ STASERA. PER FAVORE NON SALTARE QUESTO APPUNTAMENTO!! SE C’È QUALCHE PROBLEMA, PER FAVORE AVVISA SUBITO TRUDY!!!!
Il biglietto urlante è scritto tutto in maiuscolo con un pennarello nero a punta grossa.
Va bene, messaggio ricevuto: non saltare questo appuntamento.
Capito.
Stacco il biglietto dallo schermo per esaminare il nome scarabocchiato in maniera da essere quasi illeggibile. È la prima volta che vedo scritto il suo diminutivo.
Zeke.
«Zeke», dico. Me lo faccio rotolare nella bocca un altro paio di volte, saggiando la Z con la lingua. Facendo pratica per non inciamparci. «Zeke o Ezekiel… Non so decidere quale sia peggio», mormoro alla stanza vuota.
Mi innervosisce l’idea di rivederlo. Temo quel che dirà quando scoprirà che sono io la tutor che l’ha bidonato e poi ha finto di non sapere chi fosse al supermercato.
Con chiunque altro, sarei onesta. Con chiunque altro, dire la verità sarebbe facile.
Ma chiunque altro di solito è gentile.
La verità è questa: Zeke Daniels mi intimidisce. La verità è che non credo di essere in grado di concentrarmi lavorando accanto a lui, fianco a fianco. Sarei troppo preoccupata di quello potrebbe pensare, di cosa potrebbe succedere dietro quel paio di occhi furenti. Preoccupata di quali commenti taglienti e pungenti potrebbero uscire dal suo muso ringhiante.
Tic.
Tac.
Venti minuti e nessun posto in cui nascondermi.
L’orologio sul muro conta i secondi, costante come il ritmo del mio cuore, che batte forte nel petto finché la porta a vetri della biblioteca non si apre, spinta da un soffio di vento.
Delle foglie appena cadute volano dentro, la pesante porta sbatte per la folata.
E assieme alle foglie? Zeke Daniels.
Si trascina dentro, i pantaloni grigi della tuta bassi in vita, la felpa nera dell’Iowa Wrestling col cappuccio tirato sopra la testa, la mascotte giallo canarino dell’università stampata sul petto. Zaino su una spalla, infradito nere atletiche e un paio di occhiali da sole appollaiati sul ponte del forte naso completano l’insieme.
È del tutto… ridicolo.
Inavvicinabile.
Scoraggiante.
La sua arroganza non conosce limiti, lo vedo dal passo sciolto, dalla camminata esagerata e dal modo fin troppo disinvolto con cui trascina le infradito sul freddo pavimento di marmo. È rumoroso, irritante e completamente inappropriato.
In un attimo la mia mente prende a fantasticare sulla sua vita, e teorizzo che ascolti heavy metal per attutire il pessimo temperamento, e che beva caffè nero, nero come la sua anima, e liquori lisci. Immagino che dopo aver fatto sesso con una ragazza non la richiami mai. Posso fare un passo ulteriore e ipotizzare che non ne inviti mai neanche una a passare la notte da lui.
Zeke Daniels procede fino a un tavolo accanto ai periodici, all’estremità opposta della stanza, appartato e con una certa privacy.
Posa lo zaino su una delle quattro sedie di legno. Accende la piccola lampada da studio. Inserisce la spina del portatile nella presa e si alza.
Si volta.
A questo punto i nostri sguardi si incrocerebbero se non fosse per quei ridicoli occhiali da sole. Scelgo proprio il momento in cui alza lo sguardo per abbassare il mio verso il pavimento. Mi tengo occupata mescolando le carte sul bancone. Conto fino a dieci per non cantilenare, Ti prego non venire qui, ti prego non venire qui, ti prego non venire qui…
Ma la fortuna non è dalla mia parte, perché è esattamente quello che fa. Viene verso di me come un predatore, con un passo talmente deciso che sono convinta lo stia facendo apposta. Come se sospettasse che lo sto guardando da sotto le ciglia abbassate, temendo il suo imminente arrivo.
