«Cos’era?»
Per la prima volta da quando aveva aperto gli occhi, l’Angelo accennò un sorriso. «Quello, Zenobia, è il tuo speciale privilegio, e anche il mio. Ora, ti prego, vieni con me.»
Esaminò il palmo e non vide alcun segno, così gli prese la mano e questa volta la scossa fu meno intensa e le fece soltanto aggrottare le sopracciglia. Quelle scosse le ricordavano qualcosa.
«Shh, amelserru. Ti mostrerò i ricordi di cui hai bisogno. E quando troveremo la tua mamma, Myrrine, e tua sorella, Zenovia, saremo di nuovo una famiglia. Sei parte di un intero e io sistemerò tutto. Sarà come se non fosse mai cambiato niente.»
Okay, forse era pazzo, ma non sembrava pericoloso. O forse era lei a essere pazza? Insieme ai ricordi aveva perso il senno?
Lui allargò le narici e le rivolse uno sguardo severo, poi la trascinò giù dal letto. «Non fare pensieri puerili, le tue facoltà mentali non sono diminuite. Tu sei e non sei una Mortale. Ma io so come fare. Ho solo bisogno di tempo. Il tempo di trovare Timetrius e farti avere la tua forza.»
Adesso lei era tranquilla e gli camminava accanto in silenzio, così vicina da sentire le sue ali contro la schiena. Lui le teneva la mano, non come un amante, ma come un genitore con la figlia. Senza intrecciare le dita. La sua bellezza era straordinaria, ma lei non provava nessuna attrazione. Il suo fisico era scultoreo, simile a una divinità. A quel pensiero una fitta di dolore le attraversò la testa e la fece barcollare con un gemito.
«Stai male, Zeno?» Il suo viso stupendo improvvisamente si accigliò e si rabbuiò per la paura.
«No, ho mal di testa. Da quando mi sono svegliata.»
L’angelo inclinò il capo e chiuse gli occhi per un momento. Poi le rivolse uno sguardo deciso e lei fu attraversata da una sensazione di piacere, ma il dolore non scomparve. La prese tra le braccia come se avesse cinque anni e continuò a camminare.
Per un attimo cercò di divincolarsi. «Che stai facendo?» gridò, indignata.
«Shh… papà sta curando il tuo dolore. Sei ancora una bambina.»
Il tono della voce e la strana sensazione di conforto che provava tra le sue braccia placarono un po’ lo sdegno.
Davvero lo conosceva? Davvero era suo padre? Perché la sua presenza le dava conforto, quando tutto intorno a lei era privo di senso?
Camminava rapido per i corridoi e, se non fosse stato per il dolore lancinante alla testa, le sarebbe piaciuto osservare la pietra antica che la circondava. Era una specie di castello ed era immenso, sembrava estendersi all’infinito.
Davvero si trovava in un castello antico tra le braccia di un angelo?
Ricordava una bellissima stanza da bagno con tutti i comfort di una casa moderna… quando l’aveva vista? Dov’era casa sua? Il terribile dolore alla testa si intensificò. La stanza era grande quanto il letto, nel centro c’era una fontana da cui zampillava un’acqua limpida e lungo tutte le pareti specchi incastonati nella pietra. Metà camera era occupata da un’enorme vasca quadrata, in stile greco, da cui si diffondevano vapori ed essenze aromatiche, mentre sull’altro lato c’erano docce che sarebbero bastate per una decina di persone. Dove lo aveva già visto? Si strinse alle sue braccia, gemendo.
Lui le accarezzò i capelli. «Non sono un Utu, ma ho delle medicine umane. Presto non ti farà più male.» La adagiò su una panchina di pietra riccamente scolpita e di colpo fu attraversata da un’ondata di piacere, come se stesse fluttuando nel cielo. Per un attimo il dolore sparì completamente.
«Sei stato tu?»
«Sì, figlia, io discendo da Erech. Come te.»
Erech? Utu? Di cosa stava parlando?
«Noi siamo i sognatori… possiamo viaggiare nei sogni. E siamo in grado di trasmettere emozioni, come ho appena fatto. Possiamo anche sentire intensamente le emozioni degli altri, ma io ti insegnerò a erigere muri perché tu non sia costretta a farlo se non lo desideri. Ti racconterò la tua storia più tardi. Adesso la medicina.»
Sognatori? Sentire le emozioni degli altri? Le sembrava che ci fosse un senso, quanto bastava per inviare un segnale al cervello e farla sussultare.
