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2557 Parole
2 Nel mio mestiere di poliziotto capita raramente che un cadavere venga ritrovato adagiato in letto come ogni brava persona che va all’altro mondo per malattia o raggiunti limiti di età. Così, anche a causa della miopia, per osservare una vittima stesa al suolo sono obbligato a piegamenti che mi provocano imbarazzanti scricchiolii. Ma stavolta, vivaddio, il paffuto cinquantenne che, stando alla carta d’identità letta da Santucci fra uno sternuto e l’altro, rispondeva al nome di Luigi Pagano, “dirigente d’azienda”, ha avuto il buon gusto di tirare le cuoia sul letto di casa sua, a Fiumicino. Non mi devo chinare più di tanto, quindi, per esaminare il suo volto livido contratto dalla morte. Il patologo sostiene che se n’è andato per soffocamento ma, come di rito in ogni giallo che si rispetti, aggiunge che sarà “più preciso dopo l’autopsia”. In realtà che una salma abbia colorito bluastro, verdognolo o grigio non è raro nemmeno nelle camere mortuarie degli ospedali e di per sé non è indice di morte violenta. Piuttosto lascia perplessi il fatto che il fu dottor Pagano abbia la camicia, i calzini, le scarpe ma non i pantaloni e le mutande! È vero che gente strana ce n’è a bizzeffe: c’è chi dorme vestito, chi nudo, chi usa il pigiama, chi la camicia da notte, chi i boxer… ma praticamente tutti, perbacco, prima di andare a letto si sfilano le scarpe! Giusto chi si stende senza svestirsi, stanco morto o ubriaco, magari se le lascia… ma non mi sembra il caso di specie, visto che i pantaloni, con la cinta ancora nei passanti, stanno su una sedia di design moderno presso la finestra della stanza. Ubriachezza? Anche per questa ipotesi il dottor Petruzzelli “saprà essere più preciso dopo l’autopsia”. Ma gli estremi ci sono: una bottiglia di champagne francese, vuota, abbandonata vicino a una poltrona, e su un tavolo col ripiano di cristallo i resti di una libagione da ricchi, ostriche in ghiaccio – il ghiaccio s’è sciolto, dei molluschi restano i gusci – e una bottiglia della stessa marca svuotata oltre la metà. Santucci, a cui l’aria salmastra non reca benefici otorinolaringoiatrici, mi informa, mentre si soffia il naso con il rumore di un turboelica, che nel frigidaire in cucina ci sono altre tre bottiglie del medesimo champagne. I colleghi della Scientifica sfarfallano di qua e di là in cerca di impronte e reperti. Ma da un primo esame risulta che tanto le bottiglie stappate che i bicchieri allineati su un elegante carrello di perspex sono stati accuratamente lavati e asciugati. Cosa che non ci aiuta certo, però prova anzitutto che il povero signor Pagano non era solo e che, dopo il suo trapasso, qualcuno si è preoccupato di cancellare ogni traccia che avrebbe potuto ricondurre a lui. O… a lei! Visto che il meschino ha reso l’anima con tutta la dotazione riproduttiva in bella vista, è più facile che fosse in compagnia di una signora. Io, se non altro, non gusterei ostriche e champagne, seminudo, con un amico del liceo o un collega d’ufficio! Anche se, oggigiorno, il “caso a parte” sono io: sposato da venticinque anni con la stessa donna e ancora attratto dalle belle figliole, preferibilmente con forme da balia! “Ha visto i polsi, dottor Soccodato?” indica Santucci. Le braccia del morto devono esser state legate e lui deve aver tentato di liberarsi. Le tracce sono chiare. Altro indizio che depone a favore dell’ipotesi di un gioco erotico con finale tragico. “Era sposato?” domando. Una grandinata di sternuti squassa Santucci. Lo soccorre l’appuntato Corasaniti: “Sì, commissario, era sposato. La moglie ci ha chiamati, datosi che il marito non era rincasato.” L’appuntato Corasaniti, che con i suoi “datosi”, “dicasi” e “leggasi”, rivela origini trinacrie più di quanto attesti il suo certificato di nascita, recentemente, è finito sulla bocca di tutti in ufficio. Dopo aver ricevuto una telefonata urgente da casa, ha chiesto un permesso “per gravi motivi familiari”. La moglie, infatti, aveva avuto uno “strano” incidente d’auto. Inutile dire che quell’aggettivo “strano”, ancorché pronunciato nella concitazione, ha fatto drizzare le orecchie a molti colleghi. Tornato in sede, hanno spinto con ogni mezzo il disgraziato a raccontare i fatti. Si è saputo