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2035 Parole
4 “Giuro che si eccita al suono della bustina di un preservativo che si strappa come il mio cane quando apro un sacchetto di cibo”. Violet Zeke non viene in biblioteca da giorni. Non per studiare. Non per il tutoraggio. Né per qualsiasi altro motivo. Non posso dire di esserne sorpresa. Non posso dire di esserne delusa. Sono sollevata. L’intera settimana è stata carica di tensione. Ogni volta che la porta della biblioteca si apriva trattenevo letteralmente il fiato per vedere se Zeke Daniels sarebbe apparso. So che non ha finito il compito, ed è ben lontano dal farlo, perciò non riesco a immaginare perché non sia tornato. A meno che non sopporti studiare con me. Me lo chiedo mentre io e la piccola Summer ci dirigiamo mano nella mano verso un’area picnic nel nostro giovedì pomeriggio assieme. Troviamo facilmente un tavolo e apro subito i nostri zaini, estraendone libri, carta e il materiale artistico che mi sono portata dietro. «Come sta tua madre?», domando, prendendo un blocco da disegno a spirale e tenendolo fermo quando il vento lo colpisce. «Bene. È stanca ma deve fare un solo… come si chiama quando vai a scuola?». «Semestre?». «Già. Gliene manca solo uno. Ha detto che quando si diploma prenderemo un appartamento con papà o qualcosa del genere, così andiamo via dalla casa di nonna e nonno». «Un appartamento! È emozionante!». Le stringo le spalle. «Avrai una stanza tutta tua?». Lei strizza forte le palpebre. Le riapre un secondo dopo, eccitata. «Penso di sì!». «Oh, è grandioso!». E lo è. Il padre di Summer, Erick, ha appena finito il tirocinio in una delle più grosse società della città, e dell’intero Paese. Sta avviando la sua carriera, e la madre di Summer, Jennifer, è sul punto di diplomarsi; la loro piccola famiglia starà finalmente insieme. «Ehi», Summer interrompe i miei pensieri toccandomi il braccio con la matita. «C’è quel ragazzo». Alzo la testa. La scuoto, aspettandomi davvero di vedere un ragazzino, invece vedo Zeke Daniels e un bambino. «C… che cavolo ci fa qui?», mi chiedo ad alta voce con apprensione, la tensione che mi cresce alla bocca dello stomaco. «Gioca?», suggerisce speranzosa Summer. Solo che non lo sta facendo. Zeke avanza tra l’erba, la fronte aggrottata rivolta verso il ragazzino turbolento che gli sta letteralmente correndo in cerchio attorno. Ha il naso nel cellulare. «Vuoi piantarla, cazzo?», lo sento lamentarsi ad alta voce. «Mi stai facendo impazzire». «Sei l’essere umano più scorbutico che esista!», strilla il ragazzino, arrampicandosi su una roccia e saltando giù, colpendo l’aria come un ninja. «Fai schifo!» Quando i suoi piedi toccano terra, il ragazzino si mette a correre, le scarpe che scalciano la sabbia attorno allo scivolo. «Cresci!», gli urla dietro Zeke. La scena è quasi divertente e devo ricacciare indietro una risata. Zeke si ferma di botto quando vede me e Summer al tavolo da picnic. Riesco a notare fin da qui che alza gli occhi al cielo. «Non ti sto seguendo», mi dice in tono irato, avvicinandosi al tavolo. Io mi tengo occupata riordinando il contenuto del piccolo zaino di Barbie di Summer per non doverlo guardare negli occhi. Le passo gli adesivi glitterati delle principesse e una scatolina mezza vuota di Tic Tac all’arancia. «N… non pensavo che mi stessi seguendo». Gli rivolgo un sorriso vacuo, quasi condiscendente. «Non sono proprio il tipo di ragazza che uno come te seguirebbe». Oddio, a cosa diavolo pensavo per farmi