Capitolo due: in cui appare evidente che in tutte le storie c’è il giorno primaNon prendeva mai il carrello, preferiva lo scomodissimo cestino di plastica rosso in cui, in genere, non ci stava mai tutto. Allora rimpiangeva di non aver preso il carrello, ma era tardi. Quella mattina, quando ancora stava posteggiando, s’era ripromesso di comprare quattro sciocchezzuole. Aveva percorso pochi metri e già gli erano venute in mente un sacco di cose indispensabili a cui prima non aveva pensato. Così aveva trovato la soluzione al suo problema afferrando un secondo cesto, e adesso, in attesa al banco del pesce, con tutti e due i contenitori ancora vuoti, uno per braccio, si sentiva scemo. Ma pensandoci bene era una condizione transitoria, quindi poteva piantarla lì di martellarsi i coglioni con quelle idiozie da insicuro cronico, che poi lui non lo era per niente. Teneva d’occhio lo scorrere dei numeri man mano che i clienti venivano serviti ed intanto osservava con uno sguardo che non aveva smesso di essere critico, quel grande banco pieno di ghiaccio cosparso di creature aliene. Lo scorfano, che a detta di Ardelia doveva essere l’apoteosi della delizia nella zuppa, era un mostro ostile e minaccioso, anche da morto. La ‘rana pescatrice’, che poi perché ‘rana’ visto che era un pesce, nella coda ricordava vagamente lo squalo e davanti un pesce gatto del giurassico. Sembrava il giusto soggetto per un quadro di Hyeronimus Bosch. Ma ce n’erano altri, dei quali ignorava i nomi, che somigliavano a tutto fuorché a roba da mangiare. E allora cosa ci stava facendo il vicequestore Bartolomeo Rebaudengo davanti al banco del pesce del supermercato Coop? Ci faceva che gli avevano trovato il colesterolo alto, ecco cosa ci faceva, porca paletta! Perché altrimenti col cavolo che lo avrebbero beccato lì! Si sarebbe limitato a mangiare pesce durante le cene a casa di Ardelia, che certamente lo cucinava meglio di lui, e non avrebbe dovuto incrementarne il consumo. Il problema s’era posto quando il suo medico, sollecitato segretamente dalla perfida dottoressa Spinola, gli aveva detto che un colesterolo totale a 237 non andava mica tanto bene, forse si poteva rimandare ancora di un po’ il trattamento farmacologico, d’altronde quello buono, l’HDL, era a 65, i trigliceridi sotto i cento purché… purché mangiasse pesce almeno quattro volte a settimana e si dimenticasse salumi e formaggi, soprattutto formaggi e ci andasse anche piano con le uova. Una tragedia! Naturalmente niente fumo, raccomandazione che gli aveva ispirato un’espressione virginale: ‘Il fumo è quella cosa che esce dai camini d’inverno?’ e poco alcol, entrambi fattori di rischio di accidente cardiovascolare. Insomma per tenerti sano il cuore con tutti i suoi tubi annessi e connessi, dovevi fare una vita da monaco tibetano.
Dopo estenuanti ragionamenti in cerca di alternative, aveva individuato tre vie: una verso la follia, una verso l’infarto e una da povero cristo. Decise per la terza, che si potrebbe riassumere all’incirca così: niente astinenza e niente lussuria. Che ci sia un effimero incontro con il formaggio, un’esile fetta di bollito, scarsi ravioli, un moderato gotto di vino buono, un’evanescente, quasi invisibile sigarettina da fumarsi in segreto, con lo stesso spirito che si aveva da ragazzi, quando ci si faceva le pippe chiusi in bagno con dei giornaletti prestati da qualche amico più grande e audace; il tutto alternato con pesce azzurro, insalate, stoccafisso un po’ scondito, orrendi tentacoli di polpo lesso, lecitina di soia e omega tre. Sarebbe bastato? Bastato a cosa? Magari a novantadue anni non sarebbe arrivato, ma forse a ottanta sì, che poteva essere considerato un buon successo, non trascurando il fatto che nel frattempo se la sarebbe goduta un po’ di più!
