24 dicembre-1

2053 Parole
24 dicembre Barbara La cugina del defunto ha un completo uguale al mio, la puttana. Giacca sahariana e pantaloni in taffettà color notte, cappotto al ginocchio in due tonalità di righe blu scuro sottili come i capelli di un’asiatica. Segue la moda, la puttana: quello che abbiamo addosso entrambe è un nuovo modello di Balenciaga, dall’ultima collezione autunno-inverno, appena finito di cucire. Costa più di uno stipendio, il completo, ma è ovvio che anche nelle ricche famiglie si muore, così come è evidente che le ricche cugine possono permettersi le novità più preziose, belle da morire, da sfoggiare ai funerali. Intanto, la pesante bara in legno massiccio viene spinta nella barocca cappella di famiglia, mentre il fregio di una madonna dagli occhi compassionevoli contempla rassegnato la lastra di marmo, scolpita di nome e date, confinare nella nicchia la cassa mortuaria. Per sempre, potrebbe credere qualcuno. Ma alla scadenza della concessione comunale i tranquilli inquilini saranno sfrattati da lì e i loro resti andranno a mescolare la terra. A questo la gente non pensa. Non pensa che anche la morte è una cerimonia provvisoria, tutt’altro che eterna. Ciò a cui non si può fare a meno di pensare, invece, è cercare di onorarle al meglio, le cerimonie, dimostrando il massimo attaccamento al caro estinto, chissà quante volte in vita trattato con distacco. E io sono qui per questo. Io e la puttana. La puttana con il completo Balenciaga, le scarpe Jimmy Choo, l’aria di chi ce l’ha solo lei, la grana per conciarsi da diva. Con la borsetta, però, proprio non ci siamo. Quella pelle color camoscio abbinata a quel vestito è una pugnalata a tradimento che a confronto le ventitré stilettate a Giulio Cesare sembrano teneri buffetti. Molto meglio considerare invece la mia coffret nera di coccodrillo: due stipendi interi se foste degli impiegati. Solo che io non sono una dipendente. Non dipendo da nessuno. Non più, ormai. «Condoglianze» dico alla cugina. Ma non mi dolgo per il defunto, bensì per il suo gusto in fatto di borsette che con ogni probabilità è nato già morto. A stonare, in questo luttuoso quadretto, sono anche le corone di fiori fuori stagione che qualche parente ha commissionato, macchie sgargianti che non si sposano in alcun modo all’abito grigio della nebbia indossato dal panorama intorno. È un mantello opaco, questa nebbia, che sta bene su tutto ciò che non vuol essere chiassoso: sui filari di viti della campagna come sulla fila di lapidi di questo cortile. È una nebbia bassa, morbida, calda. È una nebbia protettiva, in fin dei conti: non ci fa vedere i pericoli in arrivo e quindi non ci fa preoccupare anzitempo. Forse è questa la filosofia della Romagna: mangia e campa finché puoi, ignorando ogni patema. Goditela, coglione. Quando i necrofori sigillano la lastra di marmo alla parete interna della cappella, per me è come il segnale di partenza. Capisco che è proprio tutto finito, che quel corpo sigillato corrispondente a quel nome scolpito non può più ripensarci o dire a tutti che era solo uno scherzo, per poi andarsene sulle sue gambe come se niente fosse. È in questo preciso istante che entro in azione io. Per rimediare agli affanni di chi ha il capo chino indeciso sul da farsi, di chi accenna una preghiera che non ricorda, di chi se la ricorda ma gli manca il fiato. Bisognerebbe essere più preparati per le cerimonie: ci si arriva sempre da ultimi della classe. Per fortuna che ci sono io, allora, la volontaria che si offre in sacrificio per salvare la faccia a tutti quanti. Ecco perché quando i necrofori finiscono il loro lavoro, scoppio in un pianto da antologia, sfogliando il mio classico repertorio di lamenti strozzati, singhiozzi sincopati, risucchi nasali raschiati, mascara che si squaglia e cola giù rigando il viso neanche fossi il cantante dei Kiss. Io piango, piango che è una bellezza. E sono tutti sollevati dal mio piangere così esibito, perché qualcuno doveva pur farlo, versare questo tributo di lacrime. Qualcuno doveva pur liberarsi di questo magone, di questo tappo incastrato nella bocca dello stomaco. Qualcuno doveva pur aprire le danze. Ecco, io piango. E gli altri stanno meglio. Se ci si pensa bene, tutto ciò è molto chic. Perché c’è chi, come una damigella del dolore, si accoda a me felice di avere un modello da seguire, reggendo il