Lui aprì uno sportello di legno finemente intagliato con motivi geometrici, frugò un attimo e poi tirò fuori una bottiglietta di Advil. Mentre si avvicinava, nella mano si materializzò un calice rivestito d’oro e pietre preziose, e lei sgranò gli occhi, incredula. Si sarebbe messa a gridare per la gioia. Il calice misterioso sembrava contenere del vino.
Forse se avesse bevuto abbastanza vino si sarebbe addormentata e poi risvegliata a casa sua, ovunque si trovasse?
«Non bere troppo vino, Zenobia. O il mal di testa peggiorerà, anche se questo è il meglio che abbiamo a disposizione in questo mondo. Ecco.» Aprì il palmo e mostrò due piccole capsule verdi.
Lei le prese e le mando giù con un po’ di quel vino delizioso.
Gli occhi di lui erano pieni di aspettativa. «Va meglio adesso?» chiese, serio.
Lei cercò di non ridere, ma le sfuggì un sorriso. «Non ancora, non agisce così velocemente. Comunque, qualunque cosa tu mi abbia fatto toccandomi, mi hai aiutato molto. Grazie.»
L’angelo si illuminò per la soddisfazione. «Continuerò a trasferirti energia fin quando sarà necessario. Sono capace di inviarti ondate di felicità per farti dimenticare il dolore, ma non sono un Utu, un vero guaritore, mi dispiace.» I suoi occhi si allontanarono per un attimo e lei si rattristò così profondamente che le vennero le lacrime agli occhi. L’essere lo notò e scosse la testa. «Riesci a camminare?»
Lei annuì e lentamente si alzò, il dolore era diminuito di parecchio.
«Bene.» Le prese una mano e lei strinse fermamente il calice nell’altra.
In poco tempo uscirono dal corridoio ed entrarono in una stanza molto ampia, più grande di qualunque chiesa lei avesse mai visto. In ogni caso, quando cercò di ricordare quale fosse la chiesa più grande che conosceva, il dolore tornò ad aumentare.
Smettila di fare confronti con cose che non riesci a ricordare.
Quando si fu ripresa, aprì gli occhi e colse l’enormità dello spazio circostante. Tutt’intorno alla stanza c’erano colonne bianche che salivano dal pavimento al soffitto, senza dubbio di origine greca, e gigantesche vetrate a sesto acuto occupavano l’intera parete di fondo. Fuori, nella luce della luna, si intravedevano le montagne e un grande terrazzo che avrebbe potuto ospitare centinaia di persone. Cadeva una neve leggera che sembrava danzare nel buio.
A destra c’era un camino ricavato dalla pietra, le cui fiamme quasi lambivano l’immenso soffitto. Intricati disegni colorati decoravano il pavimento, simili ai motivi intagliati nel legno della stanza da bagno, ma su piastrelle dalle tinte vivaci. Le figure geometriche si incontravano alle giunture, perfettamente simmetriche. La seta bianca che scendeva dalle colonne fluttuava leggermente, mossa da una brezza invisibile. Era una stanza enorme e bellissima.
«Tutto questo è…» Non riuscì nemmeno a finire la frase. Le parole non erano in grado di esprimere tanta bellezza. Le sembrava di camminare in uno dei libri fantasy che tanto amava leggere.
«Casa», terminò l’Angelo al posto suo.
Lei lo guardò, non riusciva a liberarsi dalla sensazione che quella non fosse casa, ma quello sfarzo le era familiare. «Non so che dire. Ti prego, tu sostieni di essere mio padre, ma io non ricordo niente. Solo frammenti di sogni in cui ti ho visto. Qual è il tuo nome?»
La guardò con gli occhi cristallini colmi di curiosità. «Zaqar. Una volta ero conosciuto con il nome di Zaqar.»
Poi l’atmosfera si fece cupa e lei ebbe l’istinto di raggiungerlo e confortarlo. Davvero poteva essere suo padre? Non aveva senso che non ricordasse niente della sua vita, pur ricordando altre cose, per esempio cosa fosse l’Advil, e di sicuro sapeva di non appartenere a un’epoca antecedente a cellulari e bagni con lo sciacquone. Dio, cos’era successo? E poi gli Angeli non avevano sesso, giusto? La Bibbia non li definiva asessuati? «Zaqar! Cosa mi è capitato? Come faccio a essere tua figlia se tu sei un Angelo?»