scappare di bocca una frase del genere? Per fortuna, Summer mi interrompe, tirandomi la manica della camicia. «Vi, posso andare a giocare con quel ragazzo?», mi chiede, già per metà giù dalla panca e diretta verso il piccolo Zeke Junior, che si sta aggirando arrabbiato attorno alla struttura per arrampicarsi. Wow. Quei due sono una bella coppia. Mi chiedo come sia possibile che la domanda per fare volontariato di Zeke Daniels abbia superato l’esame della Big Brothers. Organizzazioni come quella non prendono chiunque. Hanno degli standard. Delle aspettative. Dubito seriamente che Zeke ne rispetti anche solo uno. «Certo, tesoro», le urlo dietro. «Ma fa’ attenzione. Non correre!». Sospiro. Zeke mi rivolge uno strano sguardo; segue i miei movimenti, specialmente quando mi butto la treccia alla francese oltre una spalla. I suoi occhi chiari si posano sul fiore di seta rosa attaccato all’elastico. Scuote la testa e dà un’occhiataccia al ragazzo, che ora è seduto nella sabbia con Summer. Stanno lavorando assieme, modellando un piccolo cumulo di sabbia a forma di collina e infilando dei bastoncini nel terreno tutto attorno, come un castello con delle mura. Il cellulare di Zeke fa un bip e lui lo prende in mano ma non lo controlla. «C… come sta venendo il compito di biologia?». Desidero che la mia balbuzie sparisca, ma oggi non vuole darmi retta. «Q… quasi finito?». «Sta venendo». Sbatto le palpebre, cercando di decidere se nelle sue parole sia nascosta un’allusione. «Vuoi che gli dia un’occhiata prima della scadenza?», azzardo. «Una correzione?». «Sono sicuro che è a posto». «Ne sono sicura anche io, ma fammi sapere se dovessi cambiare idea». Do uno sguardo al ragazzino che ora sta cortesemente aiutando Summer a salire su una delle altalene. «Dovremmo farli tornare. So che si stanno divertendo, ma Summer voleva fare un biglietto d’auguri per il compleanno di sua madre». Grido loro che ci raggiungano. «Sarebbe meglio andarcene proprio. Non voleva venire qui, ho dovuto obbligarlo». «E perché l’hai fatto?». «Perché non mi interessa cosa vuole?». Lo fisso, lanciandogli il mio sguardo più scettico. Sto cercando di avanzare in mezzo alle sue cazzate, che suppongo ormai mi arrivino alla vita, ma non glielo dico. «E poi», continua Zeke, «non so dove altro portare quello stronzetto». Ah, adesso inizio a capire. «Che ne dici di un po’ di allenamento a baseball nelle gabbie di battuta?». Lui alza le sopracciglia. «Ti sembra che io giochi a baseball?». «No, ma i… io penso che saresti bravo». «Ci puoi scommettere». Parlando di ego. «Fai qualche sport?». Per forza, con un corpo come quello. Glielo chiedo nel tono più disinvolto possibile, cercando di non guardarlo. «Sì, faccio sport». «Q… quali?». «Wrestling». «Fai wrestling?». «Già. Ne hai mai sentito parlare?». Il sarcasmo è palpabile e cambia il tono della nostra conversazione. L’aria si carica di tensione. «Be’, sì. Ma non mi ero resa conto che ci fosse una squadra all’università». Non pensavo che per lui fosse possibile sembrare scioccato, ma mi sbagliavo. «Parli sul serio?». «Sì. Lo sport non è proprio il primo dei miei pensieri». Mi risparmio la sua risposta perché i ragazzi si avvicinano poco entusiasti, trascinando i piedi sull’erba. «Il parco fa pena», borbotta Kyle. «Già!», concorda Summer, andandogli dietro. «Ho sentito dire che non sei un fan del parco», scherzo con una risata, mentre metto davanti a Summer un pezzo di cartoncino, delle matite e degli adesivi perché possa iniziare il suo