Capitolo 3-1

2000 Parole
Capitolo 3Per tutta la vita aveva sognato la casetta sulla riviera ligure, una vita di noioso lavoro impiegatizio in una filiale della banca S. Paolo a Cavallermaggiore. La pensione era arrivata e con la liquidazione aveva finito tutte quelle migliorie che gli avrebbero permesso di considerarla finalmente una casa vera e non soltanto quella delle vacanze. Non aveva voluto un appartamento in un condominio cittadino. Non capiva quei piemontesi o lombardi che si compravano la casa in Liguria in qualche palazzone per poi fare in vacanza lo stesso tipo di vita che facevano in città, a meno che, poveretti, non fossero costretti a far così per il solo fatto che non riuscivano ad immaginare un altro modo di vivere. Lui invece c’era riuscito: Attilio Barroero si era comprato una casetta, quasi un casolare nella campagna arida ma suggestiva che stava sulla collina, a metà strada tra Albenga e Ceriale. Oddio, il posto ricordava un po’ il far west, volendo essere più patriottici Sicilia, Sardegna o giù di lì, d’estate faceva un caldo terrificante e d’inverno ci tirava un vento spaventoso, però ti sentivi libero! Marisa, moglie del prode Attilio, aveva brontolato un po’, lei a Cavallermaggiore non ci stava mica tanto male, poi aveva condiviso il sogno del marito e adesso era orgogliosissima dei suoi aromi nel minuscolo giardino. S’erano presi anche un cane, un botolo bianco e nero, sempre di buon umore. Quella mattina di metà febbraio il signor Barroero aveva messo il guinzaglio a Sancho, sua moglie aveva voluto chiamarlo così, aveva chiuso il cancelletto del suo giardino minimo ed era partito per fare una bella passeggiata nelle campagne intorno a casa, fino all’ora di pranzo. Il panorama era splendido, nonostante la natura brulla, si vedeva la costa per molti chilometri, il cielo era d’un azzurro cupo, profondo, il mare scintillava e, aguzzando un po’ lo sguardo, s’intravedevano lontanissime, sospese in un altro mondo, le montagne della Corsica. C’era una leggera brezza di tramontana che dava all’aria il profumo di un inverno ancora ben saldo. Da parecchi giorni non pioveva, ma sembrava che nella piana di Albenga che si stendeva sotto di lui fino al mare, la campagna non dovesse patirne perché era tutto un susseguirsi luccicante di serre: fino a che non si fossero seccati i pozzi, quei fiori là dentro non avrebbero comunque mai visto pioggia caduta dal cielo. Sancho tirava il guinzaglio peggio di un cane da slitta, facendo dei brutti versi con la gola strozzata, così Attilio, dopo un’occhiata intorno, decise di liberarlo. Stavano passeggiando su di una strada sterrata e l’unico pericolo per l’animale avrebbe potuto essere una jeep di cacciatori, ma il signor Barroero, che non se ne intendeva di calendari venatori, si augurava che quello non fosse giorno di caccia. Non gli piacevano quelle giornate in cui sentiva gli spari in lontananza, frequenti, delle volte sembravano quasi raffiche, gli ricordavano i racconti di guerra e Resistenza di suo padre, solo che questa era una guerra da pici, ammesso che l’altra, quella vera, fosse invece una cosa da furbi. Sancho partì quasi con un rimbalzo, come se avesse avuto una molla nel sedere e scomparve nella sterpaglia. Attilio si guardò intorno con aria furtiva, non c’era un cane, a parte il suo, nel raggio di chilometri, l’occhio rapace di Marisa in quel momento era intento a scrutare i settimanali di pettegolezzi dal parrucchiere, poteva osare, avrebbe osato, osò! Il sapore di quella sigaretta che gli aveva lasciato Piero la sera prima alla bocciofila gli parve qualcosa di paradisiaco, come i mille cocci di vetro che sberluccicavano sul mare, la brezza fredda e fina, l’azzurro assoluto del cielo, il silenzio appena increspato dal muggito lontano dell’autostrada. Si sedette su un pietrone liscio che spioveva dal terreno, lo sguardo perso, gustandosi quel momento di assoluta adolescenza, con la sua sigaretta clandestina. La vita poteva essere bella anche alla sua età, certo si stava più tranquilli sapendo che il colesterolo e i trigliceridi si mantenevano accettabili, la pressione non esagerava e l’ecocolordoppler alle carotidi aveva dato buone aspettative di campare ancora un po’. Allora anche la fumatina poteva starci senza sentirsi troppo in colpa. Non erano passati più di dieci minuti quando si riscosse all’improvviso rendendosi conto che non aveva più