I suoi occhi si accesero di rabbia. «È successo qualcosa che non accadrà mai più, Zenobia. Sei stata seviziata da un Mortale. Ora è morto ma, se non lo fosse, lo porterei qui per ucciderlo mille volte prima di spedirlo all’Inferno.» I suoi occhi blu brillavano insieme all’anello rosso che li cerchiava. Fece un respiro profondo e si calmò, ma lei era terrorizzata da lui e dalle sue parole. «Ora sei al sicuro, amelserru. La nostra casa sarà dove desideri, purché vengano alleviate le tue preoccupazioni e tu ti senta al sicuro. Saremo felici e non appena Timetrius sarà arrivata, tornerai in possesso dei tuoi doni. E dei tuoi ricordi. Quelli della tua vera vita. L’unica che conta.»
Lei vide i suoi occhi oscurarsi. Di una profonda tristezza, o rimorso. Avrebbe voluto piangere per lui. Ma, aspetta, un Mortale? Morto?
«Non preoccuparti, era un essere privo di morale. Non meritava di respirare. Mi dispiace soltanto di non essere stato io a spedirlo all’Inferno, il posto a cui appartiene. Adesso è lì che si trova, a fare da spuntino a un bel po’ di Demoni che lo masticheranno fino alla fine dei giorni. Piano piano.» Per la prima volta una risata illuminò i suoi occhi. Lei fu percorsa da un brivido. «Vieni qui, dolce Zenobia, ho una sorpresa per te.»
Lei esitò e l’angelo la spinse delicatamente alla sua sinistra. In una nicchia c’era uno studio d’arte, anche questo con gigantesche vetrate, alle pareti e sul soffitto. La stanza era riscaldata da un grande camino, ma si aveva l’impressione di stare all’aperto. A lei sembrò quasi di poter raggiungere le stelle. «Sono un’artista?» chiese timorosa, e provò una nuova fitta di dolore lancinante alla testa.
«Forse. Ma pensa che questa camera è tua e puoi usarla per creare ciò che desideri. Qui io non ti disturberò.»
Lei accennò un sorriso. Guardò il cavalletto e si chiese se non fosse una pittrice. Provava il desiderio di usare cavalletto e pennelli, e altri strumenti che non sapeva identificare. Non era nemmeno certa di saper dipingere, ma di sicuro quella creatura si era data parecchio da fare per procurarle uno spazio creativo.
«Mi parlerai della persona che mi ha fatto del male? Io non riesco a ricordare niente.»
«No!» ruggì l’angelo, e lei si ritrasse, spaventata dalla furia nei suoi occhi.
L’angelo fece un respiro profondo e riacquistò la calma. «Quel passato non conta più», sussurrò. «Hai bisogno che la tua vita vada avanti. Non ti farò riavere quei ricordi, non servono al tuo cuore. Presto ti ricorderai di Zenobia e avrai ciò che io non posso darti: il tuo dono di nascita.»
Lei si strinse le braccia al petto. Dunque era stata derubata dei suoi ricordi? L’angelo non le avrebbe più restituito la sua vita precedente? Vide l’estrema determinazione nel suo sguardo e trovò le risposte che cercava. No, non li avrebbe mai più riavuti indietro. Con gli occhi lucidi guardò lontano e prese un sorso di quel vino dolce.
«Scusami se ho gridato, amelserru. Quei ricordi non ti servono più. Ora sei sotto la mia protezione, come avresti dovuto essere sempre. Sei sangue del mio sangue, e il solo legame rimasto con la mia Predestinata. Capirai che è questa la scelta migliore. Non ne hai bisogno, figlia mia. Non ti serve conoscere altro che il tuo vero passato, in cui eri una regina… la nostra vita ad Atene, a Roma, in Grecia. Quando riavrai i tuoi ricordi, il mal di testa ti abbandonerà. Sei la figlia di una creatura potente ed è questa la sola vita che conta. Stavolta posso darti molto di più. No. Non ricorderai quei pochi, irrilevanti, decenni… io ti restituirò i secoli. Zeno, tu hai regnato per centinaia di anni. Non sei un’Immortale, ma non sei nemmeno una semplice Mortale. Non so quanto avresti resistito senza invecchiare, perché arrivò il fuoco e…» L’Angelo ruggì e scosse la testa. «No, quei ricordi dolorosi non torneranno. Tu sei mia figlia, la Regina.»
Lo guardò, stupita. Non riusciva a comprendere le sue parole. «Quindi, sono tua prigioniera e tu hai rubato i miei ricordi. Non è forse contro le regole di Dio?»
Le rispose con un sorriso beffardo sulle labbra, «Io non ho regole, perché Dio mi ha abbandonato, e tu non sei prigioniera. Sei mia figlia e ho tutto il diritto di occuparmi di te. Nessuno può entrare in casa nostra. Qui sei al sicuro, Zenobia. Sei al sicuro e libera dagli incubi che ti avrebbero angosciato per il resto dei tuoi giorni. Non li farò tornare per vederti soffrire. Ti darò qualcosa di più grande, vedrai.»
