Capitolo 2

2077 Parole
Capitolo 2Quanto gli mancava il bollito, quello vero, quello piemontese! I liguri autentici, ammesso che ce ne fossero ancora, perché come tutti i popoli di mare s’erano mischiati con gente arrivata dai quattro punti cardinali, mangiavano pesce, e fin lì era cosa naturale, ma i più tosti, quelli ben radicati mangiavano della roba piena di spine che un bigodino per far la piega alle donne avrebbe dato più soddisfazione e, miseri, ignoravano l’armonia del bollito misto. O meglio, se lo preparavano anche, ma da taccagni, facevano la “cima” loro! La cima è una specie di sacca di carne che una volta bollita ha lo stesso sapore e la stessa consistenza, anche lo stesso colore, a pensarci bene, del cartone da imballaggio. Dentro a ’sta sacca ci mettono un ripieno di uova, verdure e un’ombra flebile di parmigiano, ma più che altro pan grattato, cuciono, pungono, per evitare esplosioni e fanno bollire per un tot: ma è un bollito questo? No, è una parodia, è un ripieno da ravioli con la carta intorno, ecco cos’è! Ti puoi immaginare che gusto deve avere il brodo di una roba simile, sa di bietole, nella migliore delle ipotesi. Bartolomeo Rebaudengo viveva solo in un grazioso appartamento sulla collina sopra Albenga. Ci sono sei o sette chilometri tra Albenga e Alassio e lui s’era rifiutato di vivere lì, gli era bastato poco per capire che la bella cittadina invernale diventava un enorme manicomio estivo di gente inferocita dal caldo, dai prezzi, dalle code, dall’assenza di posteggi. E, per tornare al bollito, certo non aveva tempo e non avrebbe nemmeno avuto l’arte di sua madre nel cucinarselo. Dopo la separazione, il suo infausto matrimonio era durato quattro anni e sette mesi, dopo lo stato di smarrimento seguito al divorzio, intanto che cercava di medicare i guasti frequentando segretamente lo studio di uno psicanalista genovese, aveva deciso di prendersi cura di sé e di non mangiare mai più la Simmenthal! Così, se non era proprio quello ricco della sua terra, bollito lo era comunque. Sceglieva due o tre pezzi in macelleria, in modo che ci fosse un po’ di muscolo, un pezzetto d’osso e un po’ di quelle parti molli che rilasciano condimento e sapore, carote, sedano, aglio e cipolla e anche, era una sua invenzione, due foglie di alloro e due o tre bacche di ginepro. Lo faceva la domenica mattina, quando era di riposo e mentre la pentola sobbolliva, la pentola deve sobbollire, orrore e dannazione eterna all’inventore della pentola a pressione, lui andava a correre. Al rientro una bella doccia, una controllata alla concentrazione del brodo, e intanto che cuocevano i ravioletti col “plin”, (il “plin” sarebbe una specie di pizzicotto), che se li portava surgelati giù da Ceva, sistemava una fetta di salame su una crosta di pagnotta, un bicchiere di dolcetto e si accendeva una sigaretta, una delle sue quattro o cinque quotidiane, alla faccia di tutti i ministri della Salute, appoggiato alla ringhiera del terrazzo, lasciando vagare lo sguardo sulla superficie imperscrutabile del mare. La vita aveva anche dei risvolti piacevoli e questo era uno. Dopo le situazioni piacevoli in genere arriva il lunedì ed in una settimana possono essercene molti, di lunedì. La comunicazione dei carabinieri, dall’auto di pattuglia era arrivata di notte perché il ritrovamento era avvenuto di notte. Adesso erano le otto e mezzo e c’era un gran daffare, un andirivieni di persone, che poi erano in quattro, ma sembravano molte di più, tutte intorno all’auto del professor Oddone. La vettura si trovava regolarmente posteggiata in salita Patrioti, poco visibile, in mezzo ad altre. Dal posteggio si poteva accedere senz’alcun impedimento, tranne un cancello di metallo che avrebbe dovuto essere chiuso ma che restava negligentemente sempre aperto, al primo binario della stazione ferroviaria ed era proprio a quel binario che si era diretta l’automobile dei carabinieri. Da qualche tempo s’era instaurato una sorta di tacito accordo tra i carabinieri ed il capostazione che trascorreva in solitudine il turno di notte nell’ufficio movimento. Gli agenti della Polfer smontavano a mezzanotte e tutto l’edificio restava incustodito fino all’alba. Così era cominciato quel gesto di premura, rivolto soprattutto verso un capostazione donna che in passato aveva subito fastidiose visite notturne. Almeno una volta nella notte i militi arrivavano fin lì, bussavano, lei apriva: “Tutto bene?” chiedevano. “Tutto bene”, rispondeva lei e si sentiva più tranquilla. A loro costava poco e presto era diventata una consuetudine. Naturalmente la scomparsa o possibile fuga del professor