Si crogiola nel mio disagio.
La distanza tra noi si riduce passo dopo passo.
Sei metri.
Cinque.
Quattro.
Tre.
Due.
Solleva la grande mano e si abbassa il cappuccio della felpa; con la punta delle dita afferra la stanghetta degli occhiali e se li toglie dal viso. Seguo i suoi movimenti mentre li richiude e li appende al collo della felpa.
Il suo sguardo vaga – quegli occhi grigio chiaro famosi in tutto il campus – e trova il campanello d’argento posto sul bancone accanto al cartellino che dice: «SUONATE PER CHIEDERE AIUTO».
Dlin.
La punta del suo indice preme il campanellino.
Dlin.
Lo colpisce di nuovo, nonostante io sia a meno di un metro da lui.
Che stronzo.
Evoco un gradevole sorriso perché è il mio lavoro, e che altro potrei dire se non: «P… posso aiutarti?».
«Tata Incapace», dice lui in tono piatto a mo’ di saluto, la voce bassa e controllata. Priva di allegria. «Sono qui per una sessione di tutoraggio con… merda. Come si chiamava?». Finge di pensarci, inclinando la testa verso il soffitto.
Schiocca le dita carnose.
«Violet».
Nessun saluto. Niente chiacchiere educate. Nessun accenno diretto al nostro incontro al supermercato, tranne l’adorabile soprannome che mi ha affibbiato.
Deglutisco, faccio un respiro profondo e dico: «Sono io Violet».
Le barre sopra i suoi occhi diventano severe. «Tu sei Violet?».
«Sì».
L’incredulità si impadronisce di tutto il suo volto prima che riprenda il controllo dei propri lineamenti. «Sei la mia tutor?».
Mi raddrizzo un po’ dietro il banco, reggendomi con le mani al ripiano di formica, lieta del sostegno perché le ginocchia si sono fatte molli. «Sì».
«Non puoi essere tu».
«Non posso?».
«Noooo», strascica lui. «Perché ti ho già vista, aspetta… quante altre volte?».
Non avrebbe senso negarlo, perciò rispondo semplicemente: «Due».
«Porca. Puttana». Sussulto per il suo tono. «Eri qui il giorno che sono venuto a cercarti. Ti ho vista guardarmi». I suoi occhi sono delle fessure grigie accusatrici, la voce profonda sale di volume, e io mi guardo attorno, incrociando diversi sguardi curiosi. «Ti stavi nascondendo da me?».
Sì.
Sollevo il mento. «D… devo chiederti di abbassare la voce, per favore. La gente ci sta fissando».
«Non me ne frega un cazzo di cosa pensano gli altri. Lascia che guardino». Si sporge verso di me, il busto si piega sopra il bancone. «Mi hai dato buca».
Le mie labbra si separano ma non ne esce alcun suono. Neanche uno squittio. Non ho alcuna buona scusa per non aver fatto il mio lavoro, e lo sappiamo entrambi. E poi, ho la sensazione che non crederebbe a nient’altro che alla verità.
Prego che Barbara non esca dall’ufficio sul retro per controllare il motivo di questa confusione, perché allora Mr Daniels le direbbe che lo stavo evitando, e questo apparirebbe terribile visto che mi pagano per fargli da tutor. Non posso permettermi un richiamo per aver bidonato uno studente. È il mio lavoro, anche se mi è mancato il coraggio di farlo.
«So di averti dato buca, e mi dispiace».
Zeke si passa le dita tra i capelli corti. Sono neri come la notte e lucidi. «Sapevi il mio nome quando ci siamo incontrati al supermercato, non è vero? Sapevi che ero io». La sua risata secca è tutt’altro che amichevole. «Ecco perché sembravi sul punto di fartela sotto ».
Oddio. Mi odia.
«I… Io…».
«I… Io», mi balbetta di rimando, collerico. «Sputa, V… V… Violet. Sì o no».
