CAPITOLO UNO-1

2045 Parole
CAPITOLO UNO Semo perduti, e sol di tanto offesi, che senza speme vivemo in desio. Inferno, Dante Nel Bianco, oggi «Ti avevo chiesto di controllarla! Merda!» urlò Lucio all’indirizzo di sua madre. «Forse non mi sono spiegato? Sapevi che era in pericolo.» Lei gli rivolse uno sguardo tranquillo. «Non ero sicura che fosse vero. Avremmo approfondito una volta sconfitto Rechairtei. Mi dispiace, Lucio. Pensavo avessimo più tempo prima del suo arrivo.» Lucio camminava avanti e indietro, una brezza calda faceva fluttuare i capelli chiarissimi. Chiamò la sorella e Iliyana apparve al suo fianco. Sembrava confusa e allo stesso tempo arrabbiata, spostava lo sguardo da Lucio a sua madre senza dire nulla. «Non posso lasciarlo dormire per sempre e al risveglio sarà furioso con me. Dimmi tutto ciò che sai su quell’essere alato. Può darsi che Dante non sia in grado di farlo, ma noi recupereremo la sua Compagna.» «Non è così semplice, Lucio, e tu ne sei consapevole.» «Non importa. Forse a te non è permesso interferire, ma io posso. Hai visto il tuo secondo Guardiano più antico distruggere le statue intorno alla piscina, Madre? Hai realizzato cos’è successo? Giovanna è stata torturata e quasi uccisa. Dante l’ha curata e ha cancellato le sue sofferenze, perché poi le venisse strappata dalle braccia! Raccontami tutto, Madre. Adesso.» Lucio ringhiò e smise di camminare avanti e indietro per posare su di lei i suoi occhi di ghiaccio. Sabrael, che era rimasto in silenzio, sollevò una mano sullo specchio d’acqua e davanti a loro apparve un’immagine di Gio crocefissa. La scena ripartì dal momento in cui Dante con estrema cautela liberava dalle catene la carne lacerata della ragazza. Lucio studiò il viso di Sabrael mentre osservava e nei suoi occhi vide una profonda tristezza. Anche sua madre stava guardando, ma non disse niente, immobile quasi quanto le sue amate statue. Per un attimo Lucio la fissò intensamente e pregò che non rimanesse completamente immune al dramma che si consumava davanti a lei. Vide un lieve sussulto sul suo viso nel momento in cui Dante si struggeva con la Compagna nell’acqua e Zaqar piombava sul patio distruggendo le piastrelle con il suo peso. Dalla schiena si estendevano ali nere come una notte senza luna. Guardando sua madre, Lucio capì che stava soffrendo sia per il dolore provato dal suo Guardiano sia per quella creatura distrutta. Il senso di perdita che l’Angelo trasudava era palpabile. Le sofferenze patite dalla sua anima lo avevano reso pericoloso, ma non era un’Ombra. «È un Puro Sangue, vero? Come è possibile? Gli Autentici sono tutti negli Inferi e i Puro Sangue non esistono più. Cosa hai omesso per tutto questo tempo?» sibilò Lucio in preda a una rabbia crescente. La scena si era quasi conclusa, le statue erano state distrutte e i pugni di Dante sanguinavano. C’erano gocce vermiglie ovunque, come se qualcuno avesse immerso un pennello nella vernice e si fosse messo a camminare in cerchio sulle piastrelle immacolate che circondavano la piscina. Resiayana annuì. «È uno dei pochi rimasti. Non ero certa ci fosse un collegamento, Lucio. Sapevo soltanto che le sue discendenti erano state sterminate e lui era uscito di senno dopo la morte dell’ultima. Ci sono Cacciatori che non smetteranno mai di cercare la sua Predestinata e Zenobia, ma non cercheranno di uccidere lui. Saranno felici di vederlo soffrire fino alla fine dei giorni per ciò che ha fatto. Non posso sapere se è così fuori di testa da fare del male a Giovanna, ma in lei vede la sua primogenita e non credo che farebbe mai del male a sua figlia.» «Mostrami la sua vita, Madre. Ogni cosa. E che Dio mi aiuti, se hai omesso qualche altro dettaglio della storia di questo mondo e dei suoi abitanti, farò io stesso una strage.» «Respira, Lucio. Non dovresti violare la tua natura in questo modo. Non c’è altro, te lo garantisco… e sono così dispiaciuta di non averti potuto rivelare prima ogni cosa. Adesso devo tornare da Raith. È quasi guarita.» Resiayana guardò l’Angelo che era accanto a loro in silenzio. «Sabrael, tu sai anche più di me. Ti prego, aiuta mio figlio se non riesce a rievocare il passato negli specchi d’acqua.» Aprì la bocca come se volesse aggiungere qualcosa, poi si voltò, la veste scintillante che sprigionava la luce di mille diamanti. I