CAPITOLO UNO – LACUNA
CAPITOLO UNO – LACUNA
Nazafareen sollevò il cappuccio del mantello, sistemandosi erranti ciocche di capelli castano chiaro dietro le orecchie. Aria fresca, profumata di pino e abete rosso, strisciava attraverso la fessura della porta. Aspettò per sei lunghi battiti del cuore. Nella notte, nulla si muoveva. Sapeva che Darius sarebbe stato occupato nel suo laboratorio. Più in là, le sentinelle pattugliavano il confine con i Valkirin, ma con un po’ di attenzione sarebbe riuscita a evitarle. Il loro compito non era quello di impedire a qualcuno di andarsene.
Scivolò nell’ombra degli alberi. Artemide, la Luna della Cacciatrice, si trovava nel punto più lontano della sua lunga orbita ellittica, così distante da sembrare soltanto un’altra stella nei cieli d’inchiostro. Selene si nascondeva dietro le montagne a nord. Solo la bianca e fredda Ecate sbirciava attraverso il frondoso baldacchino sovrastante, ma era la più piccola delle tre lune di Nocturne e proiettava solo un lieve barlume.
Nazafareen non era in grado di vedere nell’oscurità come i daeva, che erano nati nella notte eterna. Era una figlia del sole, anche se adesso neanche se ne ricordava. Così si fece strada con cautela, i morbidi stivali di pelle di coniglio silenziosi sul tappeto di aghi di pino. La luce del cristallo lumen alla sua finestra si affievolì fino a diventare una punta di spillo, poi svanì del tutto. Si sentiva piccola e sola nel bosco buio, ma anche beatamente libera. Aveva lasciato il recinto dei Dessarian soltanto due volte da quando viveva tra i daeva, e in entrambe le occasioni non c’erano state conseguenze. Non l’avrebbero mai lasciata vagare da sola. La sua stessa presenza era un segreto da custodire gelosamente.
Una volta libera dall’ultima fila di case, si rilassò un po’. La foresta era rada e aperta, con un po’ di sottobosco a ostruirle il passaggio. Superò gruppi di alberi di bonewood – da cui i daeva ricavavano armature – e querce, costeggiando stagni poco profondi pieni di rane gracidanti, che tacquero a quella presenza aliena. Proseguì lungo lo stesso percorso che aveva intrapreso l’ultima volta, seguendo una risonanza quasi troppo debole per essere rilevata, come un frammento di musica portata dal vento.
Si inerpicò su una salita. La foresta si diradò ulteriormente fino a diventare un prato, e Nazafareen vide Ecate, piena per tre quarti, che fluttuava come una moneta d’argento sopra le montagne lontane. Nonostante l’irritazione causata dalla prigionia, aveva imparato ad amare il modo in cui il profondo crepuscolo ammorbidiva i bordi delle cose come un mantello di velluto. La luminosità delle stelle e la sottile colorazione delle lune.
La grande foresta dei Danai non aveva mai conosciuto il tocco dell’estate o dell’inverno, della primavera o dell’autunno, ma il passaggio delle stagioni poteva essere seguito dai viaggi di Artemide la Cacciatrice. La sua orbita impiegava un intero anno per compiersi ma, quando tornava, a quanto pareva la sua luce era così abbagliante da far sembrare che fosse giorno, un giorno solare. Le maree salivano, coprendo la terra per leghe. Nazafareen sperava di assistere a quel fenomeno. Darius le aveva spiegato cosa fosse un oceano, ma lei trovava ancora difficile immaginare così tanta acqua.
Attraversò il prato e scese in una valle boscosa. Alla fine, vide uno sfarfallio verdastro tra gli alberi davanti a lei. Rallentò mentre cominciava ad avvertire la pelle d’oca.
Aveva raggiunto un’altra specie di confine.
Il cancello del Dominio attendeva a dieci passi di distanza. Sembrava una porta rettangolare senza cornice: un semplice buco luminoso nella notte. La superficie scintillava come acqua corrente.
Nazafareen si avvicinò di un passo. Quindi di un altro ancora.
Due mesi prima, Darius l’aveva portata tra le sue braccia attraverso il cancello, quasi uccisa dal suo stesso potere. Distruttore, l’avevano chiamata. Una mortale con sangue daeva e l’abilità di annientare la magia. Aveva attinto troppo potere.
Un lago. Un uomo dagli occhi verdi con una cicatrice e una malvagia malattia dentro di sé. Le chiome degli alberi che bruciano come torce.
