Secondo Capitolo
«Ed ecco ora la mia punizione: finirò annegata nelle mie stesse lacrime.»
Cambridge, 10 ottobre 1936
«Eccolo là, il Ritardato!»
Se non urlava, non era contento. Ogni volta che ero sovrappensiero, Shay mi infliggeva il suo tono di voce seguito dal puntuale commento saccente di Reggie: «Guarda che è sordomuto, non ritardato.»
Ero già sufficientemente annoiato da Reggie, che si lagnava da giorni dell’orario dei corsi, e ora si era aggiunto anche Shay con le sue lamentele sul suo nuovo coinquilino, come se quello avesse deciso di avere una disabilità solo per fargli dispetto. E io, invece, non riuscivo a concentrarmi su nient’altro, se non il ragazzo del pub. Era uno sconosciuto e conosceva il mio nome. E il mio segreto. Un segreto che condividevamo, certo, ma era della mia vita che mi preoccupavo, non della sua. Non era la prima volta che mi infilavo in uno di quei pub per cercare compagnia. Ero consapevole di quello che facevo, come sapevo di dover cercare compagnia il più lontano possibile dal mio ambiente. Rivelare il mio nome era un rischio che non potevo permettermi di correre, ma quella sera avevo commesso un errore. E avrebbe potuto costarmi caro.
«Eccolo là» ripeté Shay.
Mi voltai con una curiosità quasi distratta. E pensai di essere sull’orlo della pazzia. Da lontano, lo vidi attraversare il prato per raggiungere l’ingresso della facoltà. Lo stesso passo elegante, i capelli più corti, ma la stessa aria da figlio di puttana. Era lui, senza dubbio.
«Quello è il tuo coinquilino? Il sordomuto?» domandai a Shay, stringendo gli occhi a fessura.
«Sì, il Ritardato.»
«Oh, è sordomuto non ritar...»
«Reggie, abbiamo capito!» lo interruppi. «Ora, per favore, taci. Shay, come hai detto che si chiama il tuo coinquilino?»
«William. William Chase.»
Sordomuto. Che animale!
Mi venne da ridere. Immaginai Shay imprecare in quella stanza perché non poteva farsi capire e quel Chase prendersi gioco di lui. Smisi di prestare attenzione a Shay e, ignorando le successive domande di Reggie, mi misi a seguire il buzzurro gentiluomo, attraversando il portico. Sembrava avere fretta ed era quasi impossibile stargli dietro con quelle sue gambe lunghe da fenicottero. Adesso sapevo chi era. Placata l’ansia che lui conoscesse il mio nome, esaurita improvvisamente la paura, mi sentii euforico.
Entrò nel bagno del piano e io aspettai che le aule si riempissero e il corridoio si svuotasse prima di fare altrettanto. Non appena aprii la porta ci scontrammo, di nuovo. Sembrava un déjà-vu.
Mi bloccai di colpo, riuscendo a stento a dirgli «ciao», ma lo feci con quella tracotanza vendicativa di chi sa di essere in vantaggio. Poi lo guardai, e un po’ morii. Il fumo del pub, le luci basse delle toilette, gli effetti dell’alcol, la bramosia del sesso, l’eccitazione per la sua pronuncia francese e l’ansia per avergli detto il mio nome, tutto ciò che quella notte mi aveva stordito non c’era più e lui era davanti a me. Lo fissavo ipnotizzato, come un bambino per la prima volta al luna park. O come un sordomuto. Lui non perse l’occasione: ricambiò il saluto, inclinando un po’ la testa e concedendomi ancora quel sorriso appena accennato. William Chase sarebbe stato in grado di stuprarmi soltanto con lo sguardo. Gli bastava un battito di ciglia per accarezzarmi tutto il corpo, come alito di vento sulla pelle bagnata.
«Oh, Louis. Hai l’aria di Alice che ha seguito il Bianconiglio ed è sorpresa di trovarsi a Wonderland» disse con una smorfia. «Magari a questo punto sarebbe opportuno presentarmi. Sono Wil...»
