Posteggiò la sua Fiat e s’incamminò verso l’ingresso del commissariato. ‘Però’, pensò stringendosi il colletto della giacca a vento intorno al collo, ‘per essere Liguria, che ci son le palme come a Tripoli, fa fin freddo, o bastalà’.
La giornata, in una maniera o nell’altra, tra firme e telefonate non sempre indispensabili, dalle quali non dipendeva comunque la salvezza del genere umano, passò. Una delle ultime cose che gli capitò di osservare, fu il ‘calendario’, lui lo chiamava così, dei pm nelle settimane successive e con piacere scoprì che c’era di turno il buon Ugo Bottini, un valtellinese orso benevolo. Bartolomeo era l’unico che riusciva a chiacchierare con lui, evento raro, la cui origine andava ricercata nella loro comune natura di uomini d’alta valle. L’ultimo pensiero che ebbe, prima di spegnere la luce sulla scrivania, fu umoristicamente noir: ‘Se ha da crepare qualcuno o succedere un casino grosso, o santo protettore dei commissari, se esisti, fa che succeda prima che finisca il turno di Bottini’. Mai una speranza fu premiata così pesantemente.
La cena con Ardelia fu preceduta da una mezz’ora, anche tre quarti d’ora, ad altissima tensione, altro che Fox Crime! Il thriller scaturiva dalla preparazione del pasto. Tolse la pelle intorno alle fettine di tonno per evitare che si arricciassero, tritò un minuscolo scalogno, ci stava bene? Boh, magari uno chef sarebbe inorridito, ma secondo lui sì, ci stava bene, si preparò un mezzo bicchiere di pigato, l’aglio meglio lasciarlo intero, tutt’al più schiacciato, il prezzemolo lo avrebbe messo fresco alla fine. Pulì, lavò e tagliò finemente i tre carciofi pungendosi parecchie volte, e sistemò tutti gli ingredienti come soldatini schierati, in modo da avere una visione strategica dei passaggi che avrebbe dovuto affrontare, proprio come in una trasmissione televisiva di cucina. Alla fine di un’operazione complessa come quella di girare le fettine senza romperle, si sentì potente e strinse il pugno in segno di vittoria, come un grande tennista a Wimbledon. Questo rito fu interrotto dallo squillo del telefono: era sua madre Ernestina, che chiamava per informarlo che a Ceva era venuto giù quasi mezzo metro di neve, ma adesso era salita la temperatura e ci stava piovendo sopra. La vecchia si augurava che il termometro non precipitasse nuovamente, perché al mattino si sarebbero ritrovati con una lastra di vetro e tante gambe rotte. Bartolomeo la ascoltò con pazienza e quando lei gli pose la domanda fatidica “Cosa mangi di buono stasera?”, lui rispose laconico “Tonno”.
“Ma come, tonno? una scatoletta di tonno, così, fredda e basta?”.
“No, mamma, il tonno è un pesce a forma di pesce che sta in mare e prima di finire pressato in una scatoletta di latta, viene bollito e messo sott’olio. Se tu lo compri quando è ancora a forma di pesce, cioè morto, crudo, sul banco della pescheria, lo puoi fare in tanti modi”.
“…”.
“Non ci credi?”.
“Mah, non so, non l’ho mai né visto né mangiato!”.
“Ti assicuro, è buono!”, rispose Bartolomeo con calore, reggendo il cordless con la spalla, intanto che stava lasciando consumare un po’ il brodetto che si era formato dall’acqua di vegetazione dei carciofi. L’odore nell’aria era appetitoso, anche se sapeva indiscutibilmente di pesciume, come diceva Ardelia, la quale dava alla parola una valenza molto positiva.
“Adesso mamma, se non ti dispiace, sarei un po’ nei casini, magari ci sentiamo domani…”.
“Dimmi solo: con la dottoressa tutto bene?”.
“Sì mamma, stai tranquilla, tutto a posto”.
“Allora me ne vado di là in poltrona a guardare NCIS, che mi piace tanto quell’uomo…, sì, come si chiama, Ghibb, Getro Ghibb, anche se non so come lo scrivono… Sai io ho già cenato, da vecchi si cena presto…”. Sua madre guardava NCIS!? Decise di non interrogarla in merito, aveva fretta e non era preparato ad ascoltare la risposta.
“Ma’, un bacio, a domani”.
