CAPITOLO 1
Giugno 2010
Lago Baikal, Siberia
Il batiscafo Trieste III si muoveva circospetto, come un granchio di una specie sconosciuta, il corpo rosso e oblungo. I due riflettori da cinquemila watt montati sulla sua fronte concava, che potevano proiettare una luce dorata per un raggio di circa settanta metri, erano spenti.
Alimentato da antichi corsi d’acqua gelata privi di sedimenti e fango, il lago Baikal possiede acque incredibilmente terse e cristalline; un minuscolo crostaceo filtratore, l’Epischura baicalensis, contribuisce alla causa divorando il plancton e le alghe che inquinano la maggior parte dei laghi d’acqua dolce.
All’interno della capsula, lunga appena tre metri e larga due, Thomas Bernardi si mise in posizione semidistesa e semi rannicchiata a fianco del pilota, Alexander Kharitonov. Premette il viso contro il largo oblò davanti al naso, mentre il suo sguardo sondava il fondale del lago.
I due nelle capsula erano in stretto contatto radio con la nave appoggio, la Sudno. Essa aveva gettato l’ancora a sud del lago, a largo del paese di Slyudyanka. La spedizione di ricerca, facente capo all’OGS, l’istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale, con sede a Trieste, era impegnata da settimane per trovare una spiegazione plausibile a un’allarmante sparizione delle specie ittiche e di altri animali appartenenti all’ecosistema del lago, come la foca Nerpa, specie unica nel mondo. Le possibili cause del suo degrado potevano essere ricondotte all’inquinamento del lago da parte dell’uomo.
Dopo l’ennesima settimana trascorsa a fare ricerche, con più domande che risposte ad affollargli la mente, Thomas Bernardi aveva deciso di approfondire le indagini, sondando le profondità del lago. Quel mattino si stavano dirigendo a sud, quando il sonar aveva captato qualcosa di molto grosso sotto la superficie. Thomas, curioso come il resto dell’equipaggio, aveva deciso di ispezionare la zona con il batiscafo, per capire di cosa si trattasse.
La discesa si era rivelata semplice, normale routine. Alexander Kharitonov era un abile pilota, di grande esperienza. Mentre faceva virare il batiscafo non ci si rendeva nemmeno conto del movimento, tanto era felpata la sua mano.
Dopo circa dieci minuti di navigazione, qualcosa sul fondale attirò l’attenzione di Thomas. Dopo aver aguzzato la vista per qualche secondo, sgranò gli occhi dalla sorpresa.
«Oddio, guarda lì», mormorò.
Kharitonov seguì il suo dito puntato. Poi si chinò in avanti e trattenne il respiro per non appannare il vetro.
«Non vedo niente», disse.
«Laggiù. Gusci di gambero. A migliaia. Ce ne sono dappertutto sul fondale.»
Kharitonov abbassò lo sguardo e spalancò gli occhi. I gusci sporgevano dal terreno come alghe aliene, sospinti leggermente dalla corrente. Si sarebbe detto un autentico cimitero di gamberi.
«Non ho mai visto nulla di simile», ammise il russo: «Che razza di animale acquatico sguscia un gambero prima di mangiarselo?»
«Forse una lontra. Me nessuna lontra ha una fame simile. Dovremmo parlare di colonia, e molto vasta. In queste settimane, ce ne saremmo resi conto della loro presenza.»
«Non capisco. Ma qualcosa ha sgusciato questi gamberi e se li è mangiati.»
Man mano che avanzavano, sembrava che i gusci andassero assottigliando come a formare un sentiero. Alexander Kharitonov girò il batiscafo e seguì quella traccia, navigando a poche decine di centimetri dal fondo.
Il batiscafo procedeva con lentezza, non più di sette, otto metri al minuto. Dopo cinque minuti, il ronzio monotono del motore e la desolata uniformità del paesaggio cominciarono a diventare ipnotici. Thomas Bernardi sentì che gli occhi gli si appannavano.
«Ma cosa stiamo cercando?», chiese.
«Qualcosa. Qualsiasi cosa che possa spiegare quanto abbiamo visto», rispose Kharitonov.
Si erano mossi soltanto pochi secondi ancora, quando Bernardi ebbe la sensazione di scorgere qualcosa di anomalo all’estremità del suo campo visivo.
«Guarda lì. Non sembra avere un aspetto naturale», disse puntando l’indice davanti a sé.
Il pilota girò il batiscafo e una massa di metallo contorto apparve semi sommerso tra i detriti del fondale. Non aveva una forma definita: alcune parti sembravano schiacciate, altre squarciate e contorte.
«Sembrano dei rottami», sentenziò Bernardi.
«Sì, ma che genere di rottami? Che cos’era?»
Kharitonov comunicò per radio la sua posizione alla nave appoggio, poi fece scendere il batiscafo fino ad adagiarlo sul fondo. Per ottenere una maggiore visibilità, accese i riflettori.
La massa di metallo era sparsa su un’area troppo vasta perché i fasci di luce potessero illuminarla tutta; così il pilota concentrò su un punto tutti i diecimila watt e manovrò le luci passo a passo, studiando le forme una per una e cercando di metterle insieme in un tutto omogeneo, proprio come se stesse facendo un puzzle.
«Pare che ci siamo trovati un dannato lavoro straordinario», sospirò ad un certo punto.
«Hai capito di cosa si tratta?»
«Forse sì. Si direbbe un treno.»
All’improvviso, qualcosa andò a sbattere contro l’oblò, alla destra di Bernardi, e rimbalzò via in una nuvola di bollicine. Allarmato, Thomas sobbalzò all’indietro.
«Che diavolo era?», esclamò.
Era stato troppo vicino a lui e troppo veloce per distinguerne i contorni; tutto quello che aveva potuto vedere era stata una macchia scura ondeggiante.
«Forse, si trattava di una foca», ipotizzò Kharitonov.
Poi tutto il batiscafo venne percosso da un fremito. Thomas Bernardi, con gli occhi quasi fuori dalla testa, lanciò un grido di panico.
Il pilota azionò i propulsori, facendo sollevare il batiscafo dal fondo.
«Qualcosa ci sta attaccando la coda. Meglio andarsene», disse incredulo.
A Thomas non venne in mente nessun animale del lago che potesse essere in grado di attaccare il batiscafo. Confidò nella bravura di Kharitonov sperando di levarsi da lì il prima possibile. Quando si girò sul fianco, qualcosa di veloce colpì l’oblò proprio alla sua destra, incrinando il vetro.
«Andiamo via! Andiamo via!», gridò.
Il pilota spinse al massimo i propulsori. Il batiscafo cominciò la sua lenta risalita.
Thomas si guardava attorno, respirando a fatica. Alcune gocce di sudore gli caddero nel collo facendolo sussultare.
Guardò nuovamente a destra, dove l’oblò si era infranto. Oltre la ragnatela sul vetro, intravide un movimento rapido, guizzante. Aguzzò la vista e spalancò la bocca, incredulo su ciò che stava realmente vedendo. Poi una nera mano palmata, con degli artigli ricurvi, urtò con violenza l’oblò. Il vetro cedette e un’ondata si riversò nella capsula.
Thomas Bernardi sentì le urla di terrore di Kharitonov tempestargli le orecchie. Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo prima di venire travolto dall’acqua.