«William Chase, e io sono Lewis, non Louis» lo anticipai, fingendo un tono quasi annoiato.
«Louis,» ripeté, sottolineando con tono ironico la sua perseveranza nell’usare il nome sbagliato «sono stato ospite nel tuo culo, ti è permesso chiamarmi Will. E ti darei la gioia di una replica, ma in questo momento sono in ritardo per la lezione.» E, poi, nel salutarmi lo disse: «Ci vediamo in giro, my lord.»
Avevo una sensazione peggiore del momento in cui era andato via dal pub. Sapeva di me più di quanto sapessi di lui. Ancora. E di nuovo, lo avevo sottovalutato. La paura sarebbe dovuta tornare e invece la mente si era fissata su un’unica frase: “Ti darei la gioia di una replica”. E un’unica, disastrosa domanda: quando?
Cambridge, 12 ottobre 1936
«Lewis. Lewis. Cazzo, Lewis!»
Sentivo la voce di Reggie e mi guardavo intorno senza riuscire a vederlo.
Tutti i suoni erano come stretti in una bolla d’acqua e io scorgevo soltanto cielo. Ero bloccato. Schiena dentro il mare, sguardo verso l’alto, e ascoltavo ciò che il movimento dell’acqua mi concedeva. Da ragazzino lo facevo sempre, il morto a galla, a pancia in su, ed era proprio quella sensazione di semincoscienza che amavo. Solo che, quella notte, non riuscivo a uscire da quella sensazione. Udivo il rumore della voce di Reggie senza vederlo e, a un certo punto, sentii l’acqua tirarmi giù. O così credetti.
Quando mi svegliai, riprendendo fiato da quella falsa apnea, lo trovai seduto sulla sponda del letto, con le sue mani che ancora mi arpionavano le spalle. «Che diavolo hai? Mi hai spaventato.»
Avevo ancora il fiato corto: «È perché sei un cacasotto, Reggie.»
«Parli tu, che fino a un attimo fa urlavi come una ragazzina terrorizzata. Io me ne torno a letto, vedi di non farti venire un’altra crisi.»
Erano solo le cinque e venti del mattino, ma mi alzai perché quella stanza stava diventando soffocante e uscii a fumare della m*******a. Da giorni non dormivo bene, ma quella notte sapevo anche il perché: era tutta colpa di quel fottutissimo insetto nel lavandino. E di Will Chase, naturalmente.
Era accaduto nel bagno. Mi stavo lavando le mani e l’insetto era lì, nel lavandino. Lo avevo fissato pensando a come liberarmene, perché non mi sarei mai lavato i denti con quell’essere; l’unica soluzione era ucciderlo. Sarebbe stato sufficiente aprire il rubinetto. Gli era bastato un filo d’acqua e subito aveva avvertito il pericolo, muovendosi nella direzione opposta per salvarsi. Avevo aumentato il getto e l’insetto aveva provato a fuggire. Era stato in quel momento che, guardandolo, avevo provato terrore. Era in una situazione senza via d’uscita, del tutto esposto, e non aveva un piano alternativo. Ripeteva gli stessi, inutili movimenti. Come me. Se qualcuno avesse scoperto il mio segreto, non sarei stato migliore di quell’insetto. Lo avevo fissato, diviso tra la voglia di salvarlo e un pensiero del tipo: “Ormai sta morendo ed è solo un insetto.”
Poi era accaduto tutto in un istante. Un attimo prima di chiudere il rubinetto, avevo visto il flusso d’acqua aumentare e l’insetto venirne risucchiato e, mentre pensavo che avrei voluto salvarlo e mi chiedevo cosa stesse capitando, avevo sentito la sua voce.
Forte. Entusiasta. Inopportuna.
«Ciao, my lord.»
Era stato Will Chase ad aprire di più il rubinetto. Will Chase aveva fottuto il mio insetto. Pure quella soddisfazione mi aveva tolto. Sadico, pazzo, assassino.