progetto. «Ma forse possiamo pensare a qualche altra attività che voi due potete fare insieme. Che te ne pare?». «Fa pena, ma lui non aveva altri posti dove portarmi». «Ci sono un milione di posti dove andare!». Mi volto verso Zeke. «Pensiamo a qualche altra idea». «No». Oh cielo, che scontroso. Lo ignoro, ripromettendomi di pensare a una lista di cose divertenti in un altro momento, e mi rivolgo al ragazzo. «Come ti chiami?». «Kyle». «Be’, Kyle, è un vero piacere conoscerti. Io sono Violet». Prendo una risma di carta e gliela porgo. «So che sei più grande, ma vuoi fare qualcosa? La tua nuova amica, Summer, sta facendo un biglietto d’auguri per sua madre». Kyle si arrampica sulla panca e mi toglie con entusiasmo i fogli dalle mani. «Certo! Posso farne uno anche io per la mia mamma. E Summer non è male… per essere una femmina». Rido di nuovo. «Lo considererò un complimento». Zeke sbuffa. «Uno ambiguo». Kyle alza lo sguardo, l’espressione confusa. «Cosa vuol dire?». «Un complimento ambiguo è dire qualcosa di gentile ed essere scortese allo stesso tempo». «Non ero scortese!». Mi intrometto, spargendo altri fogli sul tavolo per dare ai ragazzi una scelta più ampia e bloccare la lite che sta nascendo tra un ventunenne e un undicenne. «Carta? Pastelli?», mugola Zeke. «Ugh, sul serio? Gesù. Quanto ci vorrà?». «N… non va bene?». Faccio una pausa. «Devi andare da qualche parte? Se lui deve tornare…». «Non devo tornare!», replica Kyle solerte, già scavando tra i pastelli. «D’accordo». La tempesta sul volto di Zeke si scurisce mentre incrocia le braccia robuste. «Sbrigatevi». Zeke «Ehi, mamma». Due lunghe e atroci ore dopo, Kyle corre da sua madre. Due dolorose, irritanti ore passate a guardarlo disegnare, colorare e incollare con Summer e Violet al parco. «Ehi, ragazzino. Com’è andata?». Gli passa le dita tra i capelli castani, prendendone un ciuffo con un sorriso. «Sono brillantini?». «Già, abbiamo fatto una battaglia di brillantini». Timidamente, il ragazzino le porge il disegno di un leone. «Tieni, l’ho fatto per il frigo». Mentre lei esamina il disegno, un cartoncino blu colorato con i pastelli e decorato con palline gialle pelose, io esamino lei. Giovane, capelli castani e spettinati, mascara nero sbavato sotto gli occhi. Stanca. Esausta. La madre di Kyle mi tende una mano e io la prendo, scuotendola su e giù. «Ciao, sono Krystal, la mamma di Kyle». Di solito, quando stringo la mano a qualcuno, la stringo davvero, ma le dita di Krystal sembrano deboli e fragili. Fredde come il ghiaccio. Le ossa friabili come quelle di un uccellino. Esausta. Lei arruffa i capelli spettinati del figlio con mani che conoscono il duro lavoro. «Scusa se sono un po’ in ritardo, piccolo. Ho dovuto aspettare che Donna mi desse il cambio». «È un’infermiera, Mrs Fowler?», chiedo a voce alta. «È Jones. Ms. Non mi sono mai sposata». Aggrotta la fronte. «E no, non sono un’infermiera, faccio la cameriera alla stazione di servizio fuori della Old 90 e ho appena staccato da un doppio turno. Tu devi essere il nuovo Fratellone». Krystal mi esamina con occhio critico dall’alto in basso. «Come hai detto che ti chiami?». «Zeke Daniels». Mi osserva stringendo le labbra, ricontrollandomi dalla testa ai piedi. I suoi acuti occhi castani si soffermano sulla felpa sporca di sudore che ho messo per correre, sul giubbotto senza maniche nero, sui pantaloni da corsa che non lavo da una settimana e sulle scarpe da tennis da duecento dollari che porto senza calzini. Le sue sopracciglia