“E senti, un’ultima cosa, il lavoro tutto bene?”.
“Sì, è un periodo tranquillo, non sta succedendo niente”.
“Meno male. Buonanotte!”.
“Buonanotte”, ed in quel momento suonarono alla porta. Era Ardelia che si era dimenticata le chiavi di casa nell’altra borsa.
Furono abbracci e feste, si annusarono e si strinsero con un calore improvviso che da un po’ di tempo mancava. Rebaudengo era contento di quello stato di grazia, per quella sera si sarebbe ben guardato dal domandare ‘come sta tua madre?’, argomento che avrebbe fatto precipitare il tono dell’umore di tutti e due.
Il buon commissario, come amava etichettarsi, piuttosto che vicequestore aggiunto, poco letterario, non ricordava una sera così tranquilla e serena da parecchio tempo e voleva gustarsi quello stato di grazia. Ardelia si commosse così tanto per quel suo sforzo gastronomico immane – aveva creduto che lui avesse comprato due pizze – che le scappò perfino una lacrimetta. Bartolomeo decise che non era stata fatica o ansia sprecata: dall’altra parte il gesto era stato interpretato nel verso giusto e la cosa fece bene a tutti e due, nel corpo e nello spirito.
Quando, alle sette e venti del mattino successivo il cellulare di Rebaudengo suonò diffondendo nell’aria un perentorio squillo da telefono di bachelite nera stile anni quaranta, lui odiava le musichette dementi che andavano tanto di moda, ricordò subito che Ardelia dormiva al suo fianco e si affannò a spegnerlo per non disturbarla, anche se ormai era ora di alzarsi. Ma Ardelia non dormiva al suo fianco, era già in cucina a preparare orzo e cereali; s’era portata la scorta nella cucina di Bartolomeo, perché lei trovava buone le brodaglie salutiste con dentro i vegetali essiccati, che galleggiavano come pezzetti di sughero e avevano lo stesso sapore. Gli urlò: “Telefonoooo, ti g’hai u telefonin c’u sona!!! Vegne a rispundeee!”, imitando la suoneria patriottica che aveva nel suo.
Era la Negri e la Negri che chiamava sul cellulare alle sette e venti di mattino era un brutto segno. Di colpo si ricordò l’augurio del giorno prima: ‘Se ha da crepare qualcuno...” e si pentì di averlo pensato.
Era crepato qualcuno.
“Ma come è andata?”.
“Ma, guarda, mezz’ora fa mi ha telefonato mia madre che, santa donna, ha ottant’anni ma è vispa come un furetto, il Signore me la conservi, spiegandomi che è morta una sua vicina che era anche la sua padrona di casa, nel centro storico di Albenga”.
“Come è morta? Tua madre l’ha vista?”.
“Sì, l’ha vista, l’ha vista. Be’, cosa vuoi, mia madre, povera donna, dice che secondo lei è morta nel sonno… Però…”.
“Però, che cosa?”.
“Però stava con la badante, una straniera, sai, mia madre è sospettosa, non per altro è mia madre”.
“E che cos’ha che non va la badante?”.
“Non lo so, probabilmente niente, a parte il fatto di essere straniera e per di più dell’est. Sai mia madre ha sempre considerato un azzardo aver sposato mio padre, lei di Leca e lui di Pieve di Teco, un’altra provincia perfino! Non ti dico i sospetti verso mio marito che è di Lerici!”.
“Ho capito. Ma a parte questo, ce l’ha con la badante per qualcosa di preciso? La vecchia si era lamentata?”.
“Non che io sappia… Va be’, ma stiamo perdendo tempo a far discorsi inutili: ti vengo a prendere tra dieci minuti, fai pipì e lavati i denti. Ah, senti ancora una cosa, io direi che per adesso non sia il caso di rompere le palle alla tua fidanzata, poi vedremo un po’ come stanno le cose quando saremo arrivati là, giusto?”.
“Giusto. Io comunque un colpetto di telefono a Ugo glielo do, è di turno lui in questi giorni. Senti, vedi di recuperarmi in fretta il medico curante della signora, perché voglio trovarlo lì e sentire un po’ come stavano le cose. Non volermene, ma magari tua madre legge un po’ troppi gialli e la povera vecchietta è morta nella notte perché aveva qualche malattia che rende tutto spiegabile, solo che noi non lo sappiamo ancora. ti pare?”.