«Cristo!» avevo esclamato.
«Non imprecare, my lord, non ti si addice.»
«E allora tu smettila di apparire all’improvviso!»
Aveva sorriso. «Non sono io che appaio all’improvviso, sei tu che sei sempre sovrappensiero, Lewis» aveva accentuato la pronuncia corretta del mio nome. «Stai per caso passeggiando nella tua Wonderland?»
Lo avevo guardato con l’odio negli occhi. «Che cosa ci fai qui?»
«Mi lavo.»
Avevo scosso la testa: «Intendevo: che cosa ci fai in questo bagno. Voi matricole dovreste usare il vostro.»
«Ma questo è più bello, più pulito e più grande.»
«Per questo non è per le matricole.»
«Ma in questo posso incontrare te.»
Il terrore si era fatto strada in me senza che potessi in alcun modo arginarlo.
Lui doveva averlo notato perché aveva aggiunto, senza scomporsi: «Non scomodarti, ho già controllato. Ci siamo solo io e te, qui. E comunque non hai una bella cera, Louis. Forse dovresti riguardarti. Buona giornata, my lord.»
Aveva finito ripetendo sempre la stessa frase, mentre io, osservandolo andar via, mi ero affannato a dirgli: «Mi chiamo Lewis, non Louis.»
Stava diventando piuttosto frustrante, perciò avevo pensato che la situazione dovesse cambiare.
Cambridge, 14 ottobre 1936
Will era strano. Aveva capito che lo stavo prendendo per il culo, dall’altro lato della sala da tè. Da quando aveva notato la mia presenza, avevo mimato gesti improbabili e mosso le labbra lentamente. Immaginavo sapesse a cosa mi stessi riferendo, ma non aveva mai riso e neanche si era alzato. Si era limitato a sollevare gli occhi e a guardarmi, prima di tornare al libro poggiato sulle sue ginocchia. Ci eravamo visti solo tre volte, sempre in un bagno, e in nessuna occasione ero riuscito a dire un’intera frase di senso compiuto, e cominciavo a temere che mi credesse una sorta di ritardato. Certo, stare lì a boccheggiare facendo dei gesti non era esattamente il modo migliore per fargli cambiare idea, ma avevo un unico argomento a mia difesa.
Così mi avvicinai, fingendo un’aria sicura e sperando in uno sguardo intenso.
«Will» esordii.
«Non è stata una mia idea, sono dotato, ma sarebbe stato troppo geniale perfino per me.»
Lo sguardo era fisso e il tono quasi indifferente, pieno di qualcosa di inafferrabile. Sorvolai sul dotato, per non dargli la soddisfazione di aver notato i dettagli.
«E allora chi è il genio che lo ha pensato?»
«Shay.»
«Non capisco.»
«Pare che il tuo amico, quando fa una domanda, si aspetti che gli rispondano immediatamente. È chiaro che non è abituato alla gente che formula risposte sensate, ma solo monosillabi, perché quando mi ha chiesto quale lato della stanza avessi scelto, e ho esitato, ha pensato che non fossi in grado di sentirlo. E ha iniziato a urlare per farmi le domande, ritenendo forse che, facendolo, gli avrei risposto con più solerzia. Così ho pensato che avrei preferito davvero essere sordo, piuttosto che ascoltare le sue idiozie per tutto l’anno, e gli ho fatto capire, a gesti, di non poter sentire. Ha imprecato per un po’, ma poi ha smesso. E adesso vivo nella pace del silenzio e senza ansia da conversazione.»
Bene. Sull’eloquio era in vantaggio lui, ma nella corsa a sembrare un coglione vincevo io.
«Direi che la stima sul dotato non ti rende onore.» Non potevo credere di aver appena davvero detto una cosa del genere.
«Grazie, my lord, non speravo in un complimento così, come dire? Intimo.»
Ma, un attimo: era arrossito?