Wow. Va dritto alla giugulare, senza fare prigionieri. Mi inchioda con uno sguardo penetrante, in uno scontro di volontà che non vincerò mai.
Non ci provo neppure.
Abbasso la testa, non riesco a guardare nei suoi occhi furenti. «Sì. Sapevo chi eri. Credimi, m… mi sento malissimo».
«Crederti». Ride, lo spesso collo si piega all’indietro. «Come ti pare, bella. Facciamola solo finita».
«Q… quindi… vuoi ancora la sessione?».
Ti prego dì di no, ti prego dì di no, lo imploro silenziosamente.
«Sei davvero senza spina dorsale». Inarca un sopracciglio nero e irritato con aria di sfida. «Non sei pronta? Peccato. Col cazzo che te la caverai così facilmente».
Cerco di non farmi piccola per la paura, ma è onestamente difficile. Lui è scontroso e cupo e non molla l’osso.
Gli piace mettere gli altri a disagio. «Sì, certo che sono pronta. È il mio lavoro».
Socchiude gli inquietanti occhi blu-grigi prima di calarvi di nuovo sopra gli occhiali da sole. «Prendi la tua roba, Tata. Andiamo».
Tesa e delusa dal fatto che non intenda disdire, annuisco. «Va bene. Prendo le mie cose e ti raggiungo al tavolo».
Per tutta risposta, gira sui tacchi senza dire una parola, e si avvia zigzagando lentamente attraverso l’elaborato labirinto di tavoli della biblioteca, mente io torno in ufficio per prendere le mie cose. Poi però, sporgendomi all’indietro, mi affaccio oltre la porta aperta per osservare la sua sagoma in ritirata senza essere notata.
Zeke Daniels è enorme, ha il fisico di un giocatore di football, tutto spalle larghe e muscoli massicci. Contorni rigidi e linee dritte. Capelli nero onice e occhi grigi come il vetro smussato dal mare. Sopracciglia intense. Zigomi alti. Mascella squadrata. Barba non rasata che circonda labbra deliziosamente scolpite.
Esternamente è bellissimo.
È la parte interna quella su cui si dovrebbe lavorare un po’.
«È solo un ragazzo», sussurro, raccogliendo il mio taccuino, la penna e il portatile. «È solo un ragazzo, ed è solo una sessione. Solo un’ora. Posso farcela».
Posso farcela.
Me lo ripeto ancora, prima di andare verso di lui.
E ancora.
Finché quasi inizio a crederci.
Zeke
Non riesco a crederci.
Mentre torno al tavolo della biblioteca, fremo di rabbia. Mi sento un cazzo di idiota. Studente dopo studente, vedo volti sconosciuti colti dalla curiosità e da un evidente interesse, e rivolgo loro occhiatacce, incazzato e irritato per il fatto che quello scricciolo abbia avuto la meglio su di me.
Mi ha fatto fare la figura del fesso.
Lancio un’unica occhiata indietro prima di strattonare via la sedia dal tavolo e sedermi. Violet è china su una scrivania nell’ufficio dei Servizi agli Studenti. Da qui riesco a vedere le sue labbra che si muovono, il respiro profondo che entra ed esce, le braccia e i palmi poggiati al tavolo. I lunghi capelli biondi le cadono come un velo sulla pelle candida del viso, celandole gli occhi.
Come se avesse preso una decisione, si erge in tutta la sua altezza, che non è comunque un granché neanche in una buona giornata, raddrizza le spalle e prende le sue cose. Risoluta.
È carina, ma è l’ultima cosa che mi interessa. I miei occhi vanno al testo di biologia che ho davanti. Voglio solo farla finita con questa merda e prendere un voto decente.
Quando Violet mi raggiunge, sento risuonare la sua voce melodica. «Va bene, allora, puoi darmi un’idea del punto in cui siete arrivati nel corso? I… io ho il grosso delle informazioni ma mi serve che tu mi dia qualche altro dettaglio…».
