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“Esci di nuovo con lui? Ragazza, ti stai davvero godendo il mese di SCOPembre, vero?”
Zeke
Di come mi sia ritrovato al parco il giorno dopo, giovedì per la precisione, non ne ho la più pallida idea. Immagino abbia a che fare col non sapere dove altro portare questo cavolo di ragazzino, quello che mi è stato affibbiato per le prossime settimane.
L’incontro è al Big Brothers Center, il suo culo è parcheggiato su una sedia quando entro, e se ne sta a chiacchierare con una tizia dietro la scrivania come se l’avessero fatto un centinaio di volte.
Tutti i discorsi si fermano quando attraverso la porta. Mi avvicino al banco, compilo i documenti pinzati a una cartelletta portablocco e incrocio lo sguardo della receptionist dai capelli grigi dietro la scrivania.
Si spinge verso di me con la sedia e mi rivolge un’occhiataccia da dietro gli spessi occhiali viola.
«È in ritardo, e il suo giovane amico la sta aspettando da otto minuti».
Chi è, la polizia dei volontari? Otto minuti non sono certo un dramma.
Le rispondo con un’alzata di spalle. «Avevo lezione».
«Cerchi di essere puntuale da adesso in poi o riceverà un richiamo». Mi toglie la cartella dalle mani, dà un’occhiata alle mie risposte scarabocchiate e poi chiede: «E dove passerete le vostre due ore insieme, lei e Kyle?».
Chi cazzo è Kyle?
«Chi?».
La donna, Nancy stando al cartellino, inclina il capo, facendo un cenno con il mento verso la parete posteriore. Il ragazzino sulla sedia si tira un po’ su, i piedi dondolanti. Non potrà avere più di dieci o undici anni. Mi guarda storto da sotto l’ampia visiera di un berretto da baseball degli Oakland A.
Devo passare le prossime due ore con questo ragazzino?
Merda.
Cerco di non fare una smorfia, ma non ci riesco.
«Be’? Mi serve una risposta». Fa l’occhiolino al ragazzino mentre le sue dita attendono sopra la tastiera sulla scrivania, pronte a inserire il luogo in cui porterò a giocare il mio Fratellino. «Dove porterà Kyle?».
«Dove?».
«Sì, Mr Daniels», annuncia impaziente. «Dove andrete e a fare cosa? Quali attività?». Parla come se fossi lento di comprendonio. «Ci servono informazioni precise a causa della responsabilità legale».
Nancy stringe le labbra e incrocia le braccia. «Era scritto nel pacchetto informativo che ha firmato quando è stato ammesso al programma… con riluttanza oserei aggiungere. Ha anche firmato una liberatoria dichiarando di aver letto le regole e le norme della nostra organizzazione. Le dice qualcosa tutto questo, Mr Daniels?».
Giusto, l’ho fatto.
Chiaramente non avevo letto un cazzo.
«Penso che…». Sollevo lo sguardo allo specchio sopra Nancy, aggrottando la fronte quando vedo il riflesso del piccolo bastardo, Kyle, che alza gli occhi al cielo alle mie spalle. «Non c’è un parco qua vicino dove si possa arrivare a piedi, così non devo metterlo nel pick-up? Quello su… State Street».
«Oh cielo», mormora Nancy, indispettita. Poi si ricompone. «Il Greenfield Community Park, o il Central County National?». Le sue mani sono di nuovo sospese sopra la tastiera.
«C’è un parco che si chiama Central County National? Sembra il nome di una prigione», dico atono.
«Be’, Mr Daniels, ci sono numerosi parchi nella zona, e stiamo parlando di due di essi. Se invece sta cercando una prigione», mi guarda dalla testa ai piedi un’altra volta con le labbra serrate, «la più vicina è a quaranta minuti in direzione nord».
«Sette parchi», interviene con questo utilissimo dettaglio una voce giovane e sottile. «Ci sono sette parchi in tutta la città».
«Giusto. Già. Penso che sceglierò l’opzione del Greenfield Community Park».
«Sulla State?». La donna lo batte sulla tastiera. «Solo per chiarezza».
Cristo Nancy, a chi cazzo importa?
«Ceeeerto».
Nancy alza la testa. «Se vi incontrate qui, registri sempre sulla cartellina l’orario in cui lo viene a prendere e quello in cui lo riporta. Se no, per cortesia ci mandi una mail o un messaggio con gli orari. Kyle sa come funziona». Gli lancia un sorriso e un occhiolino. «Assicurati di spiegare per bene le cose al ragazzo nuovo, Kyle».
Un altro occhiolino.
Kyle salta giù dalla sedia e ce ne andiamo.
*
«Sembra che io sia costretto a stare con te, ragazzino. Cerca di non dar fastidio». Il piccolo lercio in questione non risponde.
