Capitolo 2-1

2005 Parole
Capitolo 2 Leona Il finestrino dell’autobus della Greyhound era caldo e appiccicoso, o forse lo era la mia faccia. Il bambino nella fila dietro di me aveva smesso di piagnucolare da una decina di minuti, finalmente... dopo quasi due ore. Staccai la guancia dal vetro, sentendomi stanca e senza forze. Dopo essere rimasta strizzata in quel sedile imbottito tanto a lungo, non vedevo l’ora di scendere. I sobborghi eleganti di Las Vegas sfrecciarono davanti ai miei occhi, con i giardini immacolati ben annaffiati dagli irrigatori; la dimostrazione definitiva di cosa significava essere ricchi in un luogo circondato dal deserto. Elaborate decorazioni natalizie adornavano i porticati e le facciate delle case, dipinte di recente. Nonostante la bellezza, non sarebbe stata quella la mia fermata. L’autobus arrancò, con il pavimento che vibrava sotto i miei piedi scalzi, finché alla fine arrivò in quella parte di città dove nessun turista osava mai avventurarsi. Lì attorno, i buffet all you can eat costavano solo nove dollari e novantanove, anziché cinquantanove, ma io non potevo permettermi nessuno dei due. Non che m’importasse, ero cresciuta in zone simili: a Phoenix, Houston, Dallas, Austin e in molti più posti di quanto ci tenessi a ricordare. Mi infilai le infradito e mi misi lo zaino sulla spalla, pronta a lasciare l’autobus. Come d’abitudine, cercai nella tasca un cellulare che non era più lì. Mia madre l’aveva venduto per l’ultima dose di metanfetamina. I venti dollari che aveva ricevuto le erano stati dati senza dubbio per compassione. Aspettai che la maggior parte dei passeggeri scendesse dall’autobus, prima di fare altrettanto; poi, in piedi sotto al sole, espirai a lungo. L’aria era più secca rispetto a Austin e c’erano alcuni gradi in meno, ma comunque non era un freddo invernale. In qualche modo, mi sentivo già più libera, anche solo per il fatto di essere lontana da mia madre. Era la sua ultima possibilità di disintossicarsi e doveva riuscirci. E io ero una stupida a sperare che potesse farcela. «Leona?» chiese con tono incerto una voce profonda, da un punto imprecisato alla mia destra. Mi voltai, stupita. Mio padre era a pochi passi da me, con all’incirca quindici chili in più sui fianchi e meno capelli in testa. Non mi aspettavo che venisse a prendermi. Aveva promesso di farlo, ma le sue promesse, come quelle di mia madre, valevano meno della polvere sotto le mie scarpe. Forse era davvero cambiato come sosteneva. Spense velocemente la sigaretta sotto i mocassini logori. La camicia a maniche corte gli si tese sulla pancia. Aveva un’aria trasandata che mi preoccupò. Sorrisi. «L’unica e inimitabile.» Non mi sorprendeva che avesse pronunciato il mio nome con quel tono; l’ultima volta che lo avevo visto era stato nel giorno del mio quattordicesimo compleanno, cinque anni prima. Non mi era esattamente mancato lui, quanto l’idea di avere un padre, quello che lui non avrebbe mai potuto essere. Tuttavia, era bello rivederlo e, forse, avremmo potuto ricominciare da capo. Si avvicinò e mi strinse in un abbraccio imbarazzante. Gli avvolsi le braccia intorno al corpo, nonostante il fetore persistente di sudore e fumo. Era da un po’ che qualcuno non mi abbracciava. Facendo un passo indietro, mi scrutò dalla testa ai piedi. «Sei cresciuta.» I suoi occhi si soffermarono sul mio sorriso. «E i brufoli sono spariti.» Era così da tre anni. «Grazie a Dio» dissi, invece. Mio padre infilò le mani nelle tasche, come se all’improvviso fosse insicuro su cosa fare con me. «La tua chiamata mi ha sorpreso.» Mi infilai una ciocca di capelli dietro l’orecchio, non sapendo dove volesse andare a parare con quel discorso. «Tu non mi hai mai chiamata» replicai, pentendomi subito di quelle parole. Non ero venuta a Las Vegas per scodellargli in faccia le sue colpe. Papà non era mai stato un buon padre, ma ogni tanto ci aveva provato... anche se aveva sempre fallito. Lui e la mamma, a modo loro, erano entrambi incasinati. Le dipendenze di ciascuno dei due