«Per quanto riguarda Breen,» continuò «ti pregherei di non tradirmi. La verità verrà fuori, prima o poi, perché mi tradirò, ma per la mia incolumità fisica preferirei rimandare, visto che, dubito, la prenderà bene.»
Annuii, mi sedetti accanto a lui e gli dissi sottovoce: «E io gradirei da te la stessa discrezione sul modo in cui ci siamo conosciuti.»
Alzò lo sguardo su di me, infastidito. «Non vedo cosa ci sia di sbagliato. Non è sconveniente che fuori dall’orario scolastico, due ragazzi vadano a bere un whisky in città. Ma, se preferisci, lo terrò per me.»
Ero pietrificato dalla sua freddezza. Quella sua risposta era formale, perfetta, eppure mi disturbava. L’idea che mi ero fatto di lui, prima di quella conversazione, era assolutamente stravolta. Non sembrava a suo agio e stava per lasciarmi di nuovo in preda ai dubbi, ma stavolta non glielo avrei permesso.
Fui veloce e, prima che si alzasse, gli misi una mano sulla gamba e lo trattenni: «Resta. Stavo andando via comunque e oggi tocca a me offrire da bere.»
«Buona serata, allora» rispose, confermando i miei dubbi.
Era a disagio e non aveva voglia di scherzare, mentre io ero furioso senza ragione. Avrei voluto sorprenderlo e fargli cambiare idea su di me. E, invece, ero io a farmi delle domande. Quel ragazzino mi stava facendo impazzire.
Cambridge, 16 ottobre 1936
Dopo quasi due settimane dall’inizio dei corsi, finalmente anche il professor Maxwell cominciò con le sue lezioni. Il problema di Erwin Maxwell non era non conoscere la materia o non saperla spiegare. Per insegnare Storia e Critica Storica a Cambridge, essere tra i migliori insegnanti del pianeta era solo un requisito del curriculum; il problema del professor Maxwell era la sua assoluta intolleranza per tutto ciò che riguardava l’aristocrazia e l’alta borghesia. Non era un rivoluzionario o un socialista, semplicemente non aveva in simpatia i ricchi rampolli della nobiltà o certi ragazzini viziati che popolavano le aule dell’università. Il fatto che tre quarti della sua classe fosse composta dalla futura classe politica britannica non lo inibiva, anzi, se possibile, lo fomentava, spingendolo ai limiti del sadismo pedagogico. Quella mattina sarebbe stata una delle solite lezioni del venerdì, in cui tutti pensavano a come occupare il fine settimana, mentre io pensavo a Will Chase e a come convincerlo a quella “replica” che mi aveva promesso. Ogni tanto, tra una parola di Maxwell su Elisabetta I e il complotto Babington, avevo anche sprazzi di lucidità, in cui pensavo che, quella volta in bagno, Will mi avesse solo preso in giro; ma il problema era che mi ricordavo anche l’altro, di bagno, e non riuscivo a smettere di chiedermi se gli fosse piaciuto e quanto, perché se la risposta si avvicinava a quello che avevo provato io, il rischio era che lui non stesse scherzando.
Solo che dopo quella volta nella sala da tè, quando mi era sembrato una copia sbiadita del ragazzo che avevo conosciuto, non ci eravamo più incrociati. In realtà, ogni tanto, dopo le lezioni, andavo a fare delle retate in camera di Shay, ma Will non c’era mai. Breen non sapeva mai dove fosse, anche perché, per chiederglielo, avrebbe dovuto scrivere e sarebbe stato troppo strano. E così io pensavo al vero dramma esistenziale della mia vita, nonostante Maxwell mi disturbasse con le sue corbellerie su quella stramaledettissima Elisabetta Tudor, tra l’altro pure vergine: capirai che lusso di regina. Finché Maxwell non si interruppe, attirato da una mano alzata.
«Aspettate la fine della lezione per le domande, per cortesia.»
«In realtà, più che una domanda avrei una richiesta.»