così che la signora Corasaniti un incidente l’aveva avuto davvero. E “strano” a dir poco! A bordo della sua Dyane con le due figlie maggiori e il figlio di otto anni, aveva affidato il volante a quest’ultimo per cercare gli occhiali da sole nella borsetta. Il bambino non è riuscito a tenere dritta la macchina e lei, accortasene, ha pensato bene di frenare. Ma ha scambiato il pedale del freno con quello dell’acceleratore finendo per schiantare la Dyane, per fortuna ancora a bassa velocità, contro un pino di Via Cornelio Nepote. Per di più, il povero appuntato oltre alla moglie stolta ha la ventura di chiamarsi Giuseppe e i “cari colleghi”, dal dì dell’incidente, hanno preso a chiamarlo impietosamente “Pino”! E lui si inalbera, sotto i baffoni neri! Dunque, Luigi Pagano era sposato. Perciò adesso tocca avvisare la neovedova. Bisognerà farlo col si bemolle perché, parliamoci chiaro, esser legati in camicia, pedalini, scarpe e col pipino al vento non è cosa che si faccia di norma con la consorte! Insieme con la notizia della morte del marito, perciò, le si notificherà che l’elegante cappellone che porta nella foto che ho visto in salotto, in cui è insieme allo sventurato coniuge, non lo potrà più mettere perché in capo ha un bel paio di corna! Andrò io. Già mi son cacciato in testa il Borsalino quando giunge il giudice istruttore, dottor Reale, con tutta la sua studiata eleganza. Come di consueto, gli espongo i risultati dei primi rilievi che, in definitiva, si riducono all’ipotesi che il soggetto sia rimasto vittima di un gioco erotico finito male. Per elaborare tesi più consistenti dobbiamo attendere l’autopsia. Reale mi ascolta. Serio. Poi mi prende da parte e mi rivela che il tacchinone stecchito sul letto era direttore della Segreteria di presidenza dell’ENI e uomo di fiducia del presidente dell’Ente petrolifero. Negli ultimi giorni, spiega il magistrato, “c’è parecchia maretta e imbarazzo ai vertici dell’ENI” per via di alcune voci sussurrate ma piuttosto insistenti secondo cui Pier Paolo Pasolini, brutalmente ammazzato all’inizio del mese, potrebbe anche non essere morto per motivi legati all’omosessualità. Pare infatti che lo scrittore, continua Reale, “ultimamente si fosse incaponito a indagare sugli intrecci fra politica e grande industria e la sua attenzione si fosse concentrata con particolare accanimento sull’ex presidente dell’ENI Eugenio Cefis, da poco insediatosi a capo della Montedison”. Si capisce perciò, conclude il giudice, come “la strana morte del caposegreteria del nuovo presidente dell’ente potrebbe dar adito a fantasie complottiste che in Italia hanno la tendenza ad attecchire e a ingigantirsi fino a divenire ingestibili…” Ricevuto. Assicuro al dottor Reale che userò massima cautela e che lo terrò costantemente informato. I giudici istruttori si sentono tranquilli quando si assicura loro che saranno “costantemente informati”. Basta la parola! Come per il confetto Falqui. * * * La signora Pagano mi riceve a casa, in Viale Mazzini. Edificio signorile e moderno. Dall’esterno ricorda un galeone. È stata lei a chiamare la polizia, come riferito da Corasaniti, quando s’è accorta stamattina che il marito non aveva fatto ritorno a casa. Con un breve giro di telefonate è stato accertato che l’uomo non s’era trattenuto in ufficio. Eventualità remota verificata solo per prassi, invero, perché se così fosse stato avrebbe avvertito per telefono. Dopo aver escluso impegni professionali, la signora s’è ricordata di dirci della villa al mare. Non credo per reticenza, piuttosto perché è difficile immaginare che un uomo, dopo il lavoro, se ne vada al mare un lunedì sera di novembre. Oppure perché, forse inconsciamente, si rifiutava di ammettere un tradimento… È una donna apparentemente dimessa, ma di classe. Nel salotto troneggia un pianoforte a coda. Si è accorta che lo sto guardando e mi specifica che è suo e che la musica è la sua ragione di vita sin da bambina. È diplomata al Conservatorio e da ragazza ha tenuto vari concerti. “Ha smesso?” chiedo. “A mio marito piace trovarmi in casa quando torna, la sera. Adesso do lezioni private e… insegno.” Parla veloce, tormentando la cintura della vestaglia color lillà che le scende fino ai piedi. Dopo i convenevoli e le poche parole sulla sua passione