1

2875 Parole
1In una caldissima sera del mese di luglio, un giovane uscì dalla stanzetta che aveva preso in affitto nel vicolo S., scese nella strada e lentamente, come esitando, si diresse verso il ponte K. Scendendo le scale ebbe la fortuna di non incontrare la padrona di casa. La sua stanzetta si trovava proprio nel sottotetto di un edificio alto cinque piani, e sembrava più un armadio che una stanza. La signora che gliela aveva affittata, vitto e servizi compresi, abitava in un appartamento al piano di sotto, e ogni volta che voleva uscire lui era costretto a passare davanti alla cucina della padrona, che aveva la porta quasi sempre spalancata sulle scale. Il giovane era costantemente in arretrato con l’affitto, e ogni volta che passava davanti a quella porta provava una sensazione morbosa di paura e di vergogna che gli faceva incupire il volto. Non aveva un carattere timido e non era neanche un vigliacco, ma da un po’ di tempo era piuttosto teso e irritabile, molto vicino all’ipocondria. Si era talmente chiuso in sé stesso e isolato che non voleva incontrare nessuno, tanto meno la padrona di casa. Era poverissimo; eppure, negli ultimi tempi, non gli pesavano più nemmeno le ristrettezze. Aveva smesso completamente di occuparsi dei problemi quotidiani, ed era deciso a continuare così. In fondo non gli importava nulla della padrona di casa e di quello che poteva fare contro di lui. Ma non sopportava l’idea di essere fermato sulle scale e di essere costretto ad ascoltare chissà quante stupidaggini, le richieste insistenti di pagare l’affitto e tutte le minacce e le lamentele che lo avrebbero obbligato a scusarsi, a mentire… no, no: meglio sgattaiolare giù per le scale senza farsi vedere da nessuno. Arrivato in strada si stupì di tutta quella paura e pensò sorridendo: «È mai possibile che mi spaventi per simili sciocchezze quando ho in mente dei progetti così ambiziosi? Mmh... già... Tutto è nelle mani dell’uomo, e per vigliaccheria l’uomo si lascia sfuggire tutto dalle mani... Questo è un assioma... Che strano! Chissà di che cosa ha paura la gente? Forse la gente ha paura delle novità, delle parole nuove... Ma io chiacchiero troppo. Non concludo mai niente proprio perché parlo troppo. Anche se, in fondo, si può dire anche che parlo tanto perché non concludo niente. In questo ultimo mese non ho fatto altro che a dar voce ai miei pensieri, standomene sdraiato in un angolo per giorni e giorni... E adesso perché sto andando là? Sono davvero capace di fare questa cosa? Ed è forse una cosa seria, questa? Non è seria per niente. Perdo tempo con le mie fantasie, così, tanto per distrarmi! Ma sì, forse non faccio altro che giocare!» Faceva un caldo tremendo e c’era anche una gran calca; c’erano dappertutto impalcature, mattoni, calcina, polvere, e quel tipico tanfo estivo così familiare ai Pietroburghesi che non possono permettersi di affittare una casa in campagna. Tutto questo innervosì molto il giovane, il quale già di per sé aveva i nervi abbastanza scossi. Lo squallore era completato dall’insopportabile puzzo delle tante bettole che c’erano in quella zona, e dagli ubriachi che, nonostante fosse ancora giorno, gli si mettevano sempre in mezzo. Una smorfia di fastidio si disegnò sul volto del giovane che era decisamente bello con i suoi lineamenti fini, gli occhi scuri, la figura slanciata e più alta della media. Ma presto egli cadde come in una profonda meditazione che avrebbe potuto essere scambiata per una sorta di torpore, e continuò a camminare senza fare più caso a quanto lo circondava. Solo di tanto in tanto borbottava qualcosa tra sé, per quell’abitudine al monologo che si era riconosciuta poco prima. Si rendeva conto che i suoi pensieri si in garbugliavano, forse anche a causa della sua estrema debolezza, dato che erano già due giorni che non quasi toccava cibo. Era vestito in modo così trasandato che anche uno abituato a vestire sempre male si sarebbe vergognato di farsi vedere in giro con quegli stracci. D’altra parte, in quel quartiere la gente non faceva molto caso ai vestiti degli altri. La vicinanza della piazza del mercato, le tante bettole e il fatto che in quella zona ci fossero per lo più operai e artigiani che si ammassavano in quelle vie e in quei vicoli del centro di Pietroburgo, facevano sì che nessun incontro potesse risultare strano o sorprendente. In ogni modo il giovane aveva accumulato in sé tanto di quel disprezzo