È impegnato a spostarsi verso l’estremità del marciapiede per evitarmi, mettendo tra di noi quanta più distanza sia umanamente possibile, mentre ci dirigiamo al parco vicino alla Big Brothers.
Il ragazzino, Kyle, sta in equilibrio sul cordolo, poi cammina sull’erba e sotto gli alberi, procedendo a zig zag tra i giardini delle case lungo la strada.
Alle sue sneakers nere consumate non resta molta suola quando fa un’altra frenata e poi schizza in avanti di almeno trenta passi come se avesse il diavolo alle calcagna. E forse ce l’ha, sotto forma di…
Me.
Nelle vicinanze del Greenfield Community Park, il posto che Violet ha menzionato ieri, cerco di riprenderne il controllo.
«Non correre dappertutto. Penso che dovresti tornartene qui».
Mi ignora.
«Cazzo, sto parlando con te, ragazzino».
«Cazzo, ti ho sentito», mi rimbecca, la voce prepuberale crepitante di falsa spavalderia che non si riflette del tutto nella postura. Si sistema la visiera del berretto per lanciarmi un’occhiata di traverso.
Secondo la sua scheda, Kyle Fowler è un ragazzino di quarta elementare che viene spesso lasciato da solo e che passa la maggior parte del tempo al centro comunitario mentre sua madre lavora. Secondo la sua scheda è tranquillo, rispettoso e mostra una certa attitudine agli sport, tra i quali preferisce il calcio.
Calcio? Per favore.
Ma secondo le mie osservazioni, Kyle Fowler è un teppistello con un caratteraccio peggiore del mio e un vocabolario sboccato a completarlo.
Socchiudo gli occhi. «Ehi, bada a come parli».
Lui neanche sbatte le palpebre. «Bada tu a come parli. Io ho undici anni».
Smetto di camminare e incrocio le braccia sul petto. «Senti, se siamo costretti a stare assieme per i prossimi mesi, il minimo che possiamo fare è cercare di andare d’accordo».
A sentirmi, sembro scontento della cosa quanto lui. Alla sua risposta carica di disprezzo, segue un grugnito quando si arrampica su un tavolo da picnic in legno e mi volta le spalle. «Non ho bisogno di andare d’accordo con te, idiota, sto bene da solo». Si pianta un indice nel petto ossuto.
«Ascolta, piccolo stronzo…».
Mi interrompe. «Dirò a mia madre che hai passato tutto il tempo a insultarmi, e poi ti cacceranno dal programma». Mi mostra il dito medio.
«Giuro su Dio, ragazzino, se non la finisci, io…».
«Tu cosa? Farai la spia?».
Le mie narici si dilatano. Che cazzo di problema ha questo ragazzino? «Tu perché sei in questo programma se lo odi così tanto? Quanto è incasinata la tua famiglia?».
«Non ho mai detto che lo odio e fatti i cazzo di affari tuoi». Kyle si ferma un attimo prima di lanciarmi un altro sguardo truce. I suoi occhietti impassibili mi giudicano da sopra una spalla. «So perché tu lo stai facendo. Qualcuno ti obbliga».
«Chissenefrega». Controllo l’ora sul telefono. «Dobbiamo far passare un’ora e tre quarti prima che possa riportarti indietro, quindi cosa vuoi fare?».
Si volta verso di me, alzando gli occhi al cielo dietro le lenti degli occhiali. «Non voglio starmene seduto in questo patetico parco. Perché mi hai portato qui? Non c’è un cazzo da fare. I parchi sono per bambini».
«Non porterò un bambino sporco di fango a fare un giro nel mio pick-up, perciò arrangiati».
«Non sono sporco».
«Sì, come no. Non so dove siano state quelle mani».
Mi sto sbagliando, o ha incassato le spalle?
«Almeno il mio ultimo Fratellone mi faceva mangiare quando avevo fame».
«Ti sembra che me ne importi se hai fame?».
«No. Mi sembra che tu sia un enorme buco di culo».
«Questo perché sono un enorme buco di culo». Gesù Cristo, mi sono appena autodefinito un buco di culo? Mi sto abbassando al livello di un ragazzino.
Mi passo il palmo di una mano sul viso e conto mentalmente fino a cinque per recuperare la pazienza.
Mentre lo faccio, Kyle salta giù dal tavolo e avanza verso le altalene, trascinando le scarpe da tennis sullo strato di trucioli di legno. Invece di sedersi su un’altalena, ne afferra il seggiolino e lo spinge con forza, mandandolo a volare in alto. Le catene risuonano e colpiscono il palo di metallo, creando un’eco irritante nel parco silenzioso.
«Piantala», gli dico dal mio trespolo al tavolo da picnic, irritato. «Disturbi la quiete».
Già… la mia quiete.
Lui mi ignora e le sue pallide braccine danno al seggiolino un’altra spinta.