erano sempre state un ostacolo al loro preoccuparsi per me come avrebbero dovuto. Mi soppesò con lo sguardo. «Sei sicura di voler stare con me?» Il mio sorriso vacillò. Non mi voleva tra i piedi? Era dunque quello il motivo del suo essere esitante? Desiderai sul serio che me l’avesse detto prima di farmi comprare il biglietto per un autobus che mi aveva fatto attraversare metà degli Stati del Paese. Aveva detto di aver sconfitto la sua dipendenza, di avere un lavoro decente e una vita normale e io volevo credergli. «Non è che non sia felice di averti con me. Mi sei mancata» disse in fretta, troppo in fretta. Bugie. «Allora qual è il problema?» chiesi, cercando di nascondere, ma senza riuscirci, il fatto che mi avesse ferita. «Non è un buon posto per una brava ragazza come te, Leona.» Risi. «Non ho mai vissuto nelle parti buone della città» gli ricordai. «So badare a me stessa.» «No. Qui è diverso, credimi.» «Non preoccuparti. Sono brava a restare fuori dai guai.» Avevo fatto anni di pratica. Con una madre tossica che vendeva ogni cosa per la dose successiva, persino il proprio corpo, dovevi imparare ad abbassare la testa e farti gli affari tuoi. «Qualche volta sono i guai a trovare te. Qui intorno succede più spesso di quanto non immagini.» Dal modo in cui lo disse, temetti che i guai fossero degli ospiti costanti nella sua vita. Sospirai. «Onestamente, papà, ho vissuto con una madre che passava la maggior parte dei giorni intontita a causa della droga. Non ti sei mai preoccupato abbastanza da portarmi via da lei. Ora che sono cresciuta, temi che non sia in grado di vivere nella città del peccato?» Mi fissò come se stesse per aggiungere altro, ma poi afferrò il mio zaino prima che potessi stringere la presa sulla cinghia. «Hai ragione.» «E comunque rimarrò solo finché non avrò guadagnato abbastanza denaro per il college. Qui intorno ci sono locali a sufficienza dove poter guadagnare discretamente con le mance.» Sembrò sollevato che volessi lavorare. Davvero pensava che avrei vissuto sulle sue spalle? «Di posti ce ne sono anche troppi,» disse «ma sono pochi quelli che si adattano a una ragazza come te.» Scossi la testa, sorridendo: «Non preoccuparti. So come trattare gli ubriaconi.» «Non sono loro a preoccuparmi» replicò nervoso. Fabiano «Stai davvero pensando di lavorare con la Famiglia?» ansimai, mentre schivavo un calcio indirizzato alla testa. «Ti ho detto di quanto sono stati stronzi con l’Organizzazione.» Colpii il fianco di Remo con il pugno fasciato e poi tentai di dargli un calcio alle gambe; lui, invece, riuscì ad assestarmi un pugno allo stomaco. Balzai all’indietro, fuori dalla sua portata, e simulai un attacco a sinistra, calciando invece con la gamba destra. Il braccio di Remo si alzò a proteggere la testa e a parare tutta la potenza del mio calcio. Non cadde a terra. «Non voglio lavorare con loro» disse. «Né con Luca Vitiello del cazzo, né con Dante Cavallaro del cazzo. Non abbiamo bisogno di loro.» «E allora perché vuoi mandarmi a New York?» chiesi. Remo mi assestò due colpi veloci al fianco sinistro. Trattenni il respiro e gli conficcai il gomito sulla spalla. Lui sibilò e sfrecciò via, ma ce l’avevo in pugno. Il suo braccio penzolava inerte. Gli avevo dislocato la spalla: la mia mossa preferita. «È un rifiuto diretto?» chiese con una mezza battuta, senza dare a vedere quanto dolore stesse provando, in realtà. «Speraci.» A Remo piaceva rompere le cose. Non c’era niente che gli piacesse di più e, a volte, pensavo che desiderasse una mia ribellione, così da poter provare a spezzarmi, perché sarei stato la sua più grande sfida. Non avevo nessuna intenzione di dargliene la possibilità. Non che avrebbe avuto successo, in ogni caso. Mi lanciò un’occhiata e si scagliò su di me. Schivai a malapena i primi due calci e il terzo mi colpì in pieno petto. Fui sbalzato indietro nel ring e quasi persi l’equilibrio, ma riuscii a mantenermi in piedi aggrappandomi alla corda. Mi raddrizzai in fretta e alzai i pugni. «Oh, fanculo queste stronzate» sibilò