Ricordava vagamente una battaglia. Il suo legame con Darius che tornava in vita e veniva soffocato di nuovo mentre attraversavano il portale per Nocturne. Era per quel motivo che i daeva la stavano nascondendo. Perché quell’uomo dagli occhi verdi era un Valkirin, il clan che viveva sulle montagne, e se avesse mai scoperto che lei respirava ancora…
Nazafareen fissò il cancello con una fascinazione morbosa. Il suo mondo – il suo passato – giaceva dall’altra parte, ma lei non ne aveva memoria. Darius le aveva raccontato che aveva infranto un sigillo contenente un sortilegio di oblio. La risacca le aveva ripulito la mente.
Voglio sapere chi ero. Chi sono. Ne ho tutto il diritto.
Sospirò, massaggiandosi distrattamente il moncherino del braccio destro. Venire lì era stato un impulso stupido. Fuggire attraverso il portale non le avrebbe restituito ciò che aveva perso. La magia aveva cancellato il suo passato e solo la magia avrebbe potuto ripristinarlo.
Darius sembrava pensare che la sua condizione fosse irreversibile, ma Nazafareen si rifiutava di accettarlo. Qualcuno, da qualche parte, doveva sapere qualcosa e lei aveva tutta l’intenzione di trovare quel qualcuno. Peccato che i daeva non l’avrebbero lasciata andare. E una parte di lei non desiderava andarsene. Non senza Darius.
Si fermò davanti al cancello mentre Ecate tramontava. La notte lunare era quasi finita. Presto sarebbe apparsa Selene, la sua faccia gialla e luminosa ad annunciare l’alba del giorno lunare. Era il momento di tornare o avrebbero scoperto la sua assenza. Riattraversò gli alberi, la leggera luce sempre più fioca. Stava giungendo la vera notte, il breve periodo in cui nessuna delle tre lune era visibile. La durata variava di giorno in giorno. I daeva la chiamavano la lacuna e poteva durare da pochi secondi a un’ora o persino di più.
Nazafareen scandagliò il cielo. Si era diffuso un sottile velo di nuvole. Altro che luce delle stelle, pensò. Speriamo sia breve, stasera. Si strinse nel mantello e tornò sui suoi passi attraverso la valle, muovendosi alla massima rapidità con cui osasse procedere.
Si fermò a un suono sommesso dietro di lei, come di una brezza che facesse frusciare le foglie, solo che non c’era alcun vento. Desiderò di aver portato il cristallo lumen. In quei boschi vivevano degli animali. Perlopiù si trattava di bestie di piccole dimensioni, ma il padre di Darius, Victor, aveva visto dei lupi vicino alle montagne. La sua mano cadde sul coltello alla cintura.
Poco più avanti brillava uno degli stagni con le rane. Ecate affondò sotto il bordo del cielo. La foresta sembrò prendere un’ultima, persistente boccata di impazienza. Nazafareen intravide un gufo che planava da un ramo all’altro. E poi discese la lacuna, oscura come il fondo del mare.
Era sempre stata al sicuro in casa con il suo cristallo lumen, quando calava la notte vera. A volte Darius la raggiungeva e insieme si dedicavano a un gioco da tavolo con piccoli animaletti di legno. I pezzi avevano corna ricurve e code appuntite e diversi poteri magici. Tutti erano abilmente scolpiti nei minimi dettagli. Di solito era lei a vincere, anche se spesso imbrogliava quando Darius era distratto. Una vittoria insignificante, ma comunque dolce.
Alzò lo sguardo, sperando che le nuvole si diradassero.
Solo un po’ di luce stellare a guidarmi…
Il secco fruscio tornò di nuovo, dietro di lei, all’altezza del suolo. Si muoveva velocemente.
Prima che potesse sbattere le palpebre, grosse spirali di muscoli squamosi la avvolsero in una presa ferrea. Nazafareen grugnì, cercando di afferrare il pugnale. Le dita sfiorarono l’elsa troppo tardi. La creatura strisciò più in alto, bloccandole le braccia. Nazafareen lottò per riprendere fiato contro il peso schiacciante sul petto. Cadde sulla riva fangosa e il coltello le sfuggì di mano. L’acqua fredda si chiuse sulla sua testa.
Darius l’aveva avvertita riguardo alla foresta. Nazafareen aveva la sensazione che lui sapesse dei suoi occasionali vagabondaggi. Non ne aveva parlato direttamente né le aveva chiesto di non farlo più. Forse sapeva che aveva bisogno di andarsene, di tanto in tanto. Che sarebbe impazzita se non lo avesse fatto.
A proposito, ci sono i serpenti, le aveva detto.
Ovviamente, aveva trascurato di menzionare quanto maledettamente grandi fossero.
Affondarono nel fondo limaccioso. Nazafareen inghiottì il panico e cercò il Nesso, quel luogo di nulla e tutto in cui si poteva raggiungere la magia elementale. Non era facile farlo mentre veniva strangolata, ma sapeva che era la sua ultima speranza.