La guardo mentre con mani pallide e sottili dispone tutto ciò che le serve per scrivere davanti a noi. Alle dita ha tre anelli d’oro, fini e luccicanti.
Si alza le maniche della camicetta fino ai gomiti, rivelando un polso carico di braccialetti coordinati. Ne conto rapidamente quattro, ognuno con un piccolo pendente; il metallo tintinna sul tavolo di legno quando il polso lo sfiora.
È irritante come il cazzo.
Ritrovo la concentrazione e le lancio una frecciata: «Quegli affari faranno rumore per tutto il tempo?».
«Quali affari?».
Punto lo sguardo gelido sul suo polso e inarco le sopracciglia.
«I miei braccialetti? Ti danno fastidio?».
«Sì».
«S… scusa». Se li sfila, uno per uno, e li mette da parte, in cima alla sua piccola pila di libri. Brillano alla luce della lampada da tavolo.
Le tiro un’altra frecciata: «Non sopporto le persone inaffidabili, come te. Lo capisci?».
«N… no. Ti assicuro che non sono inaffidabile».
«Mi hai dato buca alla nostra prima sessione. Se non è essere inaffidabili, allora come lo chiami?».
Violet è silenziosa, pensierosa. «Lo chiamerei…». Si schiarisce la gola. «Lo chiamerei essere intimidita. Avevo… paura di aiutarti».
Paura? Faccio una risata nasale… rido letteralmente dal naso. «Perché?».
«Perché?», mi fa eco lei.
«Sì, Violet, perché? Cristo, perché eri spaventata? Non ti avrei certo fatto niente».
Lei sgrana gli occhi e cerca di restare professionale e composta, ma è nervosa… glielo leggo negli occhi. Ritrova la determinazione e si raddrizza sulla sedia. «S… siamo partiti col piede sbagliato, e per questo m… mi scuso».
«D’accordo». Do un colpetto al telefono per controllare l’ora e le notifiche di Snapchat. «Possiamo cercare di sfruttare il tempo che ci resta? Sto andando male in biologia e mi serve questo compito per risollevare i voti».
Annuisce appena. «Sì, scusa».
Ecco un’altra cosa che mi infastidisce da morire. «Smetti di dirlo».
«Dire cosa?».
«Scusa. Smetti di scusarti per ogni cosa, Gesù».
«Scu…». Violet si morde il labbro inferiore, un risolino nervoso le sfugge dalla bocca. «Cacchio, l’ho q… quasi rifatto, vero?».
Poi.
Sorride.
I miei occhi, maledizione a loro, si spostano su quelle labbra carnose e lucide e restano lì mentre cerca di tornare seria. Denti bianchi e brillanti mi ammiccano. Grandi occhi da cerbiatta vergine si arricciano agli angoli.
È come una caricatura da fiaba. Come una pixie.
Talmente tenera che mi fa venir voglia di vomitare.
Le guardo le mani, piegate in modo appropriato sul piano del tavolo, le dita che stringono i fogli stampati… i miei documenti… le unghie corte e smaltate di un lieve color lavanda. Una ha dei brillantini sopra. Sono dita lunghe e delicate, adatte a una donna minuta come lei, e non ho la più pallida idea di perché cazzo io le stia guardando.
Pelle pallida. Pura.
Senza cicatrici.
Senza tatuaggi.
Eppure riesco a vedere anche di cosa sono capaci quelle mani, quando poggiano i fogli e raccolgono una matita dal tavolo. Mani solide. Probabilmente lavorano duro davvero.
«Solo un avvertimento: quasi certamente lo dirò di nuovo», confessa con imbarazzo, come se non potesse fare a meno di evidenziare i suoi difetti. «Lo faccio spesso. I… io non penso di poterlo evitare in tua pre…»
La matita che ha in mano oscilla sopra una risma di fogli con in cima il mio nome e i miei dati. «Magari dovrei buttar fuori tutte le scuse prima di iniziare?».