che, nonostante il suo carattere ombroso, non si vergognava affatto di farsi vedere vestito a quel modo. Certo, avrebbe preferito non imbattersi con qualche conoscente o qualche vecchio amico, persone che normalmente evitava di incontrare. Tuttavia, quando gli passò accanto un ubriaco che si trovava, chissà come e perché, sopra un enorme carro trainato da un gigantesco cavallo da tiro, e questo gli gridò all’improvviso additandolo: «Ehi, tu, cappellone tedesco!» - il giovane si fermò di colpo afferrando istintivamente il suo cappello. Era un cappello alto a forma di cilindro, alla Zimmerman, talmente vecchio e rovinato che aveva preso un colore rossastro, tutto bucherellato e pieno di macchie, senza più falde e piegato da un lato in modo indecente. Non provò vergogna, ma un sentimento molto diverso, qualcosa di simile allo sgomento. E borbottò turbato: «Lo sapevo, io! Ci avrei giurato! È la cosa peggiore che potrebbe capitare! Sono proprio sciocchezze come questa che possono rovinare tutto. Questo cappello da troppo nell’occhio... È talmente ridicolo che si vede lontano un miglio... Con questi stracci che ho addosso si abbina meglio un berretto qualunque, non questo orrore che mi sono messo sul capo. Roba così non la porta più nessuno. E la cosa più grave è che tutti se ne ricorderanno, rappresenterà un primo indizio. Bisogna passare il più possibile inosservati, sono i dettagli che contano... sono proprio i piccoli particolari di solito a rovinare tutto...» Aveva poca strada da fare; sapeva perfino quanti passi c’erano dal portone di casa sua: esattamente settecentotrenta. Li aveva contati, un giorno in cui ci aveva fantasticato sopra parecchio. A quell’epoca non immaginava ancora neanche lontanamente che un giorno sarebbe passato all’azione, si limitava ad accarezzare quel sogno spaventoso, pur continuando ad abbandonarsi ai suoi monologhi a proposito della sua indecisione e della sua incapacità di agire. In un certo senso si era convinto che stava andando a fare una specie di “prova generale” e quindi la sua agitazione aumentava ad ogni passo. Con il cuore in subbuglio, e scosso da un tremito, si avvicinò a un enorme fabbricato, che dava da un lato su uno stretto canale e dall’altro sulla via. Era un edificio composto di piccoli appartamenti, abitati da artigiani, sarti, falegnami, cuoche, diversi tedeschi, ragazze che vivevano per conto proprio, piccoli impiegati e così via. Era un continuo andirivieni di gente attraverso i due portoni e nei due cortili dell’edificio. C’erano tre o quattro portieri; il giovane fu molto contento di non incontrarne nessuno, e senza farsi vedere sgattaiolò subito via verso destra, su per la scala buia e stretta che lui aveva già studiato in precedenza e la cosa gli andava a genio perché in quel buio nessuno avrebbe potuto riconoscerlo. «Se ho tutta questa paura adesso, cosa farò se un giorno dovessi effettivamente passare all’azione?...» pensò senza volerlo, avvicinandosi al quarto piano. Qui gli ostruirono il passaggio alcuni soldati in congedo, che si erano improvvisati facchini, e stavano trasportando dei mobili fuori da un appartamento. Lui sapeva che in quell’appartamento viveva un tedesco - un impiegato - con la sua famiglia, e prima di suonare alla porta della vecchia pensò: «Il tedesco sta traslocando, e quindi, al quarto piano, su questa scala e su questo pianerottolo, per un po’ di tempo, l’unico appartamento occupato sarà quello della vecchia. Meglio così… non si sa mai...» Il campanello trillò debolmente, come se fosse di latta e non di bronzo; in quelle case i campanelli sono quasi sempre così. Lui non si ricordava di quel suono, e fu come se quel trillo particolare gli ricordasse con chiarezza qualcosa... Aveva i nervi talmente scossi che fu preso da un tremito. Dopo una breve attesa, la porta si aprì a metà e da quella stretta apertura la padrona di casa lo esaminò con i suoi occhietti inquieti, che in quella oscurità sembravano due puntini luminosi. Ma, vedendo altra gente sul pianerottolo, si rassicurò e spalancò la porta. Il giovane si ritrovò in un’anticamera buia divisa in due da un tramezzo, dietro al quale stava un cucinino. La vecchia gli stava ritta davanti e lo guardava con aria interrogativa. Lei era piccola, ossuta, col naso appuntito, avrà avuto una sessantina d’anni e i suoi occhi avevano un’espressione cattiva. Era a testa scoperta e i suoi capelli, già grigi erano spalmati di grasso. Aveva