disegnate si sollevano prima che abbassi lo sguardo sul figlio, dandogli una piccola gomitata. «Allora? Com’è andata?». «È andata benino», mormoro nello stesso momento in cui Kyle dice d’un fiato: «È stato grandioso, mamma! Io e Zeke siamo già migliori amici». Le sopracciglia mi schizzano all’attaccatura dei capelli. «È il miglior Fratellone che abbia mai avuto!», Guardo storto lo stronzetto. «Non ti sembra di esagerare un po’?». Kyle fa spallucce e lo sguardo di disapprovazione di sua madre schizza avanti e indietro tra me e lui: sa che uno di noi sta sparando cazzate, ma non riesce a decidere chi. Comunque, dice: «Va bene, allora sarai il suo una-volta-a-settimana». Krystal scava nella borsa e ne estrae le chiavi dell’auto. «Lavoro ogni giorno, a volte faccio il doppio turno, perciò torno sempre tardi». Splendido. «Suo padre non fa parte del piano, perciò se vuoi prenderlo più di una volta a settimana assicurati di dare a me parecchio preavviso. So che è contro le regole del centro, ma mi aiuterebbe davvero se potessi tenerlo più di qualche ora, soprattutto di giovedì». Si è completamente bevuta il suo cazzo di cervello se pensa che succederà mai. «Il mio numero è…», attacca. Resto con le braccia incrociate, appoggiato al bancone dell’ingresso. «Il mio numero è…», ripete Krystal. Un gomito puntuto mi si conficca tra le costole. «Zeke, prendi il telefono». Odio. La. Mia. Vita. * «Ehi, Daniels. Ho sentito che ora fai la babysitter», mi urla uno dei miei compagni di squadra nella sala pesi proprio mentre sto sollevando centotrentacinque chili buoni sopra la testa. «Povero ragazzino», ride qualcun altro. Grugnisco, espello uno sbuffo d’aria, il sudore mi ricopre il labbro superiore, il petto, la schiena e la fronte. Una goccia mi scende lungo la tempia mentre innalzo in mente una barriera, per bloccare il suono dell’irritante voce di Rex Gunderson. «Il ragazzino ha una mamma sexy?». Ma che cazzo? Cerco di tirar su la testa, nonostante il peso che sto sollevando. «Lascia perdere, amico, hai quasi finito. Altre sei volte». Sebastian Osborne, mio compagno di squadra e coinquilino, mi guarda dall’alto, le labbra strette in una linea sottile. «Chiudi il becco, Rex, è nel mezzo di una serie». Poi aggiunge rivolto a me: «Altre cinque». Quattro. Tre. Due. Una. La barra di metallo colpisce il sostegno sferragliando, nello stesso momento in cui, per lo sforzo, l’aria esce dal mio corpo in uno sbuffo lungo e sonoro. Resto disteso immobile, inspirando ed espirando per riempirmi i polmoni. Fletto i pettorali. Sollevo il busto, mettendomi a cavalcioni della panca. «Ho sentito dire che fai anche di più che la babysitter». «Ah sì?», scatto. «E dove l’avresti sentito dire?». «La responsabile del mio dormitorio fa la volontaria al centro informazioni per turisti vicino a un qualche parco. Ti ha visto ieri con dei ragazzini e una tipa bionda». «È davvero una miniera d’informazioni». «Vedo che non lo neghi». «E perché dovrei? Ti ha già dato lei i dettagli succosi. Ieri ero al parco. Avvincente». Gunderson ride. «Fai la babysitter gratis, Daniels? Potrei avere un lavoro per te. Il mio fratellino ha otto anni». «Non hai niente da fare, Rex? Riempire le borracce? Procurarci degli asciugamani puliti?». Oz si allontana dalla panca su cui sono seduto e si avvicina ai pesi liberi. Sta in piedi davanti alla rastrelliera, sembra riflettere, prima di scegliere un manubrio da quindici chili e iniziare una serie.
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