visto né sentito Sancho, e fu proprio l’impressione confusa del suo guaito lontano che lo allarmò, facendogli rendere conto del trascorrere del tempo: Sancho era un cane giovane, faceva il furbo, lo spavaldo, ma era poco indipendente; come mai era sparito e perché uggiolava? Attilio scattò in piedi quel tanto che gli permettevano i suoi settantadue anni e cominciò a chiamare il cane. Quello non ricomparve, così il padrone prese ad avanzare tra le sterpaglie di una diramazione della strada principale dall’aria molto meno usata. I guaiti della bestiola stavano aumentando di volume. Poco più avanti vide un bello stronzetto appena depositato e capì d’essere sulla strada giusta. Ad una ventina di metri da lui c’era il suo animale, acquattato con tutte e quattro le zampe flesse, la coda tra le gambe, la testa china. Aveva l’aria disperata o colpevole, non si capiva, il suo era l’atteggiamento di uno che sta per prendersi una scarica di botte. Non era mai successa una cosa simile, Attilio affrettò il passo, ma si fermò e chiuse gli occhi, certissimo, lo avrebbe giurato sulla bibbia, di aver avuto un’allucinazione. Li tenne chiusi per qualche secondo, sperando che il suo cuore ce la facesse a recuperare una frequenza compatibile con la sopravvivenza, sforzandosi di pensare di averci visto non male, malissimo e nello stesso tempo sicuro che lo spettacolo che s’era piantato come un chiodo nel suo cervello, proprio sopra gli occhi, fosse assolutamente reale. Li riaprì, chiamò il cane che aveva superato il primo smarrimento e stava cominciando ad annusare. L’animale lì per lì non volle ubbidire, stordito come il padrone, quando poi l’ordine si fece aspro, a passo lento e testa bassa si girò e cominciò ad avvicinarsi ad Attilio, che lo aspettava a braccio teso e con il moschettone pronto a chiudersi sulle maglie del collare. Riuscì a guardare ancora una volta, ma si sentì colpevole perché la sua educazione gl’imponeva di volgere lo sguardo altrove, in segno di rispetto e anche di pietà. Con le mani tremanti tirò fuori il cellulare dalla tasca interna della giacca e dovette ripetere il tentativo due o tre volte: alla fine riuscì a comporre il 113. “Va bene, dottor Magliolo, ora mi reco sul posto e prendo visione della situazione. Sì sì, la pattuglia dovrebbe esserci già, se non altro per isolare la scena del crimine e tenere lontani eventuali curiosi”. Piccola pausa di ascolto, pollice e indice della mano sinistra che tormentavano il lobo dell’orecchia. “Mi auguro che il signor questore venga avvertito quanto prima… Richiamerò tra poco… Certo, certo, la Procura… Va bene, ma adesso è meglio che vada”. Altro piccolo silenzio. “Arrivederci, dottor Magliolo”. Posò la cornetta, afferrò la giacca appoggiata allo schienale della sua poltrona, aggirò la scrivania ma tirò lo stesso un colpo con la coscia nello spigolo, fece finta di niente, bestemmiò mentalmente in cuneese stretto e scese giù per le scale con due dei suoi uomini preferiti. Il terzo era al volante, con il motore acceso. L’auto della Scientifica era già partita da qualche minuto urlando. “Che dice, commissario, facciamo l’Aurelia o conviene la variante?”. “Sirena e lampeggiante comunque, ma fai l’Aurelia, che poi nell’entroterra di Albenga in mezzo a quelle stradine di campagna ci andiamo a incasinare e perdiamo il tempo che abbiamo guadagnato!”. Non era la prima volta che si sedeva di fianco all’autista, aggrappato alla maniglia sopra la portiera e non gli piaceva attraversare le strade a quella velocità, facendo tutto quel baccano da film, però non era un capriccio, non gli era mai capitata una cosa così grossa. Non aveva paura di sbagliare, bastava far le cose con calma e ragionare, certo che quella telefonata era stata una vera mazzata. Malgrado l’aspetto stento della vegetazione, il cadavere non era in pieno sole: un po’ alla luce e un po’ all’ombra degli arbusti, quasi grottesco a righe bianche e grigie. Il testimone, o meglio, la persona che aveva dato l’allarme era un uomo anziano ma dall’aspetto abbastanza giovanile, che adesso stava fumando una sigaretta, appoggiato all’auto di pattuglia, la prima che era arrivata, in compagnia di un agente che, più che raccogliere la deposizione, sembrava lo stesse confortando. Ai loro piedi un cagnetto bianco e nero che s’era accucciato tra i due quando aveva capito che lì le cose sarebbero andate per le lunghe. “Martelli, dimmi un po’, com’è?”