Il casino ora era attenersi a ’sta maledizione del pesce, perché non poteva mica mangiare in continuazione merluzzo bollito! Gli venne in soccorso un nume tutelare di cui egli ignorava l’esistenza, ma che da anni lo accompagnava nella sua vita complicata, e per l’occasione aveva assunto le spoglie di un addetto al banco del pesce. Questa brava persona lo aveva visto smarrito, le prime volte, con il suo numeretto tra le dita e lo sguardo vacuo, incapace di comprendere fino in fondo cosa stessero fissando i suoi occhi piemontesi. Così il nume tutelare gli aveva rivolto poche domande, con cautela, giusto per capire quale fosse il motivo che spingeva un essere riluttante a contemplare del pesce morto. Lo sconosciuto guardava come se lì davanti non ci fossero state vere prelibatezze ma scarafaggi, e nonostante ciò un giorno sì e un giorno no era lì, con il suo numeretto e l’aria afflitta. L’addetto al pesce, che si chiamava Massimo ed era un po’ più giovane del cliente in difficoltà, capì che il signore aveva due problemi: doveva cucinare da solo, era un single, probabilmente di ritorno, come si suol dire, e di sicuro era terrorizzato dalle spine. Di problemi forse ne aveva anche tre, e l’ultimo, non meno grave, era l’accento: con un accento così la sua esperienza ittica non doveva andare oltre la bagna cauda. Insomma, si doveva partire da zero, ma Massimo amava le sfide, gli piacevano le figure strampalate, quelle persone che percorrevano il mondo fuori binario, seguendo itinerari personali. Tale predilezione s’era acuita nel tempo, forse a causa del contatto forzoso imposto dal suo lavoro, con una folla scialba e sciocca. Un giorno l’aveva accolto con aria da cospiratore, come di chi avesse scoperto un grande segreto. Aveva indagato un po’ nei tortuosi percorsi della memoria, perché quel tizio gli aveva dato dall’inizio una persistente sensazione di déjà vu e la certezza gli era arrivata fulminante, come un vaso di gerani piovuto da un terrazzino del terzo piano: era il commissario Rebaudengo, ecco chi era! E certo che aveva quell’accento e non era capace di cucinare il pesce! Era di Cuneo o giù di lì, lo sapevano tutti! Da quel giorno lo elesse a suo cliente preferito e quando non c’era tanto affollamento ed era più facile indovinare chi fosse il prossimo da servire, accelerava o rallentava i gesti nei limiti del buon senso, sperando che il numeretto del commissario capitasse a lui. Quando veniva a mancare la sincronia ed il suo eroe doveva rivolgersi ad un collega, Massimo era convinto di scorgere nel suo sguardo un po’ di smarrimento e forse era vero. Ciò che spingeva il ‘ragazzo’ non era di sicuro il servilismo, perché tra i suoi difetti, che non erano pochi, potevano starci l’orgoglio e il mugugno, ma non l’ipocrisia. Poi era curioso, come un gatto, gli sarebbe piaciuto fargli delle domande, imparare aspetti poco noti del lavoro di poliziotto, ma era consapevole che così, separati da un banco cosparso di pesci morti, probabilmente non sarebbero andati oltre la forma della conoscenza superficiale e della cortesia. E proprio la cortesia e la timidezza gli avevano imposto di far finta d’ignorare l’identità del solitario compratore di merluzzo, poi una mattina gli era scappato un ‘commissario’, mentre lo serviva. Bartolomeo aveva sollevato un sopracciglio, segno di grande stupore, Massimo era arrossito e avevano subito ripreso ad argomentare su come fare il nasello bollito.
Quel giorno, il giorno precedente l’inizio della vicenda, il suo sherpa marino gli stava elargendo consigli sulle varie opportunità di preparazione della fetta di tonno, perché, per il momento, non lo aveva spinto su percorsi troppo infidi, come triglie in guazzetto o seppie ripiene. Nuotavano all’interno di un acquario semplificato, in modo che il risultato finale fosse sì quello di mangiare del pesce, ma avesse ancora l’aspetto e la lavorazione della bistecca.
“Se vuole ci può mettere una manciatina di capperi, sempre che non le dia fastidio l’aspro, altrimenti può scegliere quelli di Pantelleria, che ci sono anche sotto sale, ben risciacquati s’intende. Come erbe ci sta bene un ciuffetto di prezzemolo, tritato fresco alla fine, mentre a cuocere può aromatizzare con uno spicchio d’aglio. L’unico accorgimento è di toglierlo dal fuoco che sia ben cotto ma non troppo asciutto, perché altrimenti diventa stopposo. Un quarto d’ora a esagerare. Tutto chiaro?”, domandò Massimo con due grandi fette appoggiate sulla carta, pronte per essere sbattute sulla bilancia. Bartolomeo osò un azzardo incredibile.
“Come ci starebbe un carciofo tagliato a fette fini che cuocia rapidamente?”.
“Sa che non ci ho mai pensato… In linea di massima direi che non dovrebbe star male, il dolce del carciofo, d’altronde si fanno anche le seppie in umido con i carciofi. L’ha letto da qualche parte?”.
“No, mi è venuto in mente adesso, così, un’ispirazione momentanea”.
“Sì, può essere un’idea interessante… Un accostamento forse un po’ ardito, ma interessante…”, aggiunse Massimo sempre reggendo l’involto ancora aperto, e poi riprese: “Basta così?”.
“No, ci metta ancora una fetta. Voglio invitare una persona…”.