mio strascico di disperazione come un’ambizione. Poi c’è chi, testimone di questo lutto, indossa con orgoglio i paramenti del consolatore, elargendo atti di fede, pacche sulle spalle e abbracci troppo stretti. E c’è anche chi, il solito invidioso, non se lo aspettava davvero tutto questo dramma, perché in fondo il morto, da vivo, era proprio un gran pezzo di merda che non meritava per niente un addio così accorato. Ma io sono una professionista: stinco di santo o testa di cazzo io piango, bello o brutto io piango, onesto o disonesto io piango. Ricco, io piango. Ricco, certo: i poveri non si possono mica permettere questi servizi accessori, questa moderna prefica che fa di un misero teatrino un apprezzabile show. Così tutto fila secondo previsione. Come d’abitudine. Con la gente a ribollire in goccioloni grossi come palle da bowling. Ciò che non ho previsto, però, è il completo Balenciaga della cugina del defunto, la puttana, modello identico a quello che ho addosso ora. Come pure il suo taglio di capelli, molto simile al mio. Cercate di capirmi, non è affatto una sciocchezza. Il problema è che da dietro potrebbero confonderci. Non voglio certo che il mio pubblico scambi il sedere taglia 42 della sottoscritta con quello tendente alla 46 della cugina. La puttana dal culo grosso. Ad ogni modo, non so se è per via di questo dispetto del caso, o del ciclo in arrivo, o di quell’assurda lettera ricevuta ieri, ma oggi il mio pianto sprizza splendore. Probabilmente qualcuno dei presenti, grazie al mio egregio lavoro, si starà perfino persuadendo che il defunto sia stato veramente un individuo degno di essere rimpianto, portatore sano di qualità uniche e nascoste, pregevoli e discrete, che in pochi hanno saputo apprezzare. Accipicchia che uomo schivo e incompreso, penseranno. Sotto sotto custodiva qualcosa di speciale, crederanno. Ci mancherà molto, si convinceranno. Grazie a me il caro estinto non si estinguerà nei loro ricordi. Le cerimonie, d’altronde, sono fatte apposta per la memoria. Battesimo, cresima, matrimonio ed estrema unzione sono le scene madri per ritagliarsi un ruolo da protagonista. Per questo mi trovo qui tra la nebbia padana e la cenere che eravamo e che ritorneremo. Per questo mi pagano per piangere: per trasformare improbabili interpreti in personaggi verosimili. Infatti: la vedova ora sembra davvero inconsolabile, la figlia ora sembra davvero orfana, il conoscente ora sembra un vero amico. La cugina, invece, è sempre una puttana culona. Nel ritratto di famiglia c’è però un intruso. È un tizio con la barba sfatta e una zazzera biondo cenere, come ciò che eravamo e ciò che ritorneremo, guarda caso. Appoggiato al tronco di un cipresso, scrive svogliato su un taccuino. È chiaro che lui non c’entra niente qui dentro: non è inconsolabile, non è un orfano e tanto meno un amico. Dopo aver dato un’occhiata attorno, l’intruso si stacca dal cipresso e mi viene incontro. Si avvicina. Andarmene non posso, mi tocca affrontarlo. Quando è a un passo da me mi strizza l’occhio e chiede se voglio rilasciare un’intervista. Gli rispondo con un singhiozzo affogato, la faccia nascosta nelle mani inguantate. «Barbara, per favore, dimmi qualcosa» mi fa. «Oggi è proprio un mortorio.» Camuffo la risata in un singulto scomposto, sbruffando l’intruso di moccio e lacrime. «Entrando ho visto una Porsche parcheggiata qua fuori» continua lui. «Non avrai mica fatto i soldi con tutte ’ste sceneggiate?» «Sarà di qualcuno con l’uccello piccolo» gemo a bassa voce. «Perché?» «Se ce l’hai grosso a cosa ti serve una Porsche?» L’intruso muove la penna sul taccuino come se appuntasse la mia dichiarazione, ma è tutta una finzione, non scrive nulla. Maledetto scribacchino. Se ci fosse un fotografo, almeno, potrebbe immortalarmi nel mio Balenciaga nuovo. Nelle mie scarpe Ferragamo. Nella mia coffret in pelle di coccodrillo. Invece l’intruso indica una goccia del mio pianto che sta rigando la borsetta. E dice: «Non saranno mica lacrime di coccodrillo, quelle?» Michele «Non saranno mica lacrime di coccodrillo, quelle?» Vigilia di Natale. Anche le notizie sono in ferie. Barbara si tappa la bocca per non sghignazzare, ma io non mi diverto per niente. Le angosce fasulle di questa simulatrice dai capelli rosso shock non mi resuscitano il morale. Piuttosto, dovrei raccattare una brutta notizia prima che il giornale