capelli bianchi, gli stessi che lui aveva ereditato, fluttuavano dietro di lei come un fiume innevato. Lucio sospirò. Avrebbe voluto mettersi a gridare, ma negli occhi di sua madre c’era un dolore profondo che non comprendeva e che non aveva mai visto prima. Stava soffrendo molto e urlarle contro non avrebbe cambiato gli eventi. Cos’altro gli teneva nascosto? Come avrebbe potuto proteggere i suoi guerrieri e questo mondo se il bisogno di sapere lo divorava? Lucio si voltò verso Sabrael e fece un cenno d’assenso. Divaricò le gambe e incrociò le braccia sul petto. «Sabrael, mostrami tutto.» Gli specchi d’acqua si illuminarono e apparvero le notti ateniesi di migliaia di anni prima. * * * Oggi - Oceano Atlantico, Norvegia Si sdraiò nell’acqua calda e guardò il cielo, mentre una mano le scivolava dalla clavicola lungo il seno, fino all’ombelico. Ubriaco del desiderio di lei, le accarezzava le palpebre chiuse. Le sfuggì un gemito di fronte all’ombra di quella creatura. Riusciva a vedere solo i suoi occhi argento, liquidi, che rilucevano come le stelle sopra di loro. L’ombra pronunciò parole d’amore in una lingua straniera e con quella stessa lingua affondò tra i suoi seni. Lentamente si avvicinò al capezzolo, mentre lei cercava il suo viso. Non riusciva a vederlo, ma poteva sentire i ricci bagnati e li strinse lievemente tra le dita. L’ombra sfiorò con i denti un bocciolo duro, poi l’altro. C’era qualcosa in quei denti che la faceva sussultare. Erano molto affilati, ma estremamente piacevoli. Un morso lacerò la pelle proprio sopra il capezzolo e l’ombra succhiò dolcemente. Mani forti le sorreggevano le natiche e la spingevano contro la carne turgida. Si avvinghiò a lui con le gambe. Gli accarezzò il braccio muscoloso, il petto liscio, e lasciò che le unghie lo graffiassero dolcemente. Lui leccò il punto in cui l’aveva morsa e poi scese più in basso. Leccava e succhiava con ardore e si faceva strada verso il suo centro pulsante. Lei ne aveva bisogno. Desiderava ardentemente qualcosa che solo lui poteva darle. Per un attimo pensò che non sapeva chi fosse quell’ombra, ma non sembrava costituire un problema. Due mani forti la sorreggevano e la facevano fluttuare sull’acqua, le gambe poggiate sulle sue spalle. Un ruggito, una lingua, denti affilati sul suo interno coscia e il mondo iniziò ad andare in pezzi. L’oscurità la circondò e lei non era più una donna accarezzata da un’ombra. Era una bambina inseguita da un Angelo. «Mamma! Aiuto!» Gridava e ridacchiava, correndo lungo i corridoi piastrellati, oltre i servitori, in un bellissimo atrio pieno dei colori dell’arcobaleno. L’acqua che scorreva nelle numerose fontane della stanza copriva i suoni delle sue urla delicate, mentre l’Angelo la prendeva tra le braccia e le faceva il solletico senza pietà. La luce filtrò finché ogni cosa intorno a lei scomparve. Aprì gli occhi gemendo e si ritrovò nell’oscurità, intorno a lei solo la pietra e la luce di un fuoco. Un’ampia finestra rivelava il luccichio delle stelle e la luna alta nel cielo notturno. La testa le pulsava mentre cercava di capire quali dei ricordi sopraggiunti al risveglio fossero reali e cosa avesse sognato. Chi era l’ombra che la stava accarezzando? Chi era l’Angelo che la inseguiva mentre correva sulle piastrelle fredde? Si diede un pizzicotto sul naso, pensando di essere impazzita. No, sua madre era… strizzò gli occhi, l’emicrania aumentava. Era come se una porta di metallo stesse sbattendo dentro la sua testa. Oddio, non riusciva a ricordare. Era certa solo di non appartenere a quell’era antica. Ricordava la tecnologia e il mondo in cui viveva, ma nulla della sua vita lì. Fu assalita dal panico e il cuore iniziò a batterle veloce nel petto. Dove diavolo si trovava? Provava un doloroso senso di vuoto come se stesse dimenticando qualcosa di molto importante, ma non riusciva a capire cosa. Una voce risuonò da un angolo buio. «Zenobia?» Il cuore continuava a batterle forte mentre voltava il capo di scatto e cercava freneticamente di intravedere qualcosa nelle ombre circostanti. Solo una sagoma, non riusciva a cogliere di più. Quella profonda voce maschile era vagamente familiare, ma non sapeva a chi appartenesse. Aveva sognato il nome con cui lui la chiamava, e di volare nel cielo, il mondo sotto di loro. Non era spaventata