Be’, non ero esattamente nella mia condizione psicofisica migliore, però ora si stava esagerando, perché c’erano solo due possibilità: o ero io, o era lui. O ero io il pazzo che credeva di aver sentito la voce di Will Chase anche durante una noiosissima lezione di Maxwell, o quello che si stava suicidando, interrompendolo davanti a tutti, era Will Chase. Ma dalla penultima fila, dove quella mattina ero riuscito ad acquattarmi, non riuscivo a vederlo.
«Può ripetermi il suo nome, prego?»
«In realtà non l’ho mai detto. Comunque, William Chase.»
Bene. Una buona notizia e una cattiva: io non ero pazzo, lui sicuramente sì.
«E mi dica, signor Chase, qual è il suo problema?»
«Lei sostiene che la Storia è un insieme di eventi che ritornano ciclicamente, è così?»
«Sì, esatto.»
«Mi auguro non voglia arrivare a sostenere la tesi di Vico, perché un sermone sulla Divina Provvidenza non credo le si addica, tuttavia mi chiedevo: come si interpretano, nel quadro degli eventi che ciclicamente si ripetono, gli interventi di fattori naturali che cambiano il corso della Storia?»
«Si spieghi meglio.»
«Lei ritiene che il fallimento dell’Armada e il crollo dell’Impero spagnolo fossero inevitabili, perché rientra nel “destino” dei grandi imperi. E se invece quel giorno del 1588 il vento sulla Manica avesse soffiato contro le navi incendiarie inglesi, invece che a favore, che fine avrebbe fatto il ciclo di rinnovamento storico? Perché sono abbastanza sicuro che gli spagnoli avrebbero risalito il Tamigi e di Elisabetta Tudor sarebbero rimaste solo parrucche e gorgiere.»
Lo sguardo di Maxwell si incendiò e io mi misi dritto sulla sedia per non perdere neanche un fiato della risposta. Lui era rigido, ma controllato, e dall’espressione sanguigna sembrava avesse già scelto come ribattere.
«Signor Chase, capisco il suo eccesso di zelo, è giovane, intraprendente, magari conosce anche poco la legge in materia di pene capitali, ma devo innanzitutto farle notare che, all’epoca, i sovrani non si condannavano tra loro.»
«Oh, certo. Lo pensava anche Mary Stuart, regina di Scozia. E sono sicuro che avrà giustificato sua cugina Elisabetta ritenendola una sovrana non legittima. In fondo, era il suo il trono che aveva usurpato prima di farla decapitare.»
Maxwell era furioso e a un passo dal perdere le staffe. Tutta la classe era silenziosa, invece io mi stavo eccitando, nel vero senso del termine. E sì, sapevo quanto fosse poco edificante, ma sentivo la voce bassa di Will non perdersi mai in sfumature di colore; era serafico, ma sarcastico, e io mi stavo eccitando.
Il professore tuonò ancora: «Signor Chase, le ricordo che Mary Stuart fu condannata a seguito di un regolare processo.»
«Professor Maxwell, mi scusi, ma un processo in cui una regina cattolica non viene giudicata da suoi pari, bensì da un gruppo di lord inglesi, e per la maggior parte protestanti, più che un processo è una farsa.»
«La Storia non si fa con i se e con i ma.»
«Neanche con teorie preconfezionate e vecchie di duecento anni, se è per questo. Capisco che lei è abituato a insegnare questa Storia, ma esiste il liceo; lei pensa di potermi dire qualcosa che ancora non so, perché se lo scopo è di crogiolarci per tutto il semestre nel ricordo di quanto sia grande l’Inghilterra, mi basta fare un giro per ammirare le statue nelle piazze di Londra e il risultato, mi creda, sarà lo stesso.»
«Pensa di saperne più di me, signor Chase?»
«No, professore. Vorrei soltanto focalizzare l’attenzione su dettagli che, per formazione, lei tende a ignorare e penso che lei abbia da insegnarmi molto più di questo. Non capisco perché si rifiuti di farlo.»