Buttar fuori tutte le scuse?
Gesù Cristo, chi cazzo è questa ragazza?
«Accomodati pure», tuono, spingendomi indietro sulla sedia e restando in equilibrio sulle gambe posteriori. Incrocio le braccia mentre Violet fa un profondo respiro. «Vai. Buttale fuori».
«Scusascusascusascusa», le espelle in un lungo respiro. Poi: «Fiuu! È stato grandioso!».
Perfino io, rigido come sono, devo ammettere che è stato piuttosto carino. Quasi abbozzo un sorriso.
Quasi.
«Comunque sia, mi scuso per prima. Sp… spero che possiamo ripartire da zero».
«Sì, come vuoi».
«Perfetto. Va bene. Ora che ci siamo tolti questa cosa». Si schiarisce la gola e procede, assumendo un’aria di efficienza. È più sicura. «Penso che possiamo iniziare. Abbiamo…», dà un’occhiata all’orologio appeso alla parete, «all’incirca cinquanta minuti, minuto più minuto meno. Sempre che tu non voglia trattenerti di più».
Nemmeno per il cazzo resterò più di quanto devo.
Il no mi esce più secco di quanto volessi.
E come niente il suo entusiasmo non c’è più.
Le labbra di Violet si aprono ed emettono un calmo: «Capisco», prima che si sistemi un ricciolo di capelli dietro l’orecchio. Le sue dita spingono i documenti avanti e indietro di fronte a sé; piega il margine destro di un foglio, passandoci e ripassandoci l’unghia sopra.
«Bene. Allora perché non mi dici su cosa sei arenato e per cosa ti serve aiuto?».
Invece di dirglielo, apro una cartellina, butto fuori i miei appunti e il prospetto di progetto su cui sto faticando e li spingo verso di lei lungo la superficie liscia del tavolo.
Mentre li sta esaminando, apro il libro.
Il mio indice scorre la pagina, fermandosi su un paragrafo che ho evidenziato in arancione, lo stesso che ho letto e riletto almeno una decina di volte perché non riesco a capire come possa scrivere un compito con il poco che ho trovato.
Non ci sono informazioni adeguate per elaborare qualcosa con cognizione sull’argomento, e i miei voti dipendono da questo.
Violet esamina il prospetto, le sopracciglia arricciate per la confusione. «Hai scelto l’argomento?».
«Sì».
Scavo nella cartellina aperta, pesco un altro singolo foglio con degli appunti scritti a mano e glielo porgo. Lei lo prende, lo legge, poi alza lo sguardo.
«Stai facendo la tua ricerca su questo?».
Sogghigno. «Cos’ha che non va?».
Lei legge dal foglio. «“L… le conseguenze biologiche e genetiche, anziché morali, del fare un figlio con un cugino di primo grado”?». Pausa. «Uh…». Si raddrizza sulla sedia.
«Astuto, vero?». Anche io ne sono piuttosto soddisfatto.
Violet arrossisce. «Q… quali erano le tue domande in merito?».
«Credo di aver problemi a trovare dei fatti a sostegno del mio argomento».
Lei esita, arriccia il naso. «Fatti come… uh… i disordini multifattoriali?».
Alzo le sopracciglia, colpito. Apparentemente la piccola timidona balbettante ne sa davvero di biologia.
«Disordini multifattoriali», ripeto. «È così che si dice quando un ragazzo è fisicamente incasinato a causa delle scopate dei genitori?».
Una smorfia. Un rossore. «M… meglio difetto cromosomico, ma sì, presumo sia quello che intendi».
«Quindi come lo sviluppo?».
«Hai provato a cercare su Google?».
Mah. Pensa che sia un cazzo di idiota? «Ovvio».
Adesso è tutta professionale. «Che parole chiave hai usato per la ricerca?».
«Endogamia, scopare cugini, sindrome alcolica fetale». Snocciolo le parole con scioltezza, ma, a giudicare dall’espressione sul suo volto, non ne è colpita. «Perché quell’aria sconvolta? Perché sei arrossita? Non sono descrizioni accurate?».