Oddone aveva suscitato un certo scalpore in un centro piccolo come Albenga, ecco perché al brigadiere Acuto quel numero di targa aveva immediatamente fatto scattare una rotellina in testa. E ci aveva visto giusto: era l’automobile del tizio scomparso. Il caso era della polizia di Alassio e così, anche a smentire le leggende sulla rivalità tra polizia e carabinieri, aveva avvertito prima il comando e poi il commissariato. In tre giorni, da quando era stata inoltrata la denuncia della signora Ferretti, non era successo assolutamente niente. Adesso si trattava di capire se quella vettura fosse stata lì da subito o se ci fosse arrivata nei giorni seguenti. I colleghi dei due militi dell’Arma che avevano effettuato il saluto ai capistazione nelle notti precedenti non avevano notato nulla, ma non avrebbero potuto giurare che non ci fosse stata, potevano semplicemente non averla notata. In fondo quella di Acuto era stata la classica botta di culo, quando l’occhio ti va a cadere proprio nel posto giusto, dove nessuno aveva guardato prima: tu fai la figura dello splendido e gli altri quella dei fessi. Bartolomeo Rebaudengo osservava il lavoro dei suoi agenti della Scientifica. Non c’era stato bisogno di forzare la serratura. L’auto era chiusa, ma la signora Fabiola aveva immediatamente fornito un doppione della chiave del marito, spiegando che ognuno di loro due possedeva una chiave della vettura dell’altro, per qualunque necessità. Era andato il commissario in persona a prendersela, accompagnato dall’agente Canepa, Paola Canepa, una biondina volenterosa che non si perdeva un libro o una puntata del commissario Montalbano e che faceva la poliziotta con lo stesso entusiasmo e la stessa devozione di un pastore tedesco. Di sicuro avrebbe preferito che lui, il commissario, avesse una bella, calda parlata sicula invece di quella lagna da basso Piemonte, però era il commissario e quindi andava bene lo stesso, anche quando gli scappava “boia faus”. La villetta della coppia Oddone-Ferretti era graziosa, su due piani, con un bel movimento di tetti, una veranda con un arco ed un giardino reso quasi invisibile all’esterno da una fitta siepe di biancospini. La signora Fabiola non li aveva accolti in vestaglia, come si sarebbe aspettato, ma in tuta da ginnastica, perché era pronta per andare a lavorare. Non sarebbe servito a niente restare a casa a fissare il muro, aspettando una telefonata che sembrava proprio non voler arrivare. Quando seppe la ragione della visita, soltanto un lieve restringersi della pupilla suggerì che un’emozione c’era stata, ma subito controllata. Però, anche se voleva fare quella distaccata e lucida, al momento di cercare le chiavi dell’auto del marito, cominciò ad andare avanti e indietro, dal corridoio, alla cucina, allo studio pieno di libri, brontolando tra sé e sé, chiedendo continuamente scusa del fatto che non riusciva a trovarle. Alla fine in un cassetto della libreria le trovò e le posò sul palmo della mano aperta di Rebaudengo. Lui avvertì con inquietudine il contatto con i polpastrelli gelidi della signora. Ormai era più di un’ora che trafficavano sul posto. Stava arrivando il carro attrezzi che avrebbe caricato l’automobile e l’avrebbe portata in un deposito coperto dove sarebbe rimasta fino alla soluzione del caso o perlomeno fino al momento in cui il magistrato l’avesse considerata utile alle indagini. Naturalmente intorno alla vettura, nello spazio ristretto tra le carrozzerie delle altre due auto affiancate non c’era niente degno di nota, manco a farlo apposta, nemmeno un mozzicone di sigaretta. Guano di storni, quello sì, tanto, ma roba vecchia, d’inizio inverno. Il grosso del lavoro, all’interno del mezzo lo avrebbero fatto in deposito, ma ad una prima occhiata sembrava che non avrebbero incontrato grosse sorprese, non c’era sangue, non c’erano ammaccature, le serrature erano intatte, insomma era soltanto un’automobile posteggiata. Certamente avrebbero trovato abbondanti impronte, la maggior parte delle quali sarebbero state del professore, qualcuna della moglie e, al limite, quelle del meccanico o del benzinaio sullo sportellino del serbatoio. In quell’auto non era successo niente. L’avevano trovata, questo sì ed il posto in cui era stata rinvenuta lasciava aperte tre ipotesi: o il professore aveva preso il treno oppure aveva voluto lasciarlo credere o, infine, aveva posteggiato lì per una qualche sua comodità. Era un posto buio, fuori mano pur essendo in centro, ottimo per abbandonare un’auto e salire su un’altra, sicuro che sarebbe passata più inosservata che su una strada di campagna. Rebaudengo temeva che