Si allungò verso la terra e si concentrò sulla sinuosa colonna vertebrale del serpente. Darius sarebbe stato in grado di spezzarla in un istante. Cercò di fare la stessa cosa, con bolle d’aria che le sfuggivano dalle labbra – l’ultima aria che avrebbe mai assaggiato – ma la terra era l’elemento più pesante da utilizzare e lei aveva sempre ottenuto risultati terribili. Una volta, come lezione, le aveva chiesto di spostare granelli di sabbia da un formicaio all’altro. Le formiche avevano svolto lo stesso compito molto più velocemente.
Con la coda dell’occhio vide un luccichio.
La fragile luce lunare trafiggeva l’acqua, toccando… qualcosa.
Il suo pugnale?
Con il sangue che le martellava nelle tempie, Nazafareen raggiunse l’acqua e la sentì muoversi debolmente in risposta.
Vieni, la esortò. Vieni!
Una debole corrente sollevò il coltello, portandolo nella sua mano aperta. Non appena l’elsa toccò il suo palmo, Nazafareen lacerò la fredda carne del rettile, spingendo la lama in profondità. Per un terribile momento, il serpente strinse più forte. Lei rigirò il pugnale. E poi le spire che la avvolgevano si allentarono quel tanto che bastava perché liberasse il braccio. Un secondo dopo, affondò la lama nell’occhio nero e piatto del rettile. L’animale sprofondò.
Nazafareen si trascinò fuori dallo stagno e si sdraiò sulla riva, il petto ansimante. Dopo lunghi minuti, le rane ripresero il loro gracidio. Rise piano, anche se faceva male. I Valkirin non avevano alcun bisogno di venirla a cercare. Stava svolgendo un ottimo lavoro a uccidersi da sola. Se la lacuna fosse durata qualche secondo in più…
Rotolò su un fianco, sussultando. Poi si alzò e tornò verso House Dessarian.
Selene era sorta a occidente quando vennero alla luce i primi edifici. Le pareti erano di viva betulla bianca, i tronchi e i rami si intersecavano come dita intrecciate a formare un tetto verde. Ogni sesto albero cresceva storto rispetto al vicino dalla metà del tronco, dando forma una finestra ovale. Le abitazioni di House Dessarian non erano disposte su file ordinate, nel modo in cui, come le avevano detto, i mortali costruivano le loro città. Erano sparse, a malapena a distanza di un grido l’una dall’altra. La maggior parte dei daeva dormiva ancora e nessuno la vide scivolare nell’ombra come un gatto bagnato.
Alla fine raggiunse la casa che le avevano riservato, più piccola delle altre, ma abbastanza accogliente.
Aprì la porta… e trovò Darius seduto al tavolo della cucina.
I daeva somigliavano molto ai mortali, anche se avevano un tocco… selvaggio. Non c’erano differenze ovvie. Era più per come si muovevano. Agili e aggraziati a riposo, troppo rapidi per l’occhio umano quando volevano. Erano più forti e guarivano più velocemente. Potevano utilizzare terra, aria e acqua. Ma avevano una debolezza, una debolezza fatale.
Il fuoco.
Ecco perché il quarto elemento a Nocturne era bandito. Ecco perché i daeva dimoravano nel lato oscuro del mondo.
Nazafareen mascherò la sua sorpresa nel trovarlo lì. Darius teneva corti i suoi mossi capelli castani, ciò che restava dei suoi trascorsi da soldato. Come sempre, Nazafareen trovò sconcertante l’intensità dei suoi scintillanti occhi azzurri.
Darius inarcò un sopracciglio nel vedere il suo mantello fradicio. «Dove sei stata?» domandò con voce piatta.
«Avevo voglia di fare una nuotata», disse lei, sfidandolo a contraddirla.
«Tutta vestita?»
«Faceva un po’ troppo freddo per i miei gusti.»
Darius scoppiò a ridere. «Sei una pessima bugiarda.» La sua espressione si fece seria. «Non è sicuro, Nazafareen. Lo sai. Almeno la prossima volta portami con te.»
Nazafareen appese il mantello a un piolo e si sedette di fronte a lui. «Mi dispiace, Darius, ma qui mi sento una prigioniera. So che è colpa mia. I Danai sono stati gentili ad accogliermi. Ma io… volevo vedere il portale.»
Il daeva si sporse in avanti, gli occhi socchiusi. «Sei andata fino al cancello? Sei impazzita?»
«Volevo vederlo e basta. Tutto qui.»
Darius sospirò. «Per vederlo. Perché?»