musicale, è lei a rompere il ghiaccio: “Quando la polizia viene in una casa è perché è successo qualcosa. Parli liberamente, commissario…” Parlo. Lei si tocca la testa, come per concentrarsi. Poi gli occhi si inumidiscono. Ma non perde il controllo. Abituata a soffrire dentro. “Come è accaduto?” Ecco. Adesso devo per forza ferirla. Riferisco solo i particolari indispensabili, ma anche così il macigno le rovina addosso… “Che tristezza!” esclama. Sospetti sulla fedeltà del marito deve averne avuti, però, poiché mostra vergogna, più che sorpresa. “Ha idea di chi possa esser stata la persona con cui era mio marito?” chiede. “Francamente… no” ammetto. “In tal caso, posso aiutarvi io” riprende. “Da vari mesi mio marito aveva una relazione con una giovane. Venticinquenne. Un’artista… Una pittrice che fa pure la ballerina di danza del ventre…” Il tono con cui illustra il curriculum dell’antagonista tradiscono comprensibile acrimonia. “Conosce anche il nome di questa persona?” azzardo. “Nome, cognome e indirizzo” puntualizza, quasi divertita. “Comunque… non l’ho mai affrontata e neppure incontrata. Non sono tipo da piazzate, io. Luigi è… era un infantile. Quando mi corteggiava gli dicevo che amavo la musica classica, e lui assicurava “anch’io”; gli dicevo che adoravo l’opera e il teatro, e lui dichiarava di avere gli stessi gusti e di essere orgoglioso di avere accanto una raffinata interprete di Schumann, di Mozart, di Chopin. Dopo ho scoperto che il suo fenotipo erano le donne da postribolo! Per fargli perdere la testa ci volevano sgallettate con gli stivaloni di vernice bianca o improvvisate mediorientali!” “Le posso chiedere questo nominativo?” mi faccio avanti, dopo averla lasciata sfogare. Si alza dal sofà e raggiunge un secrétaire. Apre uno dei tiretti chiusi a chiave e mi consegna un foglio extrastrong piegato in quattro. “Ecco gli estremi della… signora!” Santina Martino – Via Mastro Giorgio n. 15. “Ha incaricato un investigatore?” domando. “È stato sufficiente incaricare Sebastiano, il nostro domestico, di pedinare il ‘signore’ durante alcune uscite sospette. Mio marito non ha… non aveva molta fantasia: cene a Trastevere o al centro, ‘trasferte’ a Fiumicino, qualche volta una stanza in un albergo fuori mano…” Non continuo. Ho in mano più di quanto potessi sperare. Anche se diffido sempre delle soluzioni troppo immediate, è un buon inizio. Almeno per rassicurare il giudice istruttore e i miei superiori a San Vitale. “Dovrò convocarla a breve per il riconoscimento” avviso. “Certo, commissario. Quando vuole.” Mi porge la mano e schiaccia il pulsantino di un campanello che suona da qualche parte nell’appartamento. Io non lo sento, però. Poco dopo compare un distinto signore sulla sessantina a cui la mia interlocutrice racconta sinteticamente l’accaduto e ordina di accompagnarmi alla porta. Quando sono arrivato mi aveva introdotto una cameriera. Due domestici. Girano soldi, qui. “Sebastiano?” chiedo al signore sulla sessantina che mi sta accomodando il bavero dell’impermeabile. “Sì.” “Lei ha compiuto indagini per conto della signora, vero?” “È così.” “Ha veduto la donna di cui ha fornito le generalità alla sua padrona?” “Altroché!” si sbottona il maggiordomo. “Davvero una bella figliola… Alta così” con la mano indica almeno un metro e ottanta. Ben oltre la mia testa pure col cappello! “Mora, due occhi neri intensi e un corpo da modella…” Sorrido con maschile complicità. Poi gli chiedo se ha veduto la donna in compagnia del suo padrone e, eventualmente, che idea si fosse fatto. “Due innamorati” descrive. “Anche se…” “Anche se?” incalzo. “Anche se” riattacca “mentre lui appariva allegro, spensierato, ragazzino… lei aveva sempre un piglio austero. Lo comandava. E lui eseguiva. Di buon grado, invero, ma eseguiva come un soldatino!” “Può spiegarsi meglio?” “Una volta li ho seguiti per le vie del centro. Si sono fermati da Doney a Via Veneto. Lui le proponeva di cenare fuori e le citava i nomi di vari ristoranti alla moda. Lei ascoltava in silenzio. Alla fine ha detto con voce asciutta che sarebbero andati in una trattoria che conosceva lei. Lui ha tentato di ribattere, ma lei non lo ha degnato d’una risposta. E sono andati dove diceva lei. Cose simili le ho vedute almeno altre tre volte. Lui cedeva