Massimo sorrise comprensivo ma vagamente allarmato all’idea di cos’avrebbe combinato quel cuoco con tonno e carciofi. Chissà se quella sera, a casa, gli sarebbe venuto in mente il commissario con il grembiule, intento a trafficare con spicchi d’aglio e prezzemolo per preparare una cenetta ad una bella signora…
Si salutarono con un garbato cenno del capo e un arrivederci. Prima di servire il cliente successivo, Massimo lo guardò allontanarsi in direzione della verdura a caccia di carciofi. Era sicurissimo che si sarebbe punto.
Aveva riempito i due canestri, si era ricordato tutto e non aveva comprato cazzate come al solito. Il vino lo aveva preso rosso, bisognava sfatare quest’obbligo morale del vino bianco con il pesce… Adesso sarebbe passato da casa, avrebbe posato tutto in frigo e se ne sarebbe andato tranquillamente a lavorare. Con la dottoressa Spinola non c’era un accordo preciso, però era abbastanza scontato che quella sera si sarebbero incontrati, non si vedevano dalla domenica precedente, ed era già giovedì. La mamma di Ardelia stava sempre peggio, anche se non lo sapeva: lei parlava con misteriosi interlocutori invisibili e andava tutto bene fino a quando non arrivavano quelli cattivi, allora litigava, certe volte piangeva, e non c’era verso di tranquillizzarla. I farmaci dovevano essere rivisti molto spesso, mirando meglio dosaggi e combinazioni ed era Ardelia che insegnava alla badante sudamericana quali pastiglie, di che colore, a che ora e poi le gocce. Nei giorni successivi alla revisione farmacologica, la povera donna ricordava una vecchia auto dopo la visita dal meccanico: recuperava un poco d’equilibrio, aumentavano i momenti di lucidità e sembrava quasi che ci fosse un po’ di speranza. Poi, pian pianino, la strada riprendeva pendenza e la velocità verso il delirio aumentava.
Ardelia era spesso taciturna, di sua madre parlava poco e, comprensibilmente il suo senso dell’umorismo aveva lasciato il posto ad un sarcasmo non sempre divertente. Bartolomeo cercava di starle vicino a modo suo e il suo modo era soprattutto silenzioso, fatto di piccoli gesti e poche parole, perché proprio non era abituato a farsi notare.
Nella sua vita più di una donna si era presa cura di lui, a cominciare dalla madre, cura materiale beninteso, quella fatta di preparazione dei pasti, pulizia e gestione del vestiario. Ma c’era un altro modo di prendersi cura di qualcuno, almeno secondo lui ed era: fare qualcosa fuori dell’ordinario, qualcosa di complicato o anche semplice, ma di diverso dai ruoli e riti quotidiani dietro ai quali ognuno di noi si protegge e qualche volta si barrica. Rompere le regole della banalità e lanciarsi in un gesto superfluo e per questo meraviglioso! Bene, proprio non riusciva a ricordare chi avesse fatto questo per lui negli ultimi quarantotto, quasi quarantanove anni della sua storia personale. Ciononostante aveva deciso di ribaltare le parti e provarci lui, senz’aspettarsi troppo in cambio. Cucinare il pesce, rischiando moltissimo, data la sua scarsa capacità, era un modo di ‘prendersi cura’ ardito e forse superfluo, tenendo conto del fatto che la sua morosa avrebbe anche potuto, a causa dei suoi guai, non accorgersi del suo slancio. Ma questo genere di cose non va fatto mirando ad un premio garantito, altrimenti buonanotte alla generosità.
Tale era il tenore dei suoi pensieri mentre, in tutta tranquillità stava guidando verso Alassio, verso una giornata di lavoro che, al momento, non si presentava densa di inquietudini. Sì, c’erano due o tre faccende a mezzo che prima o poi loro sbirri avrebbero dovuto chiudere con un bel colpo di ramazza, ma non avevano ancora raggiunto la condizione dell’urgenza. Il mare era una lastra di piombo talmente piatta da sembrar molata, semplicemente non c’erano onde e guardando la battigia laggiù si vedevano delle brevi mezzelune bianche di schiuma che scomparivano in fretta, senza creare movimento. L’isola Gallinara, deserta, appariva nera contro il fondale del cielo nuvoloso, appena poco più chiaro all’orizzonte, a testimoniare il fatto che, lontanissimo, verso sud est, forse il sole esisteva ancora. L’isola stava lì, immobile come un orso bruno smarritosi nel mare, con la sua pelliccia di macchia mediterranea aggrovigliata dal vento e bruciata dal sale. Il parabrezza si coprì all’improvviso di goccioline d’acqua. Le montagne non si vedevano, incappucciate di grigio: era nebbia che scendeva. Quel tempo gli faceva venire sonno e l’idea di un pomeriggio in ufficio tra le scartoffie gli sembrava un peso insostenibile. Ma tant’è, così stavano le cose e a lavorare ci doveva pur andare.