«Ha intenzione di essere così polemico per tutto il trimestre?»
«Dipende, lei ha intenzione di imporci la Storia secondo i pilastri di certezze tradizionali o vuole insegnarci come si sta in bilico tra dubbio e verità?»
E qui accadde il fatto.
Maxwell scoppiò a ridere. «Sarà un trimestre interessante. Cercherò di non deluderla. Avrei dovuto immaginarlo che non sarebbe stato un soggetto facile, quando ho letto la sua nota a margine sul test di ingresso.»
Quando la lezione finì, Will sgusciò via dall’aula con discreta eleganza. Decisamente sapeva come entrare in scena con classe.
«Hai sentito del tizio che ha quasi umiliato Maxwell a lezione?»
Reggie sembrava non aspettare altro da quando era tornato in camera. Era ovvio che la notizia si sarebbe diffusa come una velina del Times. Il professor Maxwell era conosciuto, temuto e detestato da tutti quelli che avevano avuto il (dis)piacere di essere suoi studenti e il fatto che qualcuno gli avesse tenuto testa era un evento leggendario. Tutti parlavano di William Chase, tutti chiedevano di lui. Benvenuti nella mia vita, plebei! E la cosa mi irritava. Era solo una novità, una storia divertente, ma mi dava fastidio l’idea che lui fosse al centro dell’attenzione. Ero geloso, anche dell’idea che lo guardassero. Peggio, ero geloso dell’idea che avessero scoperto la sua esistenza. Sapevo che non tutti sarebbero impazziti lasciandosi ossessionare da Will Chase con la stessa facilità con cui l’avevo fatto io, ma il pensiero che anche uno solo degli insulsi studenti di Cambridge iniziasse a guardarlo mi faceva diventare matto.
Era mio.
Era la mia ossessione, e doveva rimanere soltanto la mia.
A questo pensavo mentre ignoravo Reggie.
«Aspetta,» proseguì «tu c’eri...»
«Cosa?»
«Tu segui il corso di Maxwell, eri presente allo spettacolo!»
«Non c’è stato alcuno spettacolo. Maxwell stava spiegando e lui è intervenuto, facendogli una domanda, e da lì ne è venuta fuori una sorta di battibecco.»
Reggie aveva lo sguardo fisso fuori dalla finestra, come se quello che stavo dicendo non gli importasse, e ridacchiava.
«Se non ti interessa, non farmi domande.»
«No, scusa, è che il tizio in questione è il coinquilino di Shay. Ricordi?»
«Ah, sì, giusto» replicai, restando sul vago e fingendo di ricordare a malapena il suo nome.
«Allora?»
Scossi la testa: «Allora, cosa?»
«Dai, Lewis, in che cazzo di universo vivi? Shay ci ha detto che lui è sordomuto.»
«È vero...»
«Appena l’ha scoperto, l’ha cercato per tutta l’università, senza trovarlo.»
Fu in quel momento che mi tornò in mente la discussione con Will, nella sala da tè: “La verità verrà fuori, prima o poi, perché mi tradirò, ma per la mia incolumità fisica preferirei rimandare, visto che, dubito, la prenderà bene.”
«E adesso Shay dov’è?» chiesi, preoccupato.
«Quando l’ho lasciato stava tornando in camera» rispose Reggie, ridacchiando.
«Che cosa c’è da ridere?»
«Poco fa ho visto il sordomuto entrare nel dormitorio e ora Breen lo starà già gonfiando come uno zeppelin.»
Odio correre. Ho sempre odiato correre. Corrono quelli che hanno fretta e io non ne ho mai. Corrono quelli entusiasti e io sono sempre annoiato. Corrono quelli che non perdono tempo e io ho sempre amato l’ozio. Corrono i matti, i bambini, i domestici, i ladri e i vigliacchi. E poi corrono quelli a cui importa di qualcosa o di qualcuno.
Odio correre.
Eppure...