«Non lo so.» Si sentì improvvisamente arrabbiata, ma non con lui. Con il mondo intero. «Curiosità. Non voglio parlarne.»
Darius distolse lo sguardo.
Ora lo hai ferito.
«Cos’è quello?» domandò Nazafareen in un tono più dolce, indicando un oggetto avvolto in un panno sul tavolo.
«Un regalo. Ero venuto per quello.»
«Posso vederlo?»
«Ovvio.»
Sentiva che lui la stava osservando mentre si sforzava di disfare il filo con una mano sola. Darius la conosceva troppo bene per offrirle aiuto. Alla fine, Nazafareen si ricordò del coltello e, tenendo il fagotto in posizione con il moncherino, lo lacerò. Il tessuto cadde.
«Oh.» Lo guardò con gioia. «Darius, è bellissimo.»
Lui sorrise. «Si chiama astrolabio. L’ho realizzato in legno di tasso.»
Nazafareen si rigirò la sfera di legno tra le mani. Tre lune, ciascuna di dimensioni e distanze diverse, ruotavano attorno a essa su cerchi collegati a un asse polare.
«Ti mostrerò come spostarle per farle corrispondere al cielo», disse Darius con un sorriso caldo. «Così potrai seguire il ritorno di Artemide.»
Nazafareen ricambiò il sorriso. C’era qualcosa di severo e inflessibile in lui che sembrava ammorbidirsi soltanto quando erano insieme, da soli. Giocherellò per un momento con l’astrolabio, facendo scorrere le lune. Era una cosa geniale, e realizzata magistralmente. L’abilità di Darius con il legno la stupiva, considerando da quanto poco tempo erano lì.
«Grazie», disse lei solennemente. «È un regalo meraviglioso. Ma io non ho niente da donarti.»
Lo sguardo del daeva rimase fisso su di lei. «Lascia che ti insegni. Mi fa piacere.»
«Ci abbiamo già provato…»
«Ci vuole tempo. E tu sei testarda.»
«Io?» Nazafareen rise. «Al tuo confronto una roccia è malleabile.» Pensò al serpente. «Ma forse non mi farà male.»
In verità, desiderava con tutta se stessa poter usare il potere elementale come i daeva. Il clan dei Danai – quello di Darius – era particolarmente forte con la terra. Si prendevano cura delle uniche foreste del loro mondo. I mastri artigiani di House Dessarian e delle altre sei casate realizzavano mobili e armi e altri articoli per il commercio, e si facevano pagare bene per i loro prodotti.
«Allora iniziamo con un talismano semplice. Spegni il cristallo lumen e poi accendilo di nuovo.»
Trascorsero le ore successive a esercitarsi con l’aria, che Nazafareen trovava l’elemento più facile con cui lavorare. Era diventata più abile nel trovare il Nesso e riusciva ad avvertire i torrenti di potere turbinare intorno a lei. La difficoltà era nel fargli fare ciò che voleva. Riusciva a manipolare il cristallo lumen, ma ogni tentativo di spostare oggetti – anche piccoli, come i loro pezzi da gioco – la faceva imprecare tra i denti serrati. Darius, come sempre, era paziente, anche se nel suo modo tranquillo sapeva essere implacabile. Quando finalmente Nazafareen rovesciò l’intera tavola senza utilizzare il potere, lui scoppiò a ridere e fece scivolare la sedia all’indietro.
«Sei stanca», disse, alzandosi. «E io ho del lavoro da fare.» Si fermò sulla soglia. «Ma voglio che mi prometta che non tornerai al portale da sola.»
Nazafareen lo fissò. Avrebbe voluto potersi fidare di lui. Ma i segreti che Darius custodiva erano diventati una voragine tra loro, che si allargava di giorno in giorno, anche se lui si rifiutava di accorgersene. Di notare tutte le frustrazioni che le ribollivano dentro.
«Allora raccontami tutto.» Sollevò il moncherino. «Dimmi come ho perso questa.»
Lui distolse lo sguardo. «L’ho già fatto. Eravamo soldati…»
«Già, già. Conosco questa storiella a memoria. Le tue parole cambiano di poco quando me la racconti. Ma sembra falsa. Qual era lo scopo del legame? Chi ha forgiato i bracciali e perché? Com’è possibile che tu sia nato nel mio mondo se i tuoi genitori sono qui?»
Per un momento, parve sul punto di parlare. Gli occhi di Darius cercarono i suoi, ma poi una porta sembrò chiudersi. «Non importa», disse con quieta disperazione. «Davvero, non importa, Nazafareen.»
Lei incrociò le braccia. «Magari pensi di proteggermi, ma non sapere è peggio. Ho fatto qualcosa di male? Ero una specie di mostro?»
«No.» Darius le diede le spalle. «Non tu.»