«Ehi!», tuona la mia voce. «Ho detto di piantarla».
Non so neppure perché me ne importi, mi sta lasciando in pace e sta perdendo tempo come gli ho detto di fare, ma, per qualche ragione, il rumore del metallo mi dà ai nervi. Mi irrita.
«Hai intenzione di sederti e dondolarti su quella cosa o solo di continuare a infastidirmi per tutto il tempo?», urlo con voce bassa e profonda, carica di impazienza.
Kyle mi lancia un’altra occhiataccia da sopra la spalla minuta e una nube in tempesta di risentimento gli passa sugli occhi prima che i raggi del sole rendano indecifrabile la sua espressione.
Dalla mascella serrata mi esce un pesante sospiro. È più difficile di quel che pensavo.
«Vuoi che venga a spingerti?». Dio, che sto dicendo? Non penso di aver mai spinto qualcuno sull’altalena in tutta la vita. E poi ha undici anni, non dovrebbe saperlo fare da solo?
«Vaffanculo». Lascia andare il seggiolino e ricomincia a marciare attraverso i trucioli dell’area di gioco, scalciandoli con la punta delle scarpe.
È arrivato allo scivolo a spirale quando controllo di nuovo il telefono e gemo. Sono passati solo otto minuti dall’ultima volta che ho guardato l’ora.
Apro Spotify, un tentativo fallito di annegarmi nella musica.
«Non dovresti stare al telefono durante le nostre attività», mi urla lui. «Forse se avessi letto il manuale sapresti che è severamente proibito a meno che non sia proprio necessario per migliorare la qualità del nostro rapporto».
«Ah sì?», gli urlo di rimando, chiudendo l’app e cacciandomi il telefono nella tasca posteriore. «E che altro non dovrei fare?».
«Che te ne importa? Hai già infranto almeno cinque regole».
Davvero?
«Va bene, sapientone, che regole avrei infranto?».
Kyle marcia nella mia direzione, le braccia scheletriche oscillano al ritmo dei suoi passi. Si ferma davanti a me, con le mani sulla cintura dei pantaloni della tuta. «Be’, per cominciare non dovresti imprecare in presenza dei bambini. Lo sanno tutti».
«Vuoi piantarla con questa storia?», Mi incrocio le braccia sul petto. «Che altro?».
«Dovresti avvisare mia madre quando vieni a prendermi».
Gesù Cristo. «Tua madre?».
«Sì. E non dovresti lasciarmi da solo».
«Di che cazzo parli? Sono proprio qui».
«Già, ma mi lasci allontanare. Vuoi che qualcuno mi rapisca?». Getta le braccia al cielo e poi tutto intorno, agitandole in ogni direzione a indicare tutti i giri per il parco che gli ho lasciato fare, senza controllo. «Dovresti passare il tempo con me».
«Ragazzino, perché mai vorresti passare del tempo con me? Sono uno stronzo, ricordi? Due minuti fa hai detto che sono un gigantesco buco di culo».
Il silenzio risponde alla mia domanda.
«Allora, ragazzino?».
«Mi chiamo Kyle».
«D’accordo. Kyle. Allora cosa vuoi fare? Andare in bici? Sullo skateboard? Perché te lo dico subito, non sono io che m’inventerò stronzate da fare assieme».
«Skateboard e bicicletta? Quelle sono cose che si fanno al parco, e ti ho appena detto che odio stare qui».
«Non ho altre idee, scusa».
Kyle giocherella con la cerniera del giubbotto consunto. «Non hai qualche amico figo con cui possiamo uscire?».
La mia mente vola immediatamente a Violet e Summer, che ora staranno probabilmente facendo qualcosa di divertente.
Allontano quell’idea con una scrollata di spalle, seccato dal fatto che non possa accontentarsi di dondolare sull’altalena e arrampicarsi sui tavoli e merda del genere come un normale ragazzino.
Perché ha bisogno che lo faccia divertire?
«Magari la prossima volta, vedremo». Poi: «Ti secca se guardo l’ora, o Custode delle regole?».
Kyle sbuffa. «Fai come vuoi».
Ancora novantasette minuti con questo ragazzino. Altri centoventisette prima dell’allenamento di wrestling. E duecentosessantadue per poter chiudere la porta della mia stanza in faccia a questa giornata di merda.
«Dobbiamo solo tollerarci a vicenda per la prossima ora e trentasette minuti. Riuscirai a sopravvivere?».
Il ragazzino mi guarda fisso, i grandi occhi blu incorniciati da una faccia smunta dalla carnagione slavata. Una spruzzata di lentiggini scure sul ponte del naso lo fa sembrare sporco. I capelli spettinati, sparati in tutte le direzioni, gli danno un aspetto selvatico.
Inala un respiro. «Tu…» Espira. «Fai schifo».