. Martelli era inginocchiato al di là del nastro e stava cominciando a raccogliere piccoli reperti, infilandoli in bustine di plastica, maneggiando il tutto con le pinzette. Aveva la sua tuta bianca che lo faceva assomigliare ad un addetto alla disinfezione. Vicino a lui Podestà stava facendo le fotografie. Questo era uno di quei casi in cui il regolamento strideva in modo doloroso con la pietà: per terra, davanti a loro stava stesa una giovane donna nuda, braccia e gambe aperte, come il disegno dell’uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, nessuna ferita sul bel corpo chiaro, a parte il volto tumefatto dallo strangolamento. Veniva voglia di cercare un telo, anche solo uno straccio e coprire quella nudità umiliata, esposta al cielo. “Eeh, son cazzi, dottore! Per adesso l’unica cosa che possiamo dirle, ad una prima occhiata, è che la morte dovrebbe essere stata provocata da strangolamento, ma dobbiamo aspettare il magistrato per toccare il corpo e non sappiamo cosa potremmo trovare sotto”. Dalla seconda telefonata alla Procura eran passati venti minuti, forse venticinque e già poterono sentire l’eco lontana delle sirene che urlavano uscendo dall’ultima galleria dell’autostrada prima del casello di Albenga. Dal poggio spelacchiato dove si trovavano in quel momento s’era vista la carovana sfrecciante delle auto bianche e azzurre a lampeggiante acceso, in basso verso la piana. E in quanti erano, accidenti, sembrava un allarme antiaereo della Seconda guerra mondiale! Dieci minuti e sarebbero stati lì. Per un po’ le sirene si affievolirono, poi aumentarono di volume man mano che si avvicinavano alla montagna brulla, cotta dal sole. Quando Rebaudengo riconobbe il pm cui avrebbe dovuto riferire ogni passettino, sia in avanti che indietro, cui avrebbe dovuto chiedere autorizzazione perfino per andare al cesso, provò un’esile sensazione di sollievo: era Bottini, un essere umano, uno che non permetteva passi falsi, ogni minimo errore è sempre una pallottola nella pistola della difesa diceva, ma ci si poteva ragionare, capiva le cose e aveva il senso della realtà, talento non diffusissimo tra i suoi colleghi. Grassoccio, con quattro peli biondicci in testa, gli venne incontro sorridendo, per quel che permettevano le circostanze. “Rebaudengo, cosa mi dice?”. “Poco per adesso, se non quello che salta agli occhi: strangolamento, nudità e candele nere. La vittima sembra molto giovane, vent’anni, poco di meno o poco di più. Aspettavamo lei prima di toccare il cadavere”. Ci fu un raspare di pneumatici sulla terra battuta, un gran sbatacchiare di portiere e arrivarono i tipi della Mobile, dirigente in testa. Rebaudengo emise un gemito a bocca chiusa, un rumorino minimo che però arrivò alle orecchie di Bottini il quale alluse ad un sorriso di solidarietà: evidentemente nemmeno lui poteva soffrire il dirigente della Mobile, ma entrambi avrebbero dovuto sopportarlo. Arrivò anche l’auto dei trasporti funebri ed il medico legale. Rimasero stupiti, non lo conoscevano, o meglio, non “la” conoscevano: era una donna piccola, dalle forme morbide a cui la tuta bianca non rendeva giustizia, sui quarant’anni. “Piacere, mi chiamo Ardelia Spinola, sono il nuovo medico legale…”. “Piacere Rebaudengo”, ripeté Bartolomeo, tendendole la mano. Lei la strinse al commissario e al magistrato, poi si affrettò ad indossare i guanti di lattice di una misura minuscola. “Bel disastro eh?”. “Poveraccia… In che casino s’è andata a cacciare?”. “E chi lo sa? Per adesso sembrerebbe il lavoro di una setta satanica, chissà cos’è successo veramente… Intanto io comincio”. “Prego dottore, faccia quello che deve”, le rispose Bottini cordiale. Lei lo guardò un attimo con una strana espressione incredula, forse non era abituata ad un trattamento cordiale, ma durò un attimo, perché subito s’inginocchiò accanto al corpo ed aprì la sua valigetta. Rebaudengo distolse lo sguardo. Cadaveri ne aveva già visti parecchi, ma quel momento, quando il medico legale cominciava a toccare, a muovere per stabilire il livello di rigor mortis, misurava la temperatura ed altre piacevolezze simili, aveva un moto di disagio. Si finse interessato al proprio modello di scarpe fino a quando Bottini gli domandò: “Pensi che c’entri una setta satanica?”. “O è stato qualcuno di loro, o vogliono farcelo credere”.
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