dal proprietario della voce… almeno non nel sogno. Ricordava le braccia forti che la stringevano, la brezza sul viso e quella voce, mentre volavano via da qualcosa di doloroso. Cos’era così doloroso? Perché stavo volando nel cielo e, soprattutto, come facevo a volare? L’emicrania continuava ad aumentare. Si mise a sedere e le calde pellicce e le spesse coperte che la avvolgevano le scesero intorno alla vita. «Chi è là? Dove sono?» chiese. Si rese conto di indossare una lunga tunica bianca che le copriva una sola spalla e una pesante vestaglia imbottita di un cotone estremamente morbido. Vedendosi, le tornarono in mente le immagini degli antichi Romani. Dove le aveva viste? Era stata a Roma? «Sono il tuo papà, Zenobia. Finalmente ti ho ritrovata. Ma tua madre e Zenovia… dovremo cercarle insieme. Loro sono ancora disperse.» Avvertì un nodo in gola. Di sicuro stava ancora sognando. «Non mi chiamo Zenobia», replicò, incerta. Ma qual era il suo nome? Ci pensava e sentiva la testa esploderle. Adesso i suoi occhi si erano adattati alla stanza buia e riusciva a vedere gli arredi sfarzosi e gli affreschi che decoravano le pareti. Li osservò nell’ombra e realizzò che raffiguravano tutti la stessa donna. In pose differenti, ma senza dubbio si trattava sempre della stessa bellezza dai capelli scuri che nei suoi sogni lei aveva chiamato mamma. Labbra carnose, curve generose e dorati occhi a mandorla. Era lei, ovunque. Osservando i dipinti ne notò uno che, accanto a quella bellezza mediterranea, raffigurava una bambina di quattro o cinque anni; si distingueva a malapena. «Zenobia, so che non ricordi. È passato molto tempo, mio prezioso angelo. Adesso sono qui per te e mai più permetterò a qualcuno di farti del male. Mi sei mancata tanto.» La voce era rotta dall’emozione. Lei si tolse la vestaglia alla ricerca di qualche ferita che giustificasse la sua amnesia, ma non aveva nulla a parte il forte mal di testa. Tutto questo non ha senso! «Io… io non so chi sei. Fatti vedere, per favore.» «Amelserru, comprendo la tua angoscia. La luce non ti dà fastidio agli occhi?» «Non lo so, ma questa oscurità mi spaventa.» Iniziò a tremare e si affrettò a ricoprirsi con la vestaglia. La sua mente era vuota e non sapeva cosa la spaventasse di più, se quello o l’uomo che le parlava attraverso la stanza. Lui emise un grugnito e sollevò una mano. Allora in tutta la stanza apparve la luce di una candela e lei vide l’uomo, anzi l’Angelo, che aveva di fronte e rimase senza fiato. Dalla schiena sporgevano ali nere come la pece. No, non è possibile, sto ancora sognando, pensò mentre ricordava l’Angelo che la inseguiva in quella casa antica. I suoi occhi erano blu, ma la intimorivano le iridi cerchiate di rosso. «Chi sei?» gli chiese, tremando sempre più forte. «Hai freddo e sei sotto shock, Zenobia. Lasciami riscaldare la stanza.» Gli bastò sollevare una mano e una fiamma luminosa venne fuori dal camino lì accanto, ma lei era troppo spaventata anche per avere freddo. Aprì la bocca per parlare, ma non riuscì a pronunciare altre parole. L’Angelo le si avvicinò sul grande letto a baldacchino, lei sgranò gli occhi e si schiacciò contro il muro. «Ho fatto tutto ciò che potevo per rendere confortevole la stanza. Spero ti piaccia, Zeno. Era moltissimo tempo che non mi preoccupavo di rendere la nostra isola confortevole per qualcuno.» «Perché non ricordo nulla? Non può essere vero.» Lui sospirò e si sedette sul letto, con una tristezza che pervadeva la camera e qualcos’altro, uno struggimento interno a cui non dava voce. Lei aveva paura e nello stesso tempo sentiva il bisogno urgente di toccare le ali. Che strano pensiero. Perché mai le voleva toccare? E perché lui le sembrava così familiare? La guardava da sopra la spalla con occhi stanchi ma bellissimi. «Vieni con me, Zenobia. Copriti bene con la vestaglia perché qui dove siamo fa molto freddo. Ho un regalo per te.» Le tese la mano e lei osservò lo sconosciuto e quel gesto apparentemente innocente. Non riusciva a ricordare niente, ma quella creatura era un Angelo, giusto? Non le avrebbe fatto del male, vero? Con riluttanza gli scivolò accanto e fece un respiro profondo prima di toccargli la mano. La scossa che le attraversò il palmo la fece allontanare di scatto e gridare.
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