il collo lungo e sottile, avvolto in uno straccio di flanella, e nonostante il caldo, aveva sulle spalle una pelliccia giallastra tutta spelacchiata. Tossiva e gemeva continuamente. Il giovane doveva averla guardata in un modo strano, perché negli occhi di lei ricomparve un’espressione diffidente. Ricordandosi che doveva apparire il più amabile possibile, lui si affrettò a fare un mezzo inchino e disse: «Sono uno studente e mi chiamo Raskòlnikov; sono stato da voi un mese fa.» «Ricordo, bàtjuška, ricordo bene,» disse la vecchia continuando a fissarlo con aria sospettosa. «E così... sono tornato per un altro affaruccio...» continuò Raskòlnikov, un po’ turbato e sorpreso da tutta quella diffidenza, e pensava: «Forse lei è sempre stata così, e magari l’altra volta non me n’ero accorto.» La vecchia rimase qualche istante in silenzio, come se riflettesse, poi si fece da parte e gli indicò una porta, dicendo: «Entrate, bàtjuška.» Entrò in una piccola stanza tappezzata di giallo, con gerani e tendine di mussola alle finestre, tutta illuminata dalla luce de tramonto, e in quel momento pensò, come per caso: «Anche allora, dunque, il sole splenderà così!...»; diede una rapida occhiata a tutta la stanza, per potersela ricordare bene. Ma, per la verità, non c’era nulla di particolare. I mobili, tutti molto vecchi e di legno giallo, consistevano in un divano dall’enorme spalliera convessa, un tavolo ovale davanti al divano, una pettiniera con un piccolo specchio messa vicino al muro tra le due finestre, qualche sedia lungo le pareti e due o tre stampe da quattro soldi, incorniciate di giallo, raffiguranti fanciulle tedesche che reggevano in mano degli uccellini. Tutto qui. In un angolo, davanti a una piccola icona, ardeva una lampada. Era tutto molto pulito, il pavimento, i mobili, tutto luccicava. «Opera di Lizavèta!» pensò il giovane. In tutto l’appartamento non si sarebbe potuto trovare un solo granello di polvere. «Le case delle vedove vecchie e cattive sono sempre molto pulite,» pensò ancora Raskòlnikov, e, incuriosito, diede un’occhiata alla tenda di cotonina che stava davanti alla porta che dava su una seconda, piccolissima camera, dove c’erano il letto e il cassettone della vecchia e dove lui non aveva ancora mai potuto gettare lo sguardo. Tutto l’appartamento era in quelle due stanze. «Che cosa volete?» disse con aria burbera la vecchietta, entrando nella stanza e piantandosi, come prima, proprio davanti a lui, e guardandolo dritto in faccia. «Ho portato una cosa in pegno, ecco qua!» e si cavò di tasca un vecchio e piatto orologio d’argento che sulla cassa aveva inciso un globo. La catenella era d’acciaio. «Ma il pegno dell’altra volta è scaduto. Il mese è finito da due giorni.» «Vi pagherò gli interessi per un altro mese; abbiate pazienza.» «Bàtjuška io sono libera di vendere il vostro oggetto fin da questo momento, se voglio.» «E quanto mi date per l’orologio, Aléna Ivànovna?» «Voi mi portate sempre cianfrusaglie di poco valore. L’ultima volta, per quell’anellino, ho sborsato due biglietti, ma si può comprare nuovo dal gioielliere per un rublo e mezzo.» «Datemi quattro rubli, lo riscatterò, è di mio padre. Presto avrò dei soldi.» «Un rublo e mezzo, e gli interessi anticipati, prendere o lasciare.» «Come?... Un rublo e mezzo!» esclamò il giovane. «Se non volete...» E la vecchia gli restituì l’orologio. Lui lo prese, talmente arrabbiato che voleva andarsene via; ma cambiò idea, ricordando che non sapeva più dove andare e che non era andato lì solo per il pegno. «Date qua!» disse sgarbatamente. La vecchia cercò le chiavi in tasca e andò nell’altra camera, dietro la tenda. Rimasto solo in mezzo alla stanza, il giovane tendeva l’orecchio e rifletteva. Sentì aprire il cassettone, e pensò: «Dev’essere il primo cassetto, lei, dunque, tiene le chiavi nella tasca di destra... tutte in un mazzo, con un anello di acciaio... E una delle chiavi è più grossa di tutte le altre, almeno di tre volte ed è dentellata; non può essere del cassettone... Quindi dev’esserci anche un baule o una cassaforte... Ecco una cosa interessante... tutti i bauli hanno delle chiavi così... Ma come è ignobile tutto questo...» La vecchia tornò. «Ecco qua, bàtjuška: calcolando dieci copeche al mese per rublo, per un rublo e mezzo mi dovete pagare un mese anticipato quindici copeche. Poi, facendo lo stesso conto, per i due rubli dell’altra volta mi dovete dare venti copeche. In tutto, quindi, fanno