“Guarda Rebaudengo che basta leggere il giornale per diventare fantasiosi, non c’è bisogno di comprarsi dei gialli. Comunque sì, m’incarico di reperire al più presto il suo medico curante, in modo che le dia un’occhiata e che ci possa dare tutte le spiegazioni necessarie”.
“Va bin, ti aspetto tra dieci minuti”.
“Fa’ un quarto d’ora”.
“Ok”.
Chiuse la comunicazione e prese aria per chiamare la morosa in cucina, ma rimase così, con i polmoni ventilati perché lei era sulla soglia della camera, in vestaglia, appoggiata allo stipite e stava bevendo il suo orzo solubile, quelle robe da bambini e malati di cuore.
“Non vorrei sembrarti esagerata, ma mi raccomando, se anche hai solo un minimo dubbio, o il medico ti sembra un belinone, ricordati che io non mi faccio nessun problema a darle un’occhiata, anche dopo… Certo, in situ sarebbe meglio, ma non possiamo neanche metterci a fare CSI e farci ridere dietro, magari la poverina era ipertesa, o aveva una cardiopatia, il diabete, o semplicemente era vecchia ed era arrivata al capolinea. Vado a prepararti un caffè e ti faccio scaldare una merendina nel microonde, me le sono portate da casa perché qui ci sono solo cose nocive”.
“Oh, brava, grazie! Una di quelle merende sanissime, senza uova, senza burro, senza farina e senza zucchero, che sanno di gesso?”.
Lei lo guardò malissimo e sentenziò: “Ce l’hanno la farina, è di kamut, il condimento è olio di girasole e dentro c’è la marmellata di albicocche!”.
“Va bene grazie, allora fammene scaldare una... Non vedo l’ora”, aggiunse in un borbottio, sognando un lenzuolo di focaccia del bar, quella unta e bisunta. I Liguri hanno tanti, tantissimi difetti, ma la focaccia, ah la focaccia se ne sbatte di tanti dolci piemontesi, bisogna essere onesti e la verità va riconosciuta.
Il centro storico di Albenga ha una vita propria, che non c’entra niente con tutto quel che di moderno lo circonda. Non importa che dentro ci siano botteghe d’artigianato, banchetti di verdura e frutta colorate o ristorantini per turisti, quello che prende al cuore è il senso del tempo, un Tempo lento, profondo che tiene insieme la pietra, che respira tra gli archi, che impone rispetto. Se ti fermi e ti guardi intorno, le boutique e i ristorantini non li vedi più. vedi lo scorrere delle stagioni, degli anni e gli anni diventano secoli, generazioni sfilano e scompaiono, senza volto, ma con la loro storia impressa proprio lì, nella pietra, negli archi, nel silenzio umido e freddo di cantine millenarie, nei carruggi che sanno di gatto. Qualcuno ha voluto conservare un piccolo pezzo di passato e non ha eliminato quei vecchi anelli di ferro che stavano accanto alle porte, ai quali si legavano asini, muli e cavalli quando si doveva entrare in una casa o in una bottega. Su una parete, a metà tra due finestre quadrate, magari anche graziose con i loro gerani, appare una bifora o una trifora, con le colonnine lavorate a spirale. Ci sono porte di case sovrastate da archi a sesto acuto, qualche volta si vede ancora un’incisione rosicchiata dalle intemperie sull’ardesia sbiadita, e una fila di lettere in un latino di confine racconta qualcosa: una storia che nessuno ricorda, anzi, che nessuno sa, tanto meno chi ci abita ora, spesso straniero, ma il segno resta, silenzioso e pieno di malia.
‘Albenga vecchia’ conserva la pianta romana, con un decumano ed un cardo che s’incrociano proprio nel cuore del suo intrico di vicoli, come vene sottili. La vita economica del cardo, che oggi porta il nome di via Medaglie d’Oro, pulsa nel suo braccio rivolto a nord est, verso la Porta molino. Altra aria si respira dalla parte opposta, verso il fiume Centa, un’aria sonnacchiosa e pigra, anche più rari sono i passanti.