chiuda. Non posso sopportare un’altra settimana senza una prima pagina. La bacheca mi piange. Sì, la mia bella bacheca con appesi sopra i miei articoli migliori, che però stanno ingiallendo, intristendosi su cartaccia che ha ormai perso la freschezza di stampa. Per ravvivare la collezione non è certo sufficiente uno squallido trafiletto sul funerale dell’ex senatore Augusto Brini, già ampiamente dimenticato sia dai suoi vecchi elettori, sia dagli odierni lettori. Il pezzo finirà in taglio basso nella cronaca locale. E il mio nome ancora più giù. Frega niente. Frega solo di ingoiarmi un Roipnol per non pensarci. Così torno alla mia Punto blu parcheggiata di fianco alla Porsche, mi ci chiudo dentro e recupero le compresse dal vano portaoggetti. Ne butto giù una assieme a un sorso d’acqua della bottiglietta di plastica, e dopo pochi minuti la testa mi cade. Mi abbiocco di brutto. Ed è subito sera. Quando mi riprendo, il buio è già sceso dal cielo e il freddo è già salito dalla terra. La Porsche è sparita. Non c’è più nessuno davanti al cimitero. Allora metto in moto e vado via. La linea di mezzeria mi guida nella nebbia lungo le strade provinciali, sulle gobbe dei cavalcavia, attraverso i grumi di case dei paesi di campagna. L’arancione di un semaforo, laggiù in fondo, mi segnala che sono quasi arrivato in città. È un arancione pigro, che lampeggia senza impegno nel baricentro del traffico di rientro. Non sta a dir niente così svogliato, fa solo confusione. Ma di brutti incidenti ne capitano sempre meno da queste parti. Al massimo stupidi tamponamenti da distrazione da cellulare, bazzecole di carrozzerie ammaccate e fanali infranti, sublimate da catartici vaffanculo. Colpa di tutte queste dannate rotonde che frenano gli idioti. E tolgono il lavoro ai giornalisti. Frega niente. Scende più buio e sale più freddo. Lampeggia stanco l’arancio del semaforo in sciopero. Una volta superato, entro anch’io nel traffico nervoso delle sei e mezza, confondendomi alla fretta di chi torna a casa per i quiz preserali, i tiggì, i reality. Mi infilo nella circonvallazione sud che diventa presto circonvallazione ovest, che diventa poi un’inevitabile rotonda. Cinquanta metri dopo ce n’è già un’altra. Proseguo a destra in direzione dell’Ipercoop, dove il flusso delle auto rallenta a causa delle esigenze alimentari postlavorative dei miei concittadini, che a quest’ora si imbottigliano all’ingresso del parcheggio del supermercato. Smaltito l’intralcio, filo dritto fino alla stazione dei Carabinieri, quindi accelero per raggiungere l’ennesima rotatoria. Mi faccio due girotondi completi e torno indietro. Non mi arrendo, non rientro. Così continuo a pattugliare le strade fino alle otto di sera, quando le adunate della cena le svuotano completamente, mentre io resto fuori a braccare la mia notizia natalizia. Guardo sul sedile del passeggero il laptop che dorme, il telefono che tace. Non chiedo altro che scrivere le mie venti righe, chiamare in redazione e dire di aspettare ancora cinque minuti. Cinque minuti per sfornare la notizia calda che scioglie l’inverno. Servirla in tavola e farvela assaggiare. Cinque minuti per farmi amare. Perché io vi do la cattiva notizia e voi un po’ mi amate. Perché amate leggere le cose brutte che capitano agli altri. Frugare nei loro escrementi per sentirvi più puliti. Vi piace da matti la cronaca nera. Parlarne al lavoro nella pausa caffè. La mia passione sono gli omicidi. Anche la vostra, lo so. In questo siamo complici. Voi davanti alla pagina e io dietro. A ciascuno il suo. Quest’anno sono stati ventotto gli omicidi in Emilia Romagna. E ventotto sono quelli che vi ho raccontato. Fedele ai miei lettori. Fedele alla linea editoriale. 30 gennaio, tanto per cominciare. Mohammed Benakiri, marocchino con precedenti per droga, viene trovato morto in un cassonetto dei rifiuti a Lido Adriano. Strangolato, sfigurato con l’acido, infine gettato nell’indifferenziata. Ma fare gli stronzi, letteralmente, non conviene. Cagargli in faccia per sfregio non si rivela infatti un’idea geniale da parte degli assassini. Le analisi dei Ris di Parma confrontano le feci sul cadavere con quelle di due prostitute sue connazionali. Il test è positivo e le donne vengono fermate. Non ci volevano certo quegli intelligentoni di csi per venirne a capo.
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