Remo. Si afferrò il braccio e cercò di riposizionare la spalla. «Non posso combattere con questo cazzo di arto inutile.» Abbassai le mani. «Quindi ti arrendi?» «No» replicò. «Pareggio.» «Pareggio» concordai. Non c’erano mai stati altro che pareggi nei nostri scontri, eccetto per il primissimo anno, quando ero un ragazzino pelle e ossa che non aveva idea di come battersi. Eravamo entrambi forti, lottatori abituati al dolore, e non ci importava di vivere o morire. Se mai avessimo combattuto fino alla morte, saremmo entrambi finiti in due sacchi per cadaveri. Su questo non c’erano dubbi. Afferrai un asciugamano dal pavimento e mi detersi il sangue e il sudore dal petto e dalle braccia. Con un grugnito, Remo riuscì a riportare il braccio al suo posto. Sarebbe stato più veloce e meno doloroso se l’avessi aiutato, ma non me lo avrebbe mai lasciato fare. Per lui il dolore non significava nulla. E nemmeno per me. Gli lanciai un asciugamano pulito e Remo lo prese al volo usando il braccio che aveva appena risistemato, solo a titolo dimostrativo. Nel tentativo di asciugarsi, sparse tra i capelli neri il sangue che gli fuoriusciva da un taglio alla testa; poi, gettò l’asciugamano a terra. La cicatrice che gli partiva dalla tempia sinistra e scendeva fino alla guancia era di un rosso acceso a causa del combattimento. «Allora, perché?» chiesi, togliendomi le bende macchiate di rosso dalle dita e dal polso. «Voglio vedere come vanno le cose là. Sono curioso. Tutto qui. E mi piace conoscere i miei nemici. Sarai in grado di carpire più informazioni di chiunque altro di noi, solo guardandoli interagire. Soprattutto, voglio mandare loro un messaggio chiaro.» I suoi occhi scuri si indurirono. «Non stai pensando di giocare alla famiglia felice con le tue sorelle e diventare uno dei cagnolini di Vitiello, vero?» Inarcai un sopracciglio. Erano passati più di cinque anni e davvero aveva bisogno di chiedermi una cosa del genere? Con un balzo, scavalcai le corde del ring e atterrai sul pavimento dall’altra parte, senza quasi far rumore. «Io appartengo alla Camorra» risposi. «Quando tutti loro mi hanno abbandonato, tu mi hai accolto al tuo fianco. Mi hai reso quello che sono oggi, Remo. Ormai dovresti sapere che non puoi accusarmi di essere un traditore. Darei la vita per te e, se devo, porterò l’Organizzazione e la Famiglia con me all’inferno.» «Un giorno avrai la tua occasione» replicò. Di dare la mia vita per lui o di distruggere le altre Famiglie? «È un altro l’incarico che ho per te» aggiunse. Annuii, in attesa. Lui sostenne il mio sguardo. «Sei l’unico che può avvicinarsi ad Aria. Lei è il punto debole di Vitiello.» Rimasi impassibile. «Portala da me, Fabiano.» «Viva o morta?» Remo sorrise. «Viva. Se la uccidi, Vitiello andrà su tutte le furie, ma se abbiamo sua moglie, diventerà il nostro burattino.» Non dovevo chiedergli perché avesse interesse nel distruggere la Famiglia. Non avevamo bisogno del loro territorio e non aveva molto valore finché Dante possedeva tutto quello che c’era in mezzo. Stavamo già facendo abbastanza soldi a ovest. Remo cercava vendetta. Luca aveva commesso un errore quando aveva preso con sé il precedente Risolutore della Camorra, e aveva commesso un errore ancora più grosso quando lo aveva rispedito indietro a uccidere molti camorristi di alto livello, mentre Las Vegas non aveva un Capo forte a guidare la città. Prima di Remo, ovviamente. «Consideralo fatto» dissi. Remo piegò la testa. «Tuo padre è stato un folle del cazzo ad aver ignorato il tuo valore, ma è così che sono i padri. Il mio non mi avrebbe mai permesso di diventare Capo. È un peccato che non sia riuscito ad ammazzarlo con le mie mani.» Remo mi invidiava per quello. Avevo ancora la possibilità di uccidere mio padre, e un giorno l’avrei fatto. Erano passati anni dall’ultima volta che avevo calpestato il suolo di New York. Non mi era mai piaciuta particolarmente quella città. Non rappresentava altro che perdite per me.
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