trentacinque copeche. Quindi, per il vostro orologio vi spettano un rublo e quindici copeche. Eccoli, prendete.» «Ma come! Soltanto un rublo e quindici copeche!» «Proprio così.» Il giovane non stette a discutere e prese il denaro. Guardava la vecchia e non si decideva a uscire, come se volesse ancora dire o fare qualcosa, ma non sapesse nemmeno lui che cosa... «Aléna Ivànovna, forse tra pochi giorni vi porterò ancora un oggetto... d’argento... Un bel portasigarette... appena me lo restituirà un amico...» Si confuse e tacque. «Ne parleremo quando me lo porterete, bàtjuška.» «Addio... Voi ve ne state sempre sola in casa, vostra sorella non c’è?» domandò con la maggior disinvoltura possibile, passando nell’anticamera. «E a voi che ve ne importa di lei?» «Dicevo così, tanto per dire... e voi, subito... Addio, Aléna Ivànovna!» Uscendo, Raskòlnikov era in preda ad un turbamento che aumentava sempre più. Scendendo le scale si fermò varie volte come per qualche pensiero improvviso. Una volta in strada, esclamò: «Dio mio! Com’è disgustoso tutto questo! Ma è possibile, possibile che io... No, è assurdo, una vera assurdità!» disse con decisione. «Come ho potuto mettermi in testa un’idea così orribile! Come posso essere così infame, lurido, schifoso, abietto, abietto! E pensare che per tutto il mese io...» Ma non riusciva a esprimere a parole tutto il suo turbamento. Quel senso di infinito disgusto, che aveva cominciato a opprimere e assillare il suo cuore fin dal momento in cui stava andando dalla vecchia, ora aveva preso tali proporzioni, si era svelato in modo così evidente, che non sapeva più come sfuggire alla propria angoscia. Camminava sul marciapiede barcollando come un ubriaco, senza accorgersi dei passanti, urtandoli; e ritornò in sé solo quando aveva cambiato strada. Si guardò intorno e vide una bettola lì vicino, per entrare nella quale bisognava scendere una scala fino a un interrato. Proprio in quel momento stavano uscendo dalla porta due ubriachi, che sostenendosi tra loro e insultandosi risalivano sulla strada. Senza pensarci due volte, Raskòlnikov scese giù. Non aveva mai messo piede in una bettola, ma adesso gli girava la testa, e aveva una gran sete. Aveva voglia di una birra fredda, anche perché pensava che tutta quella debolezza improvvisa fosse dovuta alla fame. Si accomodò in un angolo scuro e sporco, davanti a un tavolino tutto appiccicoso, ordinò della birra e bevve con avidità il primo bicchiere. Si sentì subito meglio e con le idee più chiare, e si disse con fiducia: «Sono tutte sciocchezze, non c’è motivo di agitarsi! Mi sono solo sentito poco bene, tutto qua! Basta un bicchiere di birra, un pezzo di biscotto, e in un attimo, la mente recupera le forze, le idee si schiariscono, i propositi si rinsaldano!» Aveva già un’aria allegra, come se si fosse liberato improvvisamente di un qualche peso, e si mise a guardare con aria amichevole i presenti. Ma sentiva che quell’improvviso ottimismo aveva qualche cosa di innaturale A quell’ora c’era poca gente nella bettola. Dopo i due ubriachi nei quali s’era imbattuto sulla scala, era uscita tutta una brigata di cinque uomini con una ragazza e una armonica. Una volta usciti, il locale piombò nel silenzio. Erano rimasti: un tale seduto davanti alla sua birra, già leggermente brillo, che a giudicare dall’aspetto poteva essere un piccolo borghese; il suo compagno, un tipo grasso, enorme, con una gran palandrana e la barba bianca, completamente sbronzo, che sonnecchiava sulla panca e che ogni tanto, all’improvviso, si metteva a schioccare le dita, ad allargare le braccia e a saltellare con la parte superiore del corpo senza alzarsi dalla panca, canticchiando una stupida canzoncina di cui ricordava a malapena i versi, come per esempio: Accarezzò la moglie per un anno intero, Oppure, di colpo, svegliandosi di nuovo: Per la Podjàèeskaja s’avviò, la sua bella di un tempo vi incontrò... Ma nessuno condivideva la sua allegria; il suo taciturno compagno guardava tutti quegli scatti con ostilità e diffidenza. C’era anche un altro tipo, il cui aspetto poteva essere quello di un funzionario in pensione. Se ne stava seduto in disparte, davanti al suo bicchiere, bevendo un sorso ogni tanto e guardandosi intorno. Anche lui sembrava piuttosto agitato.
Lettura gratuita per i nuovi utenti
Scansiona per scaricare l'app
Facebookexpand_more
  • author-avatar
    Scrittore
  • chap_listIndice
  • likeAGGIUNGI