«S… sono parole chiave terribili».
«Senti, non può fregarmene di meno se qualcuno si scopa suo cugino, di primo, secondo o terzo grado che sia. Ho solo preso un argomento a caso per questo cazzo di compito, uno che non mi annoiasse a morte. Perciò possiamo smetterla con tutta la trafila da vergine scandalizzata e andare avanti?».
Picchietto la punta della penna sul tavolo.
«S… sei assolutamente…». Pausa. «Sei certo di voler continuare la ricerca su questo argomento?». L’esitazione di Violet le si insinua nella voce. Le sue sopracciglia pallide sono incurvate, il labbro inferiore sporge in fuori con fare pensieroso.
«Perché? Ti mette a disagio?».
«No».
«Grandioso, perché dubito che tu abbia un suggerimento migliore».
Si morde il labbro. «N… non così su due piedi, no, ma sono sicura che, con un piccolo sforzo, insieme potremmo trovarne uno».
Sembra così speranzosa e ridicolmente ingenua.
«Insieme?». Per dio. «Ma quanto sei dolce!». La guardo in tralice perché, in tutta sincerità, detesto ogni parola di questa conversazione. Detesto essere qui con lei. Aver bisogno di una tutor. E il pensiero di collaborare con lei…
La minuta, introversa, balbettante Violet e io?
No.
Esilarante nella sua assurdità.
Non l’avrei scelta per farmi aiutare neanche in un cazzo di milione di anni.
Voglio finire il compito, non scrivere una poesia d’amore alla scienza e alla biologia.
Però c’è qualcosa che mi incuriosisce. «Allora, come stanno le cose tra te e quella ragazzina?».
Inarca le sopracciglia chiare. «S… Summer?».
«Fai da tata ad altre ragazzine fastidiose e maleducate che se ne vanno in giro a rovesciare roba nei supermercati?».
Violet smette di prendere appunti e si stringe nelle delicate spalle femminili. «Non stava rovesciando niente. Era curiosa ed emozionata».
La fisso, poco convinto.
Lei deglutisce. «Non sono la sua tata. Sono la sua giovedì».
«La sua giovedì. E che significa?».
«Sua madre è una s… studentessa qui, perciò, inclusa nella retta, i Servizi agli Studenti le forniscono una babysitter gratuita per dieci ore a settimana e i… io…».
«Le fai da babysitter il giovedì».
Annuisce. «I genitori di Summer sono nel programma di assistenza per gli studenti con figli. Suo padre ha appena finito un tirocinio e sua madre frequenta il corso di storia e un laboratorio al giovedì, perciò, finché lei è in classe, i… io sto con Summer».
«E che cazzo fai per tre ore con una bambina di quattro anni?».
«Veramente ne ha s… sette. È così dolce, un faccino da bambola. Facciamo dei lavoretti artistici. Lei fa i compiti. Andiamo al parco».
Dolce. Faccia da bambola.
Dio onnipotente.
«Al parco?».
«Già, sai… quel posto con altalene, sole e scivoli? Quelle giostrine su cui ci si arrampica... Cose divertenti? Sai cos’è il divertimento, vero?».
Socchiudo gli occhi… mi sta prendendo in giro?
Non avrei mai detto che la timidona potesse essere sarcastica o salace, ma l’aspetto spesso inganna. Trovandosi di colpo a parlare di un argomento di cui è appassionata, blatera e blatera su quei cazzo di parchi come se me ne fregasse qualcosa.
«Ce n’è uno davvero bello giù alla State, accanto all’edificio dell’amministrazione, quasi tra il campus e il centro…».
La interrompo, impaziente: «Non ti pago per conoscere la posizione del parco più vicino, ma per aiutarmi con biologia».
Lei arrossisce, proprio come mi aspettavo. «Giusto. S…». Scusa.
Si ferma appena in tempo.