sempre. Anche quella volta che…” “Che?” “Beh…” riprende, un po’ imbarazzato “una volta lei gli ha chiesto, ma sarebbe più giusto dire gli ha ingiunto, di regalarle un collier di acque marine che aveva veduto in una foto della signora. Il dottor Pagano cercò di dissuaderla, le promise un gioiello nuovo di eguale valore… Alla fine, non ci crederà commissario, lei gli ha mollato un ceffone. È stato al ristorante Corsetti. Per fortuna era di giorno feriale e non c’erano molti avventori!” “E lui? Come ha reagito?” “Il giorno dopo le ha portato il gioiello della moglie. Glielo ha consegnato senza colpo ferire. La mia collega, la cameriera, ha saputo che il signore ha fatto fare poi una riproduzione falsa del monile e l’ha messa in cassaforte. La signora non se ne è mai accorta, poveretta!” “Tremendo!” commento. “Può dirlo forte, dottore. Come si dice: tira più un pelo di…” “Certo, certo…” La letteratura gialla quasi mai esclude il coniuge da una prima rosa di sospettati. La signora Pagano, invece, mi sento di assolverla già. Negli occhi le ho letto l’ansia e poi ho visto scenderle sul volto il velo del disonore e della sconfitta. Onta e disfatta già presenti, ma che oggi le esplodono nel cuore. È la classica moglie buona che dovrebbe rendere insostenibile il rimorso per il tradimento. O magari è stata proprio la sua bontà a spingere il marito in un’altra alcova? Una femmina malvagia risulta altamente e*****a. E l’uomo, soprattutto l’italiano nutrito fin dalla culla alle poppe di Santa Madre Chiesa, s’innamora edipicamente e pure un po’ per viltà della massaia, ma sogna la puttana. * * * “Santina non è in casa. È alle prove dello spettacolo di stasera al Folkstudio. Sa dov’è?” “So dov’è” assicuro alla smandrappata che divide l’appartamento con colei che la signora Pagano ha detto essere l’amante di suo marito. Evidentemente la gentile, vedendo un barattolo in cravatta e Borsalino con su un paio di occhiali come andavano dieci anni fa, ha dedotto che non potessi conoscere un locale alternativo quanto questo loro ‘covo’ al Testaccio alle cui pareti ho adocchiato entrando un ritrattone di Mao e un ibrido etnico a colori vivacissimi il cui soggetto è una sintesi fra Nostro Signore Gesù Cristo e uno yoghin. “Lei divide l’alloggio con la signorina Santina Martino?” domando. “Io e altre tre. Siamo in cinque, vuole i documanti?” chiede, spavalda, con quelle odiose vocali spalancate dei giovani d’oggi. “Mi basta sapere con chi sto parlando” ribatto. C’è un gran puzzo di fumo, e non si tratta di Nazionali! Ma siccome non sono della Narcotici mi dichiaro soddisfatto dopo aver appreso che la smandrappata si chiama Emilia Moiser. Mentre scendo le scale accendo la pipa. Una carezza di Clan aromatico scaccia il sentore di cantina che aleggia nello stabile. Il Folkstudio l’ho inteso nominare. Però non ci sono mai stato né so dove si trovi. Ovviamente non l’ho data vinta alla Moiser che mi guardava come fossi uno scappato da un libro di storia. Con una telefonata a Santucci da un baretto scalcinato dove mi concedo un Peroncino, vengo a sapere che il locale si trova in Trastevere, via Gaetano Sacchi 3. Il telefono me lo annoto a matita sulla copia del Messaggero: 58.92.374. Avrei potuto consultare benissimo gli elenchi SIP, spiegazzati e bisunti sulla mensoletta sotto il telefono a gettoni, ma mi andava di far alzare le chiappe al buon Santucci il cui naso, in questi giorni novembrini, non ha nulla da invidiare all’acquedotto Felice. Mi faccio dare un altro gettone dal barista indifferente che ha una voglia a forma di Sicilia sulla coccia pelata. Telefono al Folkstudio e mi informo sul programma della serata. Danza del ventre. Prenoto due poltrone. Il nome del gruppo che si esibisce lo dimentico subito. Chiedo un altro gettone e chiamo Marietta per avvisarla che stasera andremo in un locale di Trastevere a vedere uno spettacolo di danza del ventre. Trasecola. Spiego che “è per lavoro!”. “Ah, certo… per lavoro!” scherza. “A quando il Moulin Rouge?!” Sghignazziamo un po’, poi attacco il telefono. Il barista mi guarda per la prima volta. Forse immagina che sto per chiedere ancora un gettone, o un’altra birra. Invece pago la bevanda, i gettoni e gli domando dov’è il gabinetto.
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