«E se li rivolessi indietro?»
«Non li riavrai. Ti darò tutto ciò che desideri, tranne quelli. Ora smettila di fare la bambina capricciosa e porta rispetto a tuo padre.» Aggrottò la fronte e scrutò i suoi occhi in cerca di qualcosa, poi il suo volto si fece imperscrutabile. «Mi sei mancata così tanto, angelo mio. Non ripeteremo più questa discussione. Presto le cose torneranno a posto, te lo prometto.»
Lei sospirò e prese un altro sorso di vino. Davvero era meglio non ricordare? La sua vita di prima era così terribile? Prima che il dolore la investisse di nuovo, si sentì attraversare da un’onda di piacere. Guardò la creatura che aveva davanti. I suoi occhi erano dolci e amorevoli e, per qualche ragione, nonostante la paura dell’ignoto, con lui si sentiva al sicuro.
«Ora ceniamo, piccola. Devi essere affamata, dopo tutto quello che hai passato. Poi riposerai e domani esploreremo i giardini e la tua nuova casa. Qui sulla montagna fa freddo. Di sotto ho creato per te un paradiso in cui giocare. Ti divertirai molto.»
Lei annuì con lo stomaco che brontolava e lo seguì in una sala da pranzo altrettanto sfarzosa. «Nessuno sentirà la mia mancanza, lì da dove provengo?» chiese con tranquillità.
«No, nessuno di importante. Ora mangia, mia piccola Zeno. Man mano che starai qui, capirai sempre meglio. Quando sarai pronta, ti mostrerò le nostre case nel mondo dei Mortali. Sono certo che ti piaceranno molto.»
«Quanto impiegherò a capire? Scusami, ma è così difficile sedere qui senza sapere niente di me stessa.»
Zaqar le accarezzò dolcemente una guancia. «Il fluire del tempo è molto diverso qui. A volte giorni sulla Terra qui sono solo ore… altre volte è il contrario. Il tempo è un elemento proprio del mondo dei Mortali. In Paradiso non si misura nel modo che conosci. Presto incontreremo Timetrius e ti prometto che lei guarirà la tua testa e placherà i tuoi dubbi interiori. Vieni qui e guarda nello specchio con me, bambina mia.»
Lei si girò verso un grande specchio sulla parete. L’angelo era molto più alto di lei, ma la somiglianza era evidente. Il colore delle iridi era leggermente diverso, ma i capelli, la forma degli occhi, gli zigomi pronunciati e anche le labbra piene erano molto simili ai suoi. Sembrava sua figlia. Mentre faceva queste considerazioni, lui le sorrise, annuendo.
«C’è anche questo.» Sollevò i ricci ed esibì un segno a forma di stella dietro l’orecchio destro. Sembrava un tatuaggio, ma qualcosa le diceva che non lo era. Girò la testa e sollevò anche lei i capelli. Conosceva bene il suo segno di nascita. Come facesse a ricordarlo lo ignorava. Ma era lì, sotto i capelli, dietro l’orecchio. Non era molto visibile, a meno che non lo stessi cercando. Com’era possibile non ricordare nulla, neppure di se stessa, ma conoscere bene certi dettagli? Zaqar le diede un bacio sulla guancia, richiamandola dai suoi pensieri angosciosi e facendola sedere.
«Figlia mia, basta preoccupazioni per oggi. Ti prego, mangia, so che sei affamata. Lo sento.»
Lei annuì e guardò il grande tavolo. Ancora una volta, le grandi vetrate e il legno finemente intagliato la fecero sentire protagonista di una fiaba.
Zaqar sollevò un polso e di colpo la tavola si riempì di cibo. Molto più di quello che avrebbero potuto mangiare in una volta sola. Del pesce condito con una salsa bianca alle erbe si materializzò accanto a lei e le fece venire l’acquolina in bocca. Comparvero insalata verde, frutta e pane caldo, un decanter contenente lo stesso vino che aveva nel calice e dei bicchieri d’acqua.
Okay, stava ancora sognando, oppure era completamente impazzita. In ogni caso avrebbe mangiato. Se era un sogno, non avrebbe dovuto avere fame davvero, ma di sicuro il suo stomaco stava brontolando. Forse lui le aveva tatuato la stella mentre dormiva, per ingannarla? Sospirò e si rassegnò a servirsi il cibo nel piatto.
Allora era impazzita? Sì.