23 dicembre

613 Parole
23 dicembre Barbara Quando si pensa alla Romagna viene in mente gente simpatica che balla il liscio, ragazze ben disposte con la esse appesantita e vitelloni abbronzati sulla spiaggia riminese. Ma ci sono anche inverni che non finiscono mai, e nebbie spesse da non vederci. Le previsioni dicono brutto anche per domani. E questa è la prima cattiva notizia. Dalla finestra del primo piano vedo il postino in bicicletta fermarsi davanti al portone giù da basso. Scendo, sorrido, ritiro. La posta: biglietto di mamma, Auguri Barbara. La posta: offerta del discount, pandori tre per due. La posta: rivista nel cellophane, Vanity Fair. La posta: busta bianca, nessun mittente. Dentro la busta c’è una lettera. E questa è la seconda cattiva notizia. Perché d’un tratto mi accorgo di non sapere più leggere. Giorgia Leggere parole così non mi era mai capitato. Neanche sentirle dire mi era capitato. Parole come queste non credevo si potessero neppure pensare. Voglio dire, non possono venire da una persona normale, ci mancherebbe. Neanche da una persona malata, per forza. Parole così vanno ben oltre, sicuro, e comunque. Comunque sono arrivate discrete, queste parole, come amano arrivano discrete le parole importanti: scivolano sulla carta, sotto la porta, fra le dita. Si rassegnano anche a farsi buttare via, il più delle volte. Queste, come le altre, hanno preso la strada abituale: si sono presentate in una busta sormontata da un francobollo e facendo finta di niente si sono fatte pescare dal baratro della buchetta. Impazienti di farsi leggere. Curiose di attirare curiosità. La mia. Perché sopra la busta c’è scritto Giorgia. Sotto Giorgia, il mio indirizzo di Milano Marittima. Voglio dire, io di parole strane ne ho sentite tante. Tutte, credevo. Ma queste, messe così assieme una di fila all’altra, non somigliano affatto alle frasi che mi recitano ogni giorno, quelle che si danno arie di indecenza ma che poi alle mie orecchie suonano come pensierini piuttosto elementari. Gli uomini credono che le loro personalissime voglie siano le più stravaganti, quando c’è tutto un mondo di stravaganze che invece è così banale ormai. Credono che le loro richieste siano le più sconce che si siano mai udite sulla faccia di questa merda. Eppure tutte quelle richieste io le ho già esaudite centinaia di volte. Per questo, di solito, le parole mi scorrono addosso senza lasciare traccia, come acqua che gocciola da un rubinetto guasto illudendosi di scalfire la roccia mentre invece finisce giù nello scarico. E io lascio scorrere, visto che scorrere è il destino di tutto. Di tutto tranne di queste parole. Che mi si sono piantate dentro. Perché di parole così non ne ho mai lette e neppure sentite. Anche se per ognuna di loro c’è un posto comodo nel dizionario. Anche se la grammatica è quella che non disturba. Voglio dire, ciò che è scritto qui, se non fosse scritto qui, non esisterebbe proprio. È fuori da ogni immaginazione. Nessuna persona normale avrebbe potuto scriverle, queste parole. Nemmeno una persona anormale. Chi le ha pensate ha una mente diversa: non sana, non malata, semplicemente altra, e comunque. Comunque per la prima volta ho scoperto cos’è una Prima Volta: una ferita mai subìta. E questa lettera, messa così, è una Prima Volta: un dolore inedito, una lama fresca di forgia collaudata nelle mie budella. C’è il mio nome, c’è il mio indirizzo, non c’è la firma. Mi conosce, sa dove abito, è in agguato. Devo bruciarla questa lettera, devo scordarle queste parole, devo chiamarlo subito Ermes. Ma ho paura, ho freddo, ho caldo. Sudo, gelo, m’annebbio. Vomito, m’accascio. Svengo. Didi «Vengo da te, subito.» «Chi parla?» «Sono io.» «Io chi?» «Didi.» «Che vuoi?» «È arrivata una lettera.» «Allora?» «Ho paura.» «Minacce?» «Di più.» «Che vuol dire di più?» «È cattiva.» «Non frignare. Sarà niente.» «Vengo da te, ti prego.» «È solo una lettera.» «Se leggi poi capisci.» «Buttala e non pensarci.» «Tu sei quello che protegge, Ermes.» «Tu sei quella che se n’è andata.» «Ti prego.» «Se volevi il culo parato, restavi.» «Ti prego!» «Ti arrangi.» «Ho bisogno!» «Non di me.» «Per favore.» «...» «Ermes, Ermes.» «...» «Ermes!»
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