alla fine dei rilevamenti si sarebbero ritrovati alla calza del pero, non sarebbero progrediti di un passo nella conoscenza dell’attuale sorte del professor Oddone. Inoltre non avrebbe potuto continuare a “menare il torrone”, come diceva sempre zia Palmina, che non si sapeva bene perché avesse prediletto questa formula per indicare la necessità di sbrigarsi. Se non fossero emersi fatti nuovi, la faccenda della scomparsa dell’insegnante avrebbe dovuto metterla da parte. Il magistrato, il dottor Bauli, che gli faceva sempre venire in mente il clima natalizio, anche se di natalizio lui non aveva proprio niente, essendo tipo segaligno e algido quel tanto da spegnere qualunque speranza di un colloquio amichevole, voleva degli elementi per incriminare qualcuno dell’omicidio di Altin Pacsa, l’albanese trovato in un lago di sangue nel giardinetto retrostante l’ingresso della stazione ferroviaria di Laigueglia, minuscolo comune ad occidente di Alassio. Non era stata rinvenuta l’arma, anche se le ferite indicavano il classico coltello a scatto, il poveretto era stato scoperto dopo dodici ore dal decesso e non era morto rapidamente, ma per dissanguamento, in un’aiuola, nascosto da cespugli e palme nane. Dopo due mesi d’interrogatori tra conoscenti e compagni di lavoro, faceva il muratore come da copione, non avevano fatto nessun progresso. Il commissario se ne stette a guardare la Golf che veniva caricata sul carro attrezzi, la sua Squadra scientifica che chiudeva le valigette, ognuno se ne saliva in auto per tornare in commissariato e decise che anche per lui era meglio rientrare, lì tanto non c’era da fare più niente. “Sì signora, posso confermarglielo, gli agenti della Scientifica hanno fatto un controllo approfondito”. “Ma non c’era sangue?”. “No, signora, si tranquillizzi, niente fa pensare che quell’auto sia stata teatro di un gesto violento contro suo marito. E poi, mi scusi, ma perché le è venuto in mente il sangue?”. Seguì un silenzio non prolungato ma totale, come se Fabiola Ferretti non respirasse nemmeno, forse stava cercando un modo per esprimere la sua ansia senza sembrare troppo ansiosa. “Mi spiego meglio. Io non credo che mio marito si sia andato a cacciare in chissà quale guaio, facilmente è soltanto una questione di…” “Sesso?”. Bonjour finesse: si pentì subito, di solito era più delicato, ma ormai era andata. “Sì, di sesso, commissario – nessun risentimento nella voce, sempre atona – ma quando mi ha detto che avete trovato la sua macchina lì, vicino alla stazione, m’è quasi venuto il dubbio che potessero avergliela rubata”. “E che lui sia stato ferito e magari abbandonato?”. “Sì, una cosa di questo genere…”. “E perché, signora?”. “Sa commissario, al di fuori della sua professione, dove è ambizioso e competente, per il resto mio marito è un po’ pasticcione e anche ingenuo”. “Quindi?”. “Se facciamo l’ipotesi che, invece di essere scappato con un’altra donna, abbia vagato da solo, guidando, magari s’è ritrovato a bere in qualche bar, in qualche posto poco raccomandabile…”. “Signora, le ricordo che è stata lei la prima a pensare ad una relazione extraconiugale”. “Lo so commissario, ma sta passando troppo tempo, io le ho già pensate tutte e m’è venuta in mente anche questa”. “La valuteremo, signora, stia tranquilla”. “Comunque sangue non ce n’era?”. “No, signora, ad una prima osservazione nel posteggio non abbiamo notato nulla di allarmante e nemmeno in seguito, in deposito. Abbiamo rilevato una quantità d’impronte, com’era prevedibile, certamente di suo marito, altre diverse, potrebbero essere le sue e lo sapremo soltanto dopo un confronto, a cui lei, gentilmente, si sottoporrà. Il pm è stato informato del ritrovamento, ma per ora non è stata richiesta la sua presenza, in quanto non abbiamo nulla di significativo da sottoporgli. Al momento si tratta di una scomparsa volontaria e non ci sono elementi che ci indichino una diversa direzione”. Seguì un silenzio piuttosto prolungato, poi un sospiro. La signora Ferretti evidentemente si rendeva conto del fatto che non poteva pretendere miracoli. Non sapeva che Rebaudengo aveva fatto un po’ di domande in giro, che Ravera aveva chiacchierato, o meglio fatto chiacchierare qualche collega di lavoro del marito, il padrone del bar davanti a scuola, il suo barbiere e non ci aveva cavato un ragno da un buco. Un coro di: “Ottima persona, bravo insegnante, se non un amico comunque un buon conoscente con il quale era sempre piacevole scambiarsi le idee, bell’uomo, certe volte un po’ fazioso, esibiva meno di quel che valeva”, insomma, niente.
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