In quella periferia lenta sorgeva il palazzo d’Ildebranda Matilde Peluffo, un edificio signorile di seicento anni o giù di lì, senza botteghe, solo una facciata color polvere. L’accesso era dato da un portone di legno alto e massiccio, con un’ampia finestra a lato, provvista d’inferriate cinquecentesche, che lasciava intravedere un androne male illuminato e uno scalone consunto dai passi. La stravagante nobildonna aveva abitato all’ultimo piano e forse dalle sue finestre aveva goduto di un panorama poco diverso da quello che si poteva contemplare dalla terrazza di Ardelia. Se quella notte Bartolomeo avesse dormito dalla sua fidanzata, avrebbe impiegato circa tre minuti per raggiungere palazzo Peluffo, così invece dovettero sedersi sulla scomoda auto di servizio guidata dall’ispettore Simonetta Negri. Dal mare avanzava una nuvolaglia livida, mentre a occidente le Alpi Marittime morbide di neve, si stagliavano sulla seta azzurra di un cielo gelido. La Negri posteggiò in zona carico scarico merci sul Lungo Centa dopo aver messo il contrassegno della polizia, con il forte presentimento che qualche ausiliario del traffico o vigilino di fresca nomina, ci avrebbe piazzato lo stesso una bella multa. Il furgone che avrebbe dovuto caricare il corpo sarebbe arrivato solo più tardi. Mentre la Negri e Bartolomeo si davano da fare a sbirciare i nomi sul citofono, sopraggiunse Martelli, l’ispettore della scientifica, così, per sicurezza, con la sua valigetta piena di carabattole tecnologiche. Il citofono era un piccolo rettangolo, come una copertina di quaderno, di ottone brunito da sole e pioggia. Per ultimo, dopo i cognomi degli inquilini scritti un po’ a brettiu, eccolo, in un corsivo elegante: ‘Ildebranda Peluffo’: prima il nome e poi il cognome. Era una di quelle minuzie trascurate da tanti, che fece provare a Bartolomeo un quieto apprezzamento verso la defunta. Quante volte taceva il proprio fastidio, soprattutto con i suoi uomini, per l’uso inverso di cognome e nome. La colpa o il merito di questa sua mania, erano stati del suo professore di latino e greco che, al di fuori degli elenchi sui registri, era severissimo sull’ordine con cui andava apposta la propria firma, accusando di barbarie tutti quelli che lo sbagliavano.
Sentiva la mancanza di Ardelia e del suo ‘cazzeggio preventivo’. Così aveva definito il particolare stato d’animo che s’impadroniva di lei prima della visita su una scena del crimine. Certo, dopo anni di lavoro un medico legale, un anatomopatologo o anche un povero becchino, sono capaci di sopportare odori e visioni che stenderebbero un campione medio di popolazione… Eppure alla morte non si fa mai l’abitudine, perché l’abitudine si accompagna alla perdita della pietà, non soltanto verso il morto, ma anche verso se stessi. Se da un lato è indispensabile proteggere il proprio equilibrio mentale ed emotivo, insomma è inutile seppellirsi con il defunto, dall’altro è inevitabile provare inquietudine ogni volta che si spinge una porta o si cammina in un bosco dove si sa che s’incontrerà la morte nei suoi aspetti più crudi e spaventosi. Allora cosa si fa? Si cazzeggia, si privilegia il lato grottesco e comico del proprio lavoro, con lo scopo d’ingannare l’attesa di quel che si vedrà. Ardelia in quei casi appariva euforica come una ragazzina prima di un esame. Poi basta, sulla scena del crimine o dell’incidente, diventava calma, ritornava adulta, l’inquietudine le passava, sapeva cosa doveva fare e lo faceva. Aveva confidato a Bartolomeo che da tanto tempo non aveva più incubi, segno che i suoi meccanismi di difesa funzionavano bene, ma per qualche anno, nell’attimo di spegnere la luce sul comodino, s’erano accesi davanti ai suoi occhi gli orrori della giornata.
Chissà perché si era risvegliato in lui il ricordo di quei racconti, non tanto diversi dalle sue esperienze: lei non c’era, non solo, ma non c’era nessun delitto. Quella era, con tutta probabilità, una morte naturale, e tutto si sarebbe risolto con un bel funerale e una piccola folla di parenti contenti o delusi dal testamento della vecchina, la quale comunque era morta sola o, al massimo, in compagnia di una donna estranea che non poteva certo averla amata.
“Andate e fate quel che dovete, poi telefonatemi a seconda di quello che trovate”, questo era quello che aveva detto a Rebaudengo Ugo Bottini, il magistrato.