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Yulia
Il familiare odore del gas di scarico delle automobili e di lillà mi riempie le narici, mentre attraversiamo le strade trafficate di Kiev. L’uomo che Obenko ha mandato a prendermi all’aeroporto è una persona che non avevo mai visto prima, e non parla molto, lasciandomi libera di ammirare i luoghi della città in cui ho vissuto e mi sono addestrata per cinque anni.
"Non stiamo andando all’Istituto?" chiedo al conducente, quando la vettura svolta su una strada sconosciuta.
"No" risponde l’uomo. "Ti sto portando in una casa-rifugio."
"Obenko è lì?"
Il conducente annuisce. "Ti sta aspettando."
"Perfetto." Faccio un respiro per calmarmi. Dovrei essere sollevata di essere qui; invece, mi sento tesa e ansiosa. E non solo perché ho mandato a rotoli l’organizzazione. Obenko non è molto tenero con gli insuccessi, ma il fatto che mi abbia tirata fuori dalla Colombia, invece di uccidermi, attenua la mia preoccupazione.
No, la fonte principale della mia ansia è la sensazione di vuoto dentro di me, un dolore che si acuisce ogni ora che passa, senza Lucas. Mi sento come se stessi attraversando una crisi d’astinenza—anche se questo farebbe di Lucas la mia droga, e mi rifiuto di accettarlo.
Qualunque cosa io abbia cominciato a provare per il mio rapitore, passerà. Deve passare, perché non c’è alternativa.
La storia con Lucas è finita per sempre.
"Eccoci qua" dice l’autista, fermandosi davanti a un modesto palazzo di quattro piani. È uguale a qualsiasi altro edificio in questo quartiere: vecchio e fatiscente, con l’esterno coperto da un intonaco giallastro di epoca sovietica. Il profumo dei lillà è più forte qui; viene da un parco dall’altro lato della strada. In altre circostanze, mi sarebbe piaciuta quella fragranza che associo alla primavera, ma oggi mi ricorda la giungla che mi sono lasciata alle spalle e—per riflesso, l’uomo che mi ha tenuta lì.
Il conducente lascia l’auto accanto al marciapiede e mi porta nell’edificio. Non c’è l’ascensore, e la tromba delle scale è fatiscente come l’esterno dell’edificio. Quando superiamo il primo piano, sento alcune voci e un fetore di urina e vomito.
"Chi sono quelle persone al primo piano?" chiedo, mentre ci fermiamo davanti a un appartamento al secondo piano. "Sono dei civili?"
"Sì." L’autista bussa alla porta. "Sono troppo occupati a ubriacarsi per prestarci molta attenzione."
Non ho la possibilità di fare altre domande, perché la porta si apre, e vedo un uomo con i capelli scuri. La sua fronte è piena di rughe, e delle linee di tensione delimitano la sua piccola bocca.
"Entra, Yulia" dice Vasiliy Obenko, facendo un passo indietro per farmi entrare. "Abbiamo molte cose di cui discutere."
Nel corso delle due ore successive, subisco un interrogatorio più estenuante di quello che avevo vissuto nella prigione russa. Oltre a Obenko, ci sono due agenti anziani dell’UUR, Sokov e Mateyenko. Come il mio capo, hanno una quarantina d’anni, e i loro corpi sono praticamente delle armi letali, dopo decenni di addestramento. I tre si siedono davanti a me al tavolo della cucina, e si alternano a farmi domande. Vogliono sapere tutto, dai dettagli della mia fuga alle informazioni esatte che ho dato a Lucas sull’UUR.
"Non ho ancora capito come ti ha fatta cedere" dice Obenko, quando finisco di raccontare la mia storia. "Come faceva a sapere di quell’incidente con Kirill?"
Mi brucia il viso dalla vergogna. "L’ha saputo come conseguenza di un incubo che ho avuto." E perché dopo mi sono confidata con Lucas, ma questo non glielo dico. Non voglio che il mio capo venga a sapere che aveva ragione sul mio conto—sul fatto che, al momento opportuno, io non riesca a controllare le mie emozioni.
"E in questo incubo, hai. . . hai parlato del tuo addestratore?" È Sokov che mi chiede questo, con un’espressione severa che mi fa capire che dubita della mia storia. "Di solito parli nel sonno, Yulia Borisovna?"
"No, ma quelle non erano esattamente circostanze normali." Faccio del mio meglio per non sembrare sulla difensiva. "Sono stata tenuta prigioniera e messa in situazioni che avrebbero scatenato quella reazione in me—che avrebbero scatenato quella reazione in qualsiasi donna sopravvissuta a un’aggressione."
"Quali situazioni, esattamente?" mi interrompe Mateyenko. "Non sembri essere stata particolarmente maltrattata."
Mi mordo la lingua per non rispondere in modo adirato. "Non sono stata torturata fisicamente o lasciata morire di fame, ve l’ho già detto" dico. "I metodi di interrogatorio di Kent erano più di natura psicologica. E sì, questo era in gran parte dovuto al fatto che mi trovava attraente. Da qui derivano gli elementi scatenanti."
I due agenti si scambiano delle occhiate, e Obenko aggrotta la fronte verso di me. "Quindi, ti ha violentata, e questo ha provocato i tuoi incubi?"
"Lui. . ." Mi si stringe la gola al ricordo della reazione del mio corpo nei confronti di Lucas. "È stata la situazione generale. Non l’ho gestita bene."
Gli agenti si guardano di nuovo, e poi Mateyenko dice: "Dicci di più sulla donna che ti ha aiutata a fuggire. Come hai detto che si chiamava?"
Facendo appello a tutta la mia pazienza, parlo dei miei incontri con Rosa per la terza volta. Dopodiché, Sokov mi chiede di tornare sulla mia fuga, minuto per minuto, e poi Mateyenko mi interroga sulla sicurezza della tenuta di Esguerra.
"Ascoltate" dico, dopo un’altra ora di domande non-stop: "Vi ho detto tutto quello che so. Qualunque cosa pensiate di me, la minaccia per l’agenzia è reale. L’organizzazione di Esguerra ha eliminato intere reti terroristiche, e ci stanno dando la caccia. Nel caso abbiate delle misure di emergenza, ora è il momento di metterle in atto. È giunto il momento di mettere voi e le vostre famiglie al sicuro."
Obenko mi studia un attimo, poi annuisce. "Abbiamo finito per oggi" dice, voltandosi verso i due agenti. "Yulia è stanca dopo il lungo viaggio. Ne riparleremo domani."
I due uomini se ne vanno